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ALLODI Italo: l’uomo dei trionfi e dell’oblio

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GLI INIZI

Nato ad Asiago il 13 aprile 1928, figlio di un ferroviere e di una casalinga, Allodi fin da giovane si riconosceva un talento ancora tutto da scoprire ma non da sprecare in una vita da ferroviere (i genitori gli fecero fare l’esame da capostazione ma lui scappò). «All’inizio – raccontava – avevo dinanzi tre possibilità per diventare qualcuno. A parità d’interesse, c’erano il calcio, la pittura, il giornalismo». C’è stato un periodo in cui Allodi si occupava di tutte e tre le cose insieme. «Un giorno ho dovuto fare una scelta precisa. La scelta è stata dura ma necessaria. Mi occorreva denaro per vivere. Il denaro poteva immediatamente venire soltanto dal gioco del calcio».
E il calciatore fece, ma di piccolo cabotaggio, approdando come massimo in serie C. Non doveva effettivamente essere un granchè se Edmondo Fabbri, allora al Mantova, lo prese dicendogli chiaro e tondo: “Vieni, ma sta buono e occupati di altro“. Diventò “segretario” della società scavalcando ben presto col suo dinamismo le tradizionali prerogative della carriera. Gestì così bene la società, portandola in serie B, che quando Angelo Moratti si trovò ad aver bisogno per l’ Inter di uno sveglio e capace, se lo prese subito. In quegli anni, alla fine dei 50, c’era un personaggio del nostro calcio che dettava legge dall’alto della sua autorevolezza di manager: «Gipo» Viani, il cervello pensante e organizzativo del Milan.

GLI ANNI DELL’INTER

A lui sicuramente si ispirò Allodi quando, giunto a Milano chiamatovi dal presidente dell’Inter, intuì che la sfida con cotanto rivale poteva soltanto finire male se lui non si fosse impegnato «intus et in cute» nel ruolo che Moratti gli aveva affidato. All’Inter, oltretutto, doveva talvolta scontrarsi con un tipo piuttosto spigoloso dal carattere fermo e grintoso, ossia Helenio Herrera, il tecnico appena arrivato ad allenare la squadra. Eppure, unendo diplomazia a risolutezza, muovendosi con disinvoltura in un ambito non sempre costituito da amici comprensivi, Allodi pervenne a stabilire un rapporto intelligente, efficiente e proficuo con il clan tecnico e con quello dirigenziale. Sull’asse Moratti – Allodi – Herrera nasceva la leggenda dell’Inter euromondiale, capace di conquistare tre scudetti dal ’63 al ’66 e di aggiudicarsi consecutivamente due Coppe dei campioni e altrettante intercontinentali.
A suo merito indiscutibile sono da attribuire gli ingaggi di Luisito Suarez, colonna portante dei successi nerazzurri in quel periodo, di Jair Da Costa, infine quasi quasi di Pelé, addirittura, che non vestì la maglia dell’Inter per il timore di una sollevazione dei tifosi del Santos. La fama di Allodi ingigantiva di stagione in stagione man mano che l’Inter accresceva il numero dei suoi trionfi.
Se è vero che, sul piano tecnico, a Herrera va ascritto il merito di una conduzione esemplare, se è altrettanto giusto riconoscere a Moratti la saggia e insieme incisiva partecipazione – da presidente oculato – alle sorti della squadra, va pur detto e sottolineato che Italo Allodi rappresentò per l’Inter un modello ideale in un campo che, a quell’epoca, ancora aveva il sapore di inedito.
Merito di una grande organizzazione, all’epoca unica” spiegava Allodi, che nelle questioni tecniche era entrato soltanto una volta, per suggerire a Herrera una tattica meno spregiudicata dopo una storica sconfitta sul campo del Padova di Rocco. Nasceva anche la leggenda del manager che manovrava acquisti e cessioni, che consigliava, imponeva e vietava, muovendosi nei saloni dell’Hotel Gallia con stile impeccabile, volontà di ferro e abilità diabolica.

Avrebbe potuto fare di più, per la Grande Inter. Così ricorda in un’intervista del 1997: «Avevo in pugno Eusebio e Beckenbauer. Un giorno il fenomenale portoghese venne in Italia, a Venezia, per sciogliere un voto a San Marco. Lo incontrai e lo portai a Milano, nell’ufficio di Angelo Moratti. Stretta di mano e dichiarazione di Eusebio: “Presidente, se lascio Lisbona, lo faccio solo per l’Inter”. Un’estate catturai Beckenbauer. Era in vacanza sull’Adriatico e lo convinsi a trasferirsi all’Inter. Firmammo il contratto a Cesenatico, nel capanno balneare del conte Rognoni, proprietario e direttore del Guerin Sportivo. Mi tradì però la federazione, che nel 1965 chiuse le frontiere. Pelé lo bloccai grazie a Gerardo Sannella (una specie di procuratore primordiale che portò Jair a Milano). Era tutto fissato: il contratto con il giocatore, la cifra da versare al Santos per il cartellino: sarebbe costato seicento milioni di lire di trent’anni fa. Una somma enorme, per l’epoca. Moratti non avrebbe avuto problemi a “coprirla”, ma si fece prendere da certi scrupoli. C’erano le prime avvisaglie del ’68, nelle fabbriche cominciavano a dilagare scioperi e rivendicazioni salariali. Per evitare polemiche, mollammo la presa e Pelè restò dov’era».
Eusebio, Beckenbauer e Pelè: re colpi mancati per un niente. C’era anche chi lo accusava di ammaliare gli arbitri con regali costosi, ma lui tagliava corto: «Balle. Se bastassero un orologio d’oro o una pelliccia di visone, saremmo tutti campioni del mondo».

GLI ANNI DELLA JUVENTUS

Mentre Angelo Moratti lasciava l’Inter, l’avvocato Agnelli voleva rifondare la Juventus che navigava nei bassifondi delle classifiche. E Allodi approdò a Torino come segretario generale rifondando la società bianconera e gettando le basi di quella futura struttura modello che la Juve può ancora vantare nei confronti di molti altri club. Fu Allodi ad acquistare giocatori giovanissimi dal luminoso avvenire: Bettega, Causio, Furino, Zoff, Cuccureddu…
Curioso l’aneddoto su quest’ultimo: “Giampiero – disse Agnelli a Boniperti chiamandolo da Cortina appena seppe di quell’ acquisto – ma come può uno che si chiama Cuccureddu giocare nella Juve?“. Ormai la sua personalità si imponeva sia per l’acutezza degli orientamenti, sia per la soluzione di problematiche sulla stregua di una maturata esperienza.
Però Boniperti non lo amava: c’era posto soltanto per un gallo, nel pollaio juventino. Troppi regali, e poi Allodi era un fanatico del protocollo, coltivava lo pubbliche relazioni, azzeccava gli acquisti, dominava il mercato, curava i dettagli, tesseva tele importanti ma anche imbarazzanti. Godeva di una personalità forte e ambigua. Venerato in pubblico, chiacchierato in privato: una sorta di Andreotti calcistico.

L’APPRODO IN FEDERAZIONE

Lascia la Juventus nel 1974 dopo due scudetti e viene chiamato nel clan Azzurro da Franchi per sostituire il Mandelli messicano nel ruolo di tutore di Valcareggi. Non ebbe fortuna, i laziali, da Chinaglia in giù, gliela giurarono e la spedizione sfociò in uno squallido ko.
Diventò direttore tecnico di Coverciano, un posto che in mano a chiunque altro sarebbe diventato una sinecura tranquilla dove percepire uno stipendio facendo il meno possibile. E invece Allodi reinventò il calcio moderno, l’università di Coverciano dove si studiava da allenatori e da manager. E si studiava talmente bene che Allodi fu chiamato a sua volta a tenere una conferenza alla Bocconi di Milano. Fu il primo a scovare nelle pupille allucinate di Arrigo Sacchi la luce del predestinato: «Sarà il nuovo Herrera».
Ma intanto in ambiente federale sotto la cenere covava una rivalità senza fine con Bearzot. Per la verità a tutte le domande su questo argomento, Allodi ha sempre risposto di non sapere perchè Bearzot ce l’avesse con lui, di avergli scritto più volte lettere di pace, senza mai ottenere risposta. Non è difficile immaginare che due uomini così diversi, tanto integralista Bearzot quanto pragmatico e agile Allodi, non potessero in alcun modo andare d’amore e d’accordo. Certo è che dopo il trionfo spagnolo del 1982, alla vigilia del quale Allodi aveva espresso molte perplessità, Bearzot chiese la sua testa, e la ebbe.

