Cile 62: doppio Brasile

Cambiando due soli uomini e trovando un grande vice-Pelé, i verdeoro riuscirono a cogliere il bis, nonostante l’età avanzata.


Il principio dell’alternanza tra le due grandi scuole del pallone, europea e sudamericana, come teatri del Mondiale, era stato sancito due anni prima del Mondiale di Svezia dal congresso della Fifa, con l’attribuzione del torneo 1962 al Cile. La decisione, assunta il 10 giugno 1956, appariva quantomeno bizzarra, per la marginalità del Paese prescelto nella gerarchia del pallone non meno che in quella storico-economica. Ma il Mondiale di calcio andava lievitando nella considerazione universale e dunque non stupisce che già allora venisse considerato un’occasione unica di “promozione” di una nazione emergente o con la voglia di essere tale.

La brillante intuizione era nata nella testa di un giovane manager di origine tedesca, Carlos Dittborn Pinto, desideroso di spezzare l’isolamento internazionale del Cile, chiuso al divenire della storia dalla catena andina. Forti tensioni sociali attraversavano il Paese, come sempre accade in situazioni economiche stagnanti, e il Mondiale non sarebbe uscito immune dalle relative propaggini politiche: gli italiani se ne sarebbero accorti a proprie spese. Lo sforzo di costruzione della ribalta iridata fu comunque pari alle attese, mobilitando il meglio delle energie del popolo andino, che neppure un terribile terremoto nel 1960, con relative “voci” di possibile forfait (e Argentina pronta a subentrare), poterono fiaccare.

Emblematica la vicenda umana di Carlos Dittborn Pinto, a giusta ragione iscritto nell’albo degli “eroi” dei Mondiali di calcio: un mese prima della cerimonia di apertura a Santiago, il grande motore delia manifestazione, stremato dalla pressione di sei anni di impegno senza soste, venne colto da una grave malattia che in pochi giorni lo calò nella tomba, ad appena 38 anni. La notizia della morte venne data ai cileni attraverso una gigantografia del grande scomparso listata a lutto sulla facciata della sede del “Mercurio”, il più diffuso quotidiano cileno, con la scritta sottostante: «Carlos Dittborn Pinto è morto questa mattina». Il suo posto viene preso dall’aiutante di campo, Juan Goñi.

Il calcio mondiale intanto viveva un periodo di grande fermento: l’Urss aveva vinto, suscitando scarsissimo interesse, la prima edizione del Campionato europeo per Nazioni, voluta da Henry Delaunay, un altro francese con l’uzzolo della promozione internazionale del calcio, e portata a compimento tra mille difficoltà, dopo la sua morte, dal figlio Pierre. La formula, articolata su più stagioni, aveva raccolto scarse adesioni e prodotto una finale, UrssJugoslavia, di nessun richiamo nella sede eletta di Parigi, con conseguente colossale “bagno”. Con opportuni ritocchi, la nuova competizione sarebbe adeguatamente cresciuta. Al momento, però, il Mondiale rimaneva l’unico scenario per stabilire le grandi gerarchie internazionali del pallone.

I pasticci azzurri

Facile lo “scivolo” verso i Mondiali per la Nazionale azzurra. Onde scongiurare in partenza un bis dell’onta patita nel 1958, l’Italia è inserita in un gruppo che comprende la Romania e la vincente di un sottogruppo comprendente Cipro, Etiopia e Israele. In pratica, ritiratasi la Romania, basta il doppio confronto con gli israeliani per staccare il biglietto per il Cile. Le acque tuttavia continuano a essere agitate.

Il finale della stagione ‘60-61 verrà ricordato per la clamorosa protesta inscenata dall’lnter, che manda in campo i ragazzini della Primavera per la discussa ripetizione del match con la Juve, ormai incoronata campione d’Italia. Schiacciato dalle polemiche sulla sua imbarazzante posizione (presidente di un club e al contempo della Federcalcio), Umberto Agnelli lascia dopo due anni la presidenza federale, subito accalappiata ai primi di agosto dell’onnivoro Pasquale.

A Tel Aviv Ferrari schiera una Nazionale mosaico, con Lojacono, Altafini (all’esordio) e Sivori, che ribalta facilmente il doppio vantaggio iniziale degli uomini di casa, chiudendo 4-2. Il ritorno è una passeggiata: 6-0, con quattro gol di Sivori, uno di Angelillo e uno del giovane mancino dell’Inter, Mario Corso.

In vista della spedizione mondiale, tuttavia, Pasquale decide di rimescolare per l’ennesima volta le carte sulla panchina azzurra. L’obiettivo è preparare una spedizione curata in tutti i dettagli da un “supermanager”, individuato nel vicepresidente del Milan, Mino Spadacini. Non potendo defenestrare Ferrari, che gode di buona popolarità per i risultati ottenuti, questi riesuma l’idea della Commissione azzurra, affiancandogli il dirigente Paolo Mazza, presidente della Spal e legatissimo a Pasquale (che già tre d’anni prima aveva rifiutato analogo incarico), e addirittura Helenio Herrera, il “mago” dell’Inter che ha iniziato alla grande la stagione. Senonchè quest’ultimo a marzo se ne va, dopo un imbarazzante vicenda di doping che ha coinvolto alcuni giocatori dell’Inter. Pochi giorni dopo, verrà chiamato sulla panchina della Nazionale spagnola.

Manca la Francia

La Nazionale inglese a Cile 62

Ben 54 furono le nazioni iscritte alla settima edizione dei Mondiali, con una discreta rappresentanza africana e asiatica, anche se ovviamente era l’Europa a farla da padrona. Si qualificarono Svizzera (su Belgio e Svezia), Bulgaria (su Finlandia e Francia), Germania Ovest (su Grecia e Irlanda del Nord), Ungheria (su Germania Est e Olanda), Urss (su Norvegia e Turchia), Inghilterra (su Lussemburgo e Portogallo), Italia (su Cipro, Etiopia, Israele e Romania), Cecoslovacchia (su Eire e Scozia), Spagna (su Egitto, Sudan, Marocco, Tunisia, Ghana, Nigeria e Galles), Jugoslavia (su Corea del Sud, Giappone e Polonia), Argentina (sull’Ecuador), Uruguay (sulla Bolivia), Colombia (sul Perù), Messico (su Stati Uniti, Costa Rica. Guatemala, Honduras, Suriname, Antille Olandesi e Paraguay).

In pratica, una sola grande assente: la Francia di Kopa, salita sul podio iridato solo quattro anni prima in Svezia ed estromessa per mano della Bulgaria dell’asso Asparukov. Un infortunio mise fuori causa Alfredo Di Stefano, naturalizzato spagnolo e punto di forza, assieme all’altro madridista Puskas, di una Nazionale iberica di altissimo valore: sfumò così per il leggendario centravanti di manovra argentino l’ultima possibilità di calcare la scena dei campionati del mondo.

Il Mondiale si rivela subito brutto e discusso. Pesanti manovre politiche influenzano i fattori tecnici, a partire dalle sistemazioni logistiche, e a dominare, anziché il bel calcio, è sin dall’inizio una a volte irrefrenabile violenza.

Primo Turno

Brasile-Messico 2-0. Il portiere messicano Antonio Carbajal contrasta Pelé

Nel primo raggruppamento, confinato ad Arica, a duemila chilometri da Santiago, le due finaliste degli Europei, la forte Urss e la brutale Jugoslavia (Mujc frattura tibia e perone al sovietico Dubinski e viene rimandato a casa, poi contro l’Uruguay Sekularac accende vergognