C’era una volta in America: una storia vera

Ora che i ricordi e i rimpianti si sono stemperati negli anni, proviamo a rivivere il film della partecipazione azzurra ai campionati del mondo 1994.

Ma appena riportiamo indietro il film dei ricordi, nell’estate torrida 1994, ci accorgiamo che non si tratta di un film ma di un melodramma, di una tempestosa, angosciata, romantica avventura a cui è mancato soltanto il sottofondo di una colonna musicale.

Un melodramma. E, del resto, cosa ha mai saputo dare di meglio, di più trepido e struggente, di più universale la nostra cultura? Giuseppe Verdi, colui che – come scrisse il suo più poetico biografo – «pianse ed amò per tutti», non avrebbe certamente disdegnato di dedicare un’altra delle sue splendide partiture alle vicende dei ragazzi di Sacchi, cominciando dalla inattesa sconfitta iniziale contro gli irlandesi di Jack Charlton per finire con l’indimenticabile, sconvolgente scena del pianto di Franco Baresi, il capitano coraggioso, protagonista della più grande prestazione del torneo tre settimane dopo l’asportazione di un menisco e, al tempo stesso, del più madornale errore nell’esecuzione del primo calcio di rigore, dopo i tempi supplementari col Brasile.

Tutto quanto è accaduto da costa a costa negli Stati Uniti, tra il 18 giugno e il 17 luglio 1994, alla nostra Nazionale, i suoi mancamenti, le sue strepitose reazioni, il suo furore, la sua disperazione, gli infortuni in serie e perfino i singhiozzi al “Rose Bowl” di Pasadena, dimostrano che chi parla di mercenari, di divi, di burattini della TV e della pubblicità, a proposito dei calciatori, non sa letteralmente di che cosa stia parlando. Perchè tutta la storia del mondiale americano è scritta in un inchiostro completamente diverso: appena si profila il primo incontro, dentro ciascuno dei 22 azzurri scatta una molla, un meccanismo automatico e misterioso che cancella di colpo ogni calcolo. I numeri del conto corrente si dissolvono in una nebbia e sullo schermo del mondiale comincia a scorrere il film di un sogno di gloria.

Ci sono, naturalmente, i giorni della preparazione, i giorni dei commenti, i giorni dell’attesa, ma quel tempo – che durante il campionato nazionale coincide così spesso con la noia del ritiro e la febbre degli affetti lontani – quando è “mondiale”, ha una valenza tutta differente: serve a riflettere sul mondo che circonda gli azzurri e ad affiatarli non più come una squadra, un collettivo qualsiasi tenuto insieme da una disciplina e da una mercede, ma piuttosto come un gruppo di compagni votati ad una missione difficile. Giocare all’estero e specialmente in una competizione di così paurosa risonanza planetaria, ti aiuta a capire meglio che cosa significa essere italiani, nel bene e nel male, quanti rischi si fanno correre al proprio Paese comportandosi male e quali benefici gli si possono procurare facendosi applaudire anche solo per un gesto cortese, una prova di lealtà e di disinteresse.

Tutto questo nel mese del mondiale USA, i ragazzi di Sacchi lo palesano in mille occasioni conquistandosi lentamente prima il favore degli italo-americani che pure erano esigentissimi, come tutti gli innamorati; e poi quello dell’intera opinione pubblica di quel grande Paese, che era estranea e indifferente al torneo del gioco ignorato. E lo hanno fatto, abbastanza paradossalmente, non tanto con prestazioni brillanti di cui tuttavia non solo Roberto Baggio o Maldini si sono confermati capaci, ma offrendo prove di tenacia, di fegato, di carattere che sono poi le virtù predilette di quel popolo di pionieri e di cui essi non avrebbero mai accreditato un pugno di giovani italiani.

La reazione alla sconfitta iniziale per mano dell’Eire, alle squalifiche, alle disavventure muscolari, alle delusioni di questo o di quel giocatore, alle stesse decisioni (talora bizzarre, o addirittura inspiegabili) di Arrigo Sacchi, il modo testardo di restare in gioco nonostante tutto, di far muro contro le avversità, hanno finito per stregare anche i critici più astiosi e prevenuti, quasi che errori e risultati modesti degli azzurri contassero meno del loro esemplare comportamento. Perfino la gomitata di Tassotti a Luis Enrique, volontaria o fortuita che fosse (conoscendo il terzino milanista, optiamo tranquillamente per la seconda ipotesi), ha suscitato censure meno severe di quanto si potesse temere, anche perché la giustizia dei dirigenti della FIFA si è trasformata in una vendetta spietata di cui nessuno ha accettato la misura.

Ma allora perché parliamo di melodramma, di un’avventura romantica, di una storia tempestosa? La risposta è semplice. Il melodramma, il romanticismo, la tempesta nascono da una contraddizione: la contraddizione tra ciò che gli azzurri di Sacchi hanno fatto nel mondiale USA e il modo con cui lo hanno vissuto, un traguardo lusinghiero, secondo posto e primato tra le formazioni europee; un cammino tormentato e doloroso come una via crucis.

Il copione sembra scritto a volte da Giacosa, tanto è commovente, a volte da Boito, tanto è poderoso. Si comincia già in chiave tragica: la sconfitta di misura per mano dell’Eire. Mentre il fratello di Sir Bobby Charlton segue la scena sogghignando dalla panchina refrigerata, Baresi combina un pasticcio che Pagliuca peggiora. Il mondiale non è ancora iniziato che già vacillano le nostre speranze, tanto più che sono mancati proprio i pilastri della nostra difesa.

Seconda sequenza: si passa dal tragico all’epico. (Qui ci vorrebbe addirittura il Wagner del “Parsifal”). Contro la Norvegia, si susseguono episodi da cardiopalmo: Pagliuca esce a valanga fuori area sull’ultimo avversario e viene espulso; Sacchi lo sostituisce con Marchegiani, come è ovvio, ma ritira dal campo anche Roberto Baggio, come nessuno al mondo si sarebbe mai sognato di fare; al 4’ della ripresa, salta un menisco di Baresi e il capitano di ferro deve lasciare saltellando il match; in dieci uomini, passiamo in vantaggio con un travolgente gol di Dino Baggio; dopo il gol, Dino si infortuna e con lui prende a zoppicare Maldini, per cui restiamo praticamente in 8 soli uomini validi e nondimeno resistiamo fino alla fine e possiamo ricominciare a sperare nella qualificazione.

Gli invitti difensori di Fort Apache si leccano le ferite, non solo quelle fisiche di Maldini, di Dino e soprattutto di Baresi, condannato a un immediato intervento chirurgico; ma anche quelle morali, la devastazione psicologica di Roberto Baggio, offeso dalla decisione dell’allenatore al punto di non rivolgergli la parola, dopo avergli dato pubblicamente del pazzo.

Eppure, a dispetto di queste peripezie, la terza sequenza è quasi pacifica: un gol di Massaro, detto “Provvidenza”, ci basta appena a pareggiare col Messico, ma la complicatissima cabala della FIFA ci consente di passare ugualmente il turno, pressappoco come era già accaduto nel campionato 1982, quello gioiosamente vinto alla presenza, e vorrei dire con la partecipazione del presidente Pertini. Altri tempi, altra Nazionale e, soprattutto, altra Italia.

Qui, appena si è risolto un problema, se ne presenta un altro, più aggrovigliato, più difficile, più bruciante. In linea generale, sono i giorni in cui scoppia lo scandalo di Maradona e la terribile storia di Escobar; in campo azzurro, è il passaggio culminante di tutto il melodramma, il trionfo di ParsifalBaggio, la conquista del santo Graal: in poche parole, la rocambolesca vittoria sulla Nigeria in dieci uomini, con un gol del risorto Roberto su azione manovrata, un altro gol su calcio di rigore, e un piccolo grande campione, Zola, umiliato e offeso da «un arbitro pazzo con un nome da pazzo», come i giornali inglesi definiranno giustamente il signor Brizio Carter, messicano.