GLI ULTIMI ANNI

Dopo i mondiali del 1982 accettò la direzione organizzativa della Fiorentina dei Pontello, portandovi Lele Oriali, uno dei primi giocatori strappati a parametro. Il feeling in riva all’Arno non durò a lungo. Fece una pausa allietando, con la sua eloquenza suadente, il pubblico della Domenica Sportiva, poi il Napoli. Una città non facile per un manager “asciutto” come lui. Venne assunto come consigliere del presidente Ferlaino.
Arrivano i giorni di Maradona e poi lo scudetto. Ma anche l’inizio del suo malinconico crepuscolo. Nella primavera del 1986 era stato coinvolto nella seconda, lacerante puntata dello scandalo scommesse. Ne era uscito assolto, però macchiato, segnato e sconvolto. L’accusavano di aver manipolato il risultato della partita con l’Udinese. “Sono stato accostato ad Al Capone, ho perso la serenità, passo le notti in bianco” si lamentava, attribuendo alla vicenda il trauma che il 12 gennaio 1987 gli sarebbe costato un ictus. Poche ore prima il Napoli aveva festeggiato il titolo d’inverno, prologo alla conquista del primo scudetto della sua storia. L’ultimo capolavoro di Allodi. Si riprese a fatica, e, sempre a fatica, uscì pian piano dal suo mondo.

I suoi ultimi anni trascorsero in una sconfinata amarezza. A chi gli era rimasto amico e lo raggiungeva con qualche telefonata, oppure passando per Firenze con una breve visita, Italo confidava di sentirsi così estraniato da non riconoscere più l’ambiente del calcio che andava mutando. Soprattutto, senza che lui lo ammettesse, si intuiva una sua mortificazione per essere finito in un cono d’oblio. Morì in una clinica di Firenze, stroncato da uno scompenso cardiocircolatorio il 3 giugno 1999 a 71 anni portando con sé per sempre grandiosi successi e insondabili misteri.
Il suo nome resterà legato ai trionfi dell’ Inter di Angelo Moratti e Helenio Herrera, al ciclo juventino dei primi anni Settanta, alla costruzione del Napoli vincente con Diego Maradona. Per quasi trent’ anni e’ stato nel cuore del potere del calcio italiano. E lavorando dietro le quinte, come un cardinale Richelieu, ha contribuito a traghettarlo dall’era premoderna al terziario di fine secolo. Bello come un attore anni Cinquanta, affascinante quanto serviva, Allodi e’ stato il primo a capire l’importanza delle pubbliche relazioni nel calcio. Il suo charme, i mezzi di Moratti e quelli degli Agnelli piu’ tardi, gli hanno permesso di aprire qualsiasi porta.

Ai tempi d’oro, dominava tutte le trame del mercato e controllava bene, pare, anche le abitudini degli arbitri. Come tutti gli uomini potenti, ha avuto molti complici e qualche nemico. Anche perchè si è trovato dentro a un crocevia, nella storia del nostro calcio. E molto ha fatto per strapparlo in avanti, ben capendo che il futuro sarebbe stato di allenatori e manager formati su basi scientifiche. Da qui l’idea dell’ Università di Coverciano, istituita nel 1976, che è ancora un modello per il calcio mondiale.

ALBERTOSI Enrico: l’artista tra i pali

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Quando scese in campo all’Ardenza di Livorno per dispu­tare la sua prima partita di serie A, Ricky Albertosi ave­va da poco compiuto i diciannove anni, era stato acquistato dallo Spe­zia e si era messo di buzzo buono per imparare tutto quello che era possibile imparare da un grande maestro come Giuliano Sarti, allora ventiseienne. Era il 18 maggio del 1959, era in programma Roma-Fio­rentina e i viola, in classifica, inse­guivano ad un solo punto di distac­co il Milan capolista, che giocava – tra gli altri – con Buffon, Liedholm, Maldini, Galli, Schiaffino e Grillo. Per una squalifica del cam­po comminata dalla Lega, la par­tita si sarebbe giocata a Livorno e Albertosi, tutto a un tratto, venne buttato dentro, per una lieve indi­sposizione di cui rimase vittima Sarti.

