Mondiali 1978 – Tre uomini, quattro storie

di Alfeo Biagi, Guerin Sportivo giugno 1978

Bellugi, Benetti e Zaccarelli raccontano il Mundial in chiave personale e collettiva. E le loro vicende finiscono per incrociarsi inevitabilmente con quella di Giancarlo Antognoni, il più vulnerabile e il più esposto degli uomini di Enzo Bearzot

BUENOS AIRES – Un mese: lungo anche se è il mese dei Mondiali. L’Hindu Country Club, ormai, è la seconda casa per gli azzurri. Le mattinate passano presto: la sveglia, il caffè, la visita dei giornalisti (intermezzo magari agrodolce per qualcuno, ma pur sempre una fonte di distrazione), poi il pranzo, il breve riposo, gli allenamenti, i rapporti di Bearzot, la cena. Dopo, la noia: qualche partita a carte, un poco di TV, i libri.
Ma le ore sgocciolano lente: qui ormai è inverno, il buio cala poco dopo le 16, le serate non finiscono mai. E un mese lontano da casa, anche se è il mese dei mondiali, diventa il mese più lungo. E’ più facile, allora, stabilire un contatto umano profondo, amichevole, sincero anche fra giornalisti e giocatore. Non è più la solita schermaglia fra chi vuole strappare una indiscrezione piccante o una nota di acre polemiche e chi si difende recitando la lezioncina mandata a memoria dietro suggerimento dei responsabili della quiete della Nazionale. Affiorano i lati umani del carattere dei giocatori, i discorsi si velano di malinconia, ma sono discorsi più sinceri…

Mauro Bellugi, ad esempio. E’ un uomo forte, un carattere che non si piega davanti alle avversità. A Buenos Aires ha capito che il famoso ginocchio non è stato soltanto il bisturi del professor Trillat a guarirlo; è stata la forza d’animo di Mauro, quel suo ribellarsi alla cattiva sorte, a propiziare il miracolo. E non mi stupisco quando Bellugi mi dice se Giancarlo Antognoni dorme con lui, sta sempre con lui, è il suo pupillo. «Vedi — dice con molta sincerità — Giancarlo è giovane ha un carattere docile, arrendevole. Lo hanno caricato, io penso, di responsabilità troppo grandi per lui, forse non se ne rende conto, ma ne soffre e finisce per chiudersi in se stesso, rifiuta il dialogo, teme gli interlocutori come altrettanti avversari. Io stimo Antognoni, qui ho preso a volergli bene. Ho preso parte alle sue angustie personali, a quel travaglio che, indubbiamente, ne ha compromesso anche il rendimento sul campo. Lui non ne parla, o ne parla poco, credo soltanto con me. Anche la situazione che si è creata, dopo quella specie di staffetta non programmata con Zaccarelli, deve averlo amareggiato profondamente. Ma lui tace, quando glielo chiedete voi risponde che va tutto bene, che il signor Bearzot ha ragione, che lui accetta senza ombra di risentimento. Ma io ho capito, io so che ne soffre profondamente. Giancarlo reagisce poco agli eventi contrari. Forse ha avuto inizi troppo facili, forse non si rendeva conto che la vita non regala niente, che prima o poi ti presenta il conto e bisogna pagare. Io lo so da sempre, ho avuto molto, ma ho anche pagato: senza abbattermi, senza arrendermi, mai. Lui no. Lui, se potesse, si lascerebbe scivolare, senza reazione, in una specie di rassegnato mutismo, aspettando che le cose prendessero la piega definitiva, da sole, Per questo io stimo molto, e apprezzo, Bearzot che, contro il parere di tutti, gli ha conservato il posto anche quando, forse, lui stesso poteva essere convinto che convenisse metterlo in disparte. Un giocatore, un uomo come Giancarlo Antognoni, si potrebbe perdere per chissà quanto tempo negandogli, improvvisamente, quella fiducia che per lui è tutto».

«Io — continua Bellugi — ho giocato un paio di partite al principio, diciamo quelle contro l’Ungheria e la Germania, con un dolore insistente ad una gamba. Ho chiesto una puntura prima di un allenamento, ho capito che avrei potuto giocare ho stretto i denti e quando Bearzot mi ha messo di fronte alle mie responsabilità, prima degli incontri, ho risposto senza esitare che ero pronto. So di non avere, mai, tradito la fiducia del ct. Contro Fischer, quel marcantonio tedesco che picchia come un fabbro, penso di aver giocato una buona partita. No, no, non come a Wembley o a Varsavia, quelli restano, per ora, i miei gioielli. Ma so di aver giocato bene. E lui, un po’ grezzo come tecnica ma temibilissimo per la astuzia e la forza fisica, credeva di intimidirmi entrando a catapulta, scalciando, colpendomi come e non appena poteva. Lo hai visto come è finita: in una entrata volante, ho allargato il gomito, c’è finito contro con il viso, è piombato il medico a cucirgli il labbro che penzolava sul mento, lì sul campo di gioco… io non cerco la rissa, ma se mi cercano mi trovano sempre».

«Vedi — conclude Bellugi (credo il più sereno, il più determinato, il più “cocciuto” fra gli azzurri) — io penso che questa nazionale ha un carattere, oltreché un gioco. Siamo uomini, lo sappiamo, cerchiamo di dimostrarlo ogni partita. Non posso sapere come finirà questa avventura azzurra, ma penso fermamente una cosa: torneremo a casa soddisfatti, sicuri di aver fatto il nostro dovere fino in fondo. Ci avevano dati per morti, siamo i più vivi di tutti. Dicevano, . lo so, che Bellugi ha una gamba più corta, che era una pazzia farmi giocare in nazionale, che Bearzot si era… innamorato di me. Ho letto, ho ascoltato, ho taciuto. Io preferisco rispondere sul campo. II calcio è il mio mestiere: non l’ho mai tradito, non lo tradirò mai. Bellugi è un uomo».