Ora sembra che il melodramma scivoli verso il lieto fine come un’operetta di Franz Lehar. Gli azzurri affrontano la Spagna nei quarti di finale con il vento in poppa, anche se non mancano le emozioni: nel primo tempo un gol delle “furie rosse” bilancia una prodezza di Dino Baggio ma nella ripresa la sostituzione di Albertini con Signori si rivela ancora una volta indovinata. E’ proprio il “bomber” laziale ad offrire infatti all’altro Baggio, al tenore di grazia del nostro melò, al fragile e divino Alfredo della nostra “Traviata”, un assist acrobatico che Roby converte nel gol della vittoria con uno dei suoi più preziosi volteggi: portiere saltato, terzino schivato, valzer fin quasi sulla linea di fondo e di lì, dalla più classica delle posizioni impossibili, un tocco alla Cyrano de Bergerac che chiude strepitosamente la licenza, ossia la romanza del cigno di Caldogno.

Intendiamoci, neppure l’ingresso in semifinale dirada tutte le nubi dall’orizzonte azzurro, altrimenti non ci troveremmo nel cuore di un autentico melodramma. A parte il fatto che anche contro la Spagna, come era già accaduto con la Nigeria, la rete decisiva del “Divino codino” (un soprannome asiatico che fa pensare, questa volta, a un film di Bertolucci o, se preferite, alla “Madame Butterfly”) è venuta a pochi istanti dalla fine, tanto che si comincia a parlare di zona-Baggio, a parte questo dettaglio inquietante, ci sono altri problemi. Citiamone uno per tutti: dopo quello di Zola iniquamente squalificato e ormai cancellato in lacrime dalla lista di Sacchi, c’è il dramma di Signori: due volte capo-cannoniere in campionato, svelto come un falco, affamato di gol, pieno di salute e di buona educazione, il ragazzo laziale si vede condannato dagli schemi del Cittì a fare la riserva di Roby o il laterale di spinta. Una mostruosità tecnica, una cattiveria sul piano umano.

Comunque, si va avanti. Lo spettacolo deve continuare, il melò si avvia alla scena madre. Semifinale: il tenore di grazia squassa la scena del penultimo atto, annientando la Bulgariarivelazione con due acuti, due gol fantastici, “da cineteca”, quattro minuti di ispirazione celeste nel vivo di un primo tempo che tutta l’ltalia gioca con straordinaria bravura, fino al rigore di Stoichkov con il quale purtroppo si chiude il capitolo della nostra felicità e si riapre quello dell’angoscia. Ad accrescerla, interviene l’infortunio che, a metà ripresa, costringe proprio Roberto Baggio a raggiungere la panchina. E’ il sinistro preannuncio dell’amaro epilogo da cui siamo attesi, la sera del 17 luglio 1994 (ma laggiù, sul Pacifico, è mezzogiorno quasi spaccato), al “Rose Bowl” di Pasadena.

Il caldo, l’umidità, la stanchezza e finalmente i tre rigori sbagliati, la malinconia di Roby, la disperazione di Pagliuca, il pianto dirotto di Baresi: e noi, decine di milioni di italiani in patria e nel mondo, curvi dinanzi al teleschermo, distrutti dall’afa e dalla delusione, imprecando alla sfortuna, al regolamento folle, alle scelte troppo generose o troppo imperscrutabili di Arrigo. Noi e loro, i ragazzi azzurri, completamente svuotati di ogni energia, rapinati di ogni speranza, e tuttavia grati, commossi, solidali. Come se fossimo stati eliminati al primo turno mentre, invece, siamo stati vice-campioni del mondo.