Ricky Albertosi stava per di­sputare la sua prima partita in se­rie A. Fu 0-0, un risultato a quei tempi decisamente inconsueto. E Nicolò Carosio, telecronista già famosissi­mo ed anche apprezzato giornalista de «Il Calcio e il Ciclismo Illu­strato», commentò sulle pagine del­lo stupendo settimanale sportivo ro­mano: «Niente scorpacciata viola con la Roma, ma un buon primo tempo, un secondo alquanto opaco, e zero al passivo soprattutto per merito del diciannovenne portiere Albertosi, debuttante, nato a Pontremoli e proveniente dalle file dello Spezia. A partita conclusa – pro­seguì Carosio – l’ottimo Albertosi, che in trasmissione ci aveva fatto provare emozioni, vertigini, stupo­re, tanto arditi, tanto plastici e sicuri erano stati molti suoi interven­ti, appariva come uno qualunque al termine di una comune giornata lavorativa. Niente emozionato, per nulla commosso, guardava stupito tutta quella gente che si occupava di lui, che lo festeggiava, che gli fa­ceva auguri a non finire per una brillante e proficua carriera». Era la sedicesima giornata del cam­pionato 58-59 e la prima apparizio­ne ufficiale di Albertosi in serie A.

Il primo gol subito, per il ragazzo di Pontremoli, arrivò invece otto giorni più tardi, in Fiorentina-Na­poli 4-1. L’ala sinistra Petris era già andato a rete per i viola dopo soli 7 minuti di gioco, ma al quin­dicesimo, con una staffilata di de­stro scagliata da pochi metri entro l’area, Luis Vinicio – centravanti partenopeo – diede al portiere vio­la il primissimo dispiacere della sua carriera. Un altro centravanti – il sampdoriano Milani – trafisse Albertosi per la seconda volta, su punizione, in occasione della terza partita giocata in A dal giovane portiere toscano. Ma anche in quel­l’occasione la Fiorentina si aggiudi­cò l’incontro per 4 reti a 1 e, anzi, raggiunse in classifica il Milan al primo posto, anche se – al termi­ne del campionato – i rossoneri conquistarono lo scudetto con tre punti di vantaggio sugli avversari.

Nel corso del campionato 58-59, il suo primo torneo, Ricky Albertosi sostituì Giuliano Sarti per ben cin­que volte, subendo in tutto cinque gol. La sua prima sconfitta avven­ne il 22 marzo, a Torino, nel corso della ventiquattresima domenica di campionato, per esclusiva colpa di Omar Sivori, il «cabezon». L’oriun­do argentino – con un’impresa a dir poco memorabile – arrestò da solo la trionfale marcia della Fio­rentina capolista, segnando ad Al­bertosi qualche cosa come 3 gol, e permettendo agli juventini di aggiu­dicarsi l’incontro per 3 reti a 2 (i gol dei viola portarono la firma del­l’interno Gratton). E il primo infor­tunio, sempre per Ricky, giunse a quattro domeniche dalla fine, ad interrompere il suo primo, promettentissimo campionato, nel corso di Genoa-Fiorentina, finita 0-0. Al 42′ del primo tempo, in uno scontro con Macaccaro, Albertosi riportava la frattura del setto nasale, ed era costretto a lasciare la sua maglia numero 1 al compagno Lojacono.

Il Milan, come det­to, a fine stagione si aggiudicò lo scudetto e la Fiorentina fu solo se­conda. In maglia viola, Albertosi rimase dieci anni. Il suo primo campio­nato da titolare, Ricky lo disputò solo nel 63-64, ma era talmente ap­prezzato che – nonostante la «co­pertura» di Sarti – venne chiamato ad indossare la maglia della Nazio­nale il 15 giugno 1961, proprio a Firenze, in Italia-Argentina 4-1. A quei tempi, il titolare della maglia azzurra era Buffon, dell’Inter. Ma l’allora Commissario Tecnico della squadra azzurra, Giovanni Ferrari, volle premiare il campioncino di Pontremoli che, pure, in campio­nato non giocava quasi mai; e lo chiamò a difendere la porta della squadra azzurra che, davanti a lui, schierava Robotti e Benito Sarti; Bolchi, Losi e Trapattoni; Mora, Lojacono, Brighenti, Sivori e Cor­so. L’Argentina venne sconfitta sen­za problemi, il solito Sivori mise a segno due gol e il nostro Ricky venne battuto per la prima volta in azzurro dal mediano Sacchi, che lo trafisse al 22′ della ripresa.

Albertosi andò in Cile, ma solo co­me terzo portiere. Ai Mondiali – peraltro sfortunati – giocarono due partite Buffon e una Mattrel. E Ricky, dopo due anni d’intermezzo tra­scorsi sotto il segno di William «Carburo» Negri, fece ritorno in maglia azzurra il 13 marzo 1965, ad Amburgo, nel corso di Germania-Italia 1-1, giorno in cui sostituì lo stesso Negri. Da due anni, Ricky si era finalmente conquistato la ma­glia numero 1 della Fiorentina, e ormai aveva prenotato anche quella della Nazionale, mentre – a grandi passi – ci si stava già avviando ai Campionati del Mondo d’Inghilter­ra. Mondiali infausti: l’Italia cominciò bene battendo il Cile (tremenda vendet­ta), continuò male perdendo con­tro la Russia e finì miseramente, sconfitta (1-0) dalla Corea del Nord, nella partita che avrebbe invece do­vuto spalancarci le porte dei quar­ti. Particolare curioso: la gara gio­cata all’Ayresome Park di Middlesbrough con la Corea, per Ricky Al­bertosi era – in azzurro – la nu­mero 13… E Albertosi – pur senza colpe specifiche – passò così alla storia come uno degli undici «co­reani», il portiere azzurro che do­vette raccogliere in fondo al sacco il pallone scagliato dal sergente-den­tista Pak Doo Ik. Insomma: una vergogna!

Naturalmente, quando riprende l’at­tività azzurra la colossale «purga» post-Corsa non ha risparmiato nes­suno, o quasi. Degli undici «colpe­voli», rimangono in squadra i soli Facchetti, Guarneri e Mazzola, e Ricky Albertosi viene sostituito nien­temeno che da Giuliano Sarti, il suo maestro di un tempo ormai passa­to alla grande Inter. L’avvicenda­mento ha breve durata. Per la ma­glia di titolare numero 1 tornano infatti ben presto in lizza Dino Zoff e Albertosi, e a Roma – agli Eu­ropei del ’68 – è proprio il portierone del Napoli a scendere in cam­po e a togliersi la soddisfazione di riscattare il calcio italiano, nella famosa doppia finale con la Jugoslavia, la prima pareggiata per 1-1, la seconda vinta per 2-0. Subi­to dopo la conclusione degli Euro­pei, Albertosi – da dieci anni alla Fiorentina – viene acquistato dal Cagliari, la squadra di Riva che, lentamente, sta modellandosi sulla falsariga dei più grossi clubs me­tropolitani.

Per uno di quegli scher­zi che, spesso, la sorte gioca nel calcio, non appena Albertosi abban­dona la maglia viola, la Fiorentina si aggiudica lo scudetto. E’ la stagione 68-69. Per Albertosi, però, l’occasione del grande riscatto arri­va proprio l’anno dopo, nella stagio­ne 69-70. Il Cagliari, nel campionato che prelude ai Mondiali di Città del Messico, non sbaglia quasi niente, andando a vincere uno scudetto memorabile, grazie all’apporto di giocatori di classe mondiale come Cera, Domenghini, Gigi Riva e, naturalmente, Albertosi, che oltre a conquistare il pri­mo scudetto della propria carriera, stabilisce anche il record del minor numero di reti subite in un campionato a 16 squadre: solo 11.

Quando infatti, a fine stagione, il Cagliari vince a Torino, contro i granata, addirittu­ra per 4 reti a 0, i soli giocatori che possono vantarsi di avere trafitto il portiere cagliaritano sono Facchin (del Vicenza, 2. giornata), Suarez (Inter, 6. giornata), Cuccureddu (Ju­ventus, 9. giornata), Troja (Palermo, 12. giornata), Prati (Milan, 14. gior­nata), Vitali (Vicenza, 17. giornata), Boninsegna (Inter, 21 giornata), Peirò (Roma, 23. giornata) e Anastasi (Juventus, 24. giornata). Anastasi ha battuto Albertosi dagli undici metri, e a questi nove atleti vanno anche aggiunti i compagni di squadra Do­menghini e – immancabile – Niccolai, protagonisti di sfortunate au­toreti rispettivamente alla 10. gior­nata (a Verona) e alla 24. (a To­rino con la Juve). Insomma: in 30 partite di campionato, Albertosi la­menta soltanto 11 reti subite, due delle quali su autogol e una su calcio di rigore. Addirittura, in ben quattro occasioni viene battuto ne­gli ultimissimi minuti di gioco (so­no i gol di Facchin, Cuccureddu, Vitali e Boninsegna) e soltanto a Torino, contro la Juve, Ricky incas­sa più di un gol (per l’esattezza due). Un’autentica impresa, che ser­ve al Cagliari per chiudere vit­toriosamente a quota 45, con quat­tro punti di vantaggio sull’Inter e 7 sulla Juventus, le due grandi de­luse del campionato.

La sensazionale performance di Al­bertosi non può passare inosservata a livello di maglia azzurra. Sono alle porte i Campionati del Mondo di Città del Messico e Albertosi, sul­le ali del successo conseguito a Ca­gliari, ha da poco riconquistato il posto in Nazionale, a danno di Zoff. Il portiere di Pontremoli sta per compiere i 31 anni, è nel pieno del­la propria maturità tecnico-atletica e si accinge a disputare il proprio terzo Campionato del Mondo, il se­condo da titolare. Dopo i rovesci, più o meno clamorosi, dei Mondiali del Cile e d’Inghilterra, gli azzurri si apprestano ad intraprendere quest’avventura messicana con qualche apprensione. Senza entusiasmare, tagliano il traguardo dei quarti chiudendo le prime tre partite imbattuti e inviolati (Albertosi non subisce reti e Domenghini ci dà la rete della vittoria con­tro la Svezia). Poi arrivano il 4-1 al Messico, lo storico 4-3 alla Ger­mania di Beckenbauer (con Schnellinger che beffa Albertosi al 90′ e il nostro portiere che lo ricopre d’ insulti, per poi ripetersi, pochi mi­nuti dopo, all’indirizzo dello sven­turato Poletti, entrato al posto di Rosato e del tutto incapace di por­re un freno a Gerd Muller) e, in­fine, la netta eppure discussa scon­fitta col Brasile, in una finale che vede l’Italia franare nella ripresa, e Carlos Alberto, Jairzinho e com­pagni presentarsi indisturbati di fronte a un Albertosi completamente impotente. Contro il Brasile, allo stadio Azteca, Ricky Albertosi gioca la sua venti­settesima gara in azzurro.

La sua parentesi in Nazionale, ormai, è agli sgoccioli, e il grande Ricky gioca infatti ancora sette incontri, tra cui il doppio e deludente incontro con il Belgio, che segna l’eliminazione dell’Italia dagli Europei del 72. La sua ultimissima apparizione data 21 giugno 1972 e avviene allo stadio Levski di Sofia, per l’amichevole Bulgaria-Italia 1-1. Aveva iniziato a giocare in azzurro a fianco di Mora, Sivori e Corso e vi finisce giocan­do con Spinosi e Marchetti; Bedin, Rosato e Burgnich; Causio, Mazzola, Anastasi, Capello e Prati. Sono pas­sati più di undici anni dal giorno del debutto e ormai, si dice, Alber­tosi è vecchio, sicuramente avviato al viale del tramonto…

Ma Alber­tosi è giovanissimo. E nell’estate del 1974, alla bella età di 35 anni quasi compiuti, il grande Ricky viene acquistato dal Milan, che dopo i tempi di Cudicinì non ha più avuto un successore all’altezza. Ad ogni inizio di stagione si dice che, per Albertosi, dovrebbe trattarsi dell’ultimo campionato di serie A, ma il grande Ricky è inossidabile, e sorprende tutti. Si permette il lusso di salvare il Milan dalla prima re­trocessione della sua storia e, per finire, chiude in bellezza una carrie­ra fantastica vincendo uno scudetto (che il Milan inseguiva da dodici anni) a quarant’anni d’età, un vero e proprio record. Con il campionato 1979-80 e in seguito al coinvolgimento nella discussa vicenda del calcio-scommesse, dove fu squalificato per due anni, il gran­de Ricky si fa da parte, ed esce di scena. Nella graduatoria di ogni tempo per le presenze in serie A, Albertosi si ferma a quota 532.Un Grande.