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Parlo confidenzialmente con Romeo Benetti, stella del Mondiale argentino, il «volante» (qui i centrocampisti li chiamano così) più ammirato di questo campionato dai centrocampisti perché mancano le «star» dell’area di rigore, gli uomini-gol, quelli che più colpiscono la fantasia dei tifosi. Romeo accetta il suo fardello di gloria senza fare una piega. «Vede, tutto questo can-can alla mia persona, mi sfiora appena, ormai ho trentatré anni suonati, gioco da quindici, niente più può scuotermi. Quando mi bollavano come il killer, l’ammazza-avversari, il delinquente del calcio italiano, ne soffrivo un poco, ma non davo troppo peso a queste accuse. Io non ho mai fatto male a nessuno di proposito, forse il mio modo di giocare che mi porta a dare (e a ricevere) colpi duri perché il calcio è un mestiere duro, impietoso. Mi chiamavano l’allevatore di canarini con frasi di scherno, il tedesco, il panzer senza anima. Io lasciavo dire e continuavo a giocare. Oggi sono diventato, di colpo, l’azzurro più lodato, tutti mi chiedono interviste, c’è sempre, attorno a me, qualcuno con un microfono in mano, vivo sotto le luci delle TV di mezzo mondo. Mi fa piacere, ma non mi esalto: ormai, dal calcio ho avuto tutto: scudetti, fama internazionale, adesso questo mondiale che, dicono, l’Italia sta giocando al massimo molto per merito di Romeo Benetti. E, vede?, i giornali sprecano copertine su copertine per me. Mi fa piacere, non voglio negarlo, ma per me tutto continua ad essere come quando mi dicevano killer, ammazza-avversari, tedesco senz’anima. Gioco per me e per gli altri, per la squadra, come gioco per la Juve, come giocavo per il Milan, per la Samp. Ho sofferto soltanto quando ho saputo che qualcuno mi aveva accusato di aver chiesto a Bearzot di non far giocare Antognoni perché non volevo marcare anche il suo avversario. Non è vero, è una bugia, perfida. Io non guardo mai a quello che fanno, o non fanno, i miei compagni di squadra, gioco e basta. Capita a tutti di mancare un passaggio, di non riuscire ad anticipare un avversario che fugge, di non capire in tempo Io sviluppo di un’azione che ti coglie di sorpresa. Capita a tutti, mi creda. Io non ho mai criticato nessuno, non ho mai chiesto la testa di nessuno. Gioco da troppo tempo per non capire che qualcuno può attraversare un momento difficile, guai a non tendergli la mano per aiutarlo a riprendersi. Romeo Benetti, l’ex killer, non ha mai pugnalato nessuno alla schiena».

Zaccarelli castiga la Francia

Renato Zaccarelli ha il viso sereno, gli occhi chiari, l’aspetto di un uomo in pace con il mondo intero. Gli chiedo se quella faccenda della staffetta con Antognoni lo disturbava un poco e «Zac», come sempre, risponde con un largo sorriso:
«Ma cosa dice… intanto, non era, non sarebbe, una staffetta. Il signor Bearzot non mi ha mai detto guarda che prima gioca lui, poi entri tu. Dice, sempre, con quelli della panchina, di stare pronti, di concentrarsi al massimo, perché da un momento all’altro può venire l’ordine di giocare. A me, come agli altri, contro la Germania, per esempio, all’intervallo stavo già rientrando quando Bearzot mi si è avvicinato e mi ha detto: resta sul campo, riscaldati, perché adesso tocca a te’. Antognoni era già rientrato, non l’avevo visto, non so cosa gli abbiano detto, come abbia accettato l’ordine di Bearzot. Io mi sono riscaldato, fuori, dà solo, poi sono entrato in squadra. Le cose sono molto più semplici, in fondo, di come le immagina la gente. Siamo un gruppo di giocatori chiamati a vestire la maglia azzurra, tutti siamo necessari, nessuno lo è più degli altri. Io sono felice quando mi fanno giocare, accetto senza fiatare quando mi lasciano fuori. E aspetto. So che molta gente (troppa, per la verità) non ha ancora finito di stupirsi, o di rammaricarsi, perché questa Nazionale, nella quale nessuno credeva, ha fatto tanto nel Mondiale. Pochi avevano capito che Bearzot era riuscito a creare un gruppo solidale, compatto, unito di uomini che si rispettano a vicenda, che si stimano l’un l’altro. E che antepongono gli interessi della Nazionale agli interessi personali. In fondo, è il segreto di questa nazionale che stupisce il mondo. Quando i nostri ‘nemici’ lo avranno finalmente capito, finiranno di masticare amaro e di aspettare, col fucile puntato, un passo falso per sparare a zero. Noi possiamo vincere o perdere, nessuno è invincibile, il Mondiale è una vicenda aspra, non concede respiro, non perdona il minimo errore. Ma noi siamo sereni: uniti, giochiamo con la ferma convinzione di dare sempre, tutto, per il bene comune. Chi non può capirlo, non merita altro che la nostra indifferenza».

Bellugi, Benetti, Zaccarelli: tre uomini, tre storie. Che, in fondo, ruotano attorno a Giancarlo Antognoni, il più indifeso, il più vulnerabile, il più esposto fra gli uomini di Bearzot. Ma che ha trovato a Baires il caldo conforto della solidarietà dei suoi compagni di avventura. Comunque si debba concludere la sua vicenda argentina, Giancarlo dovrà uscirne più forte.

Alfeo Biagi, giugno 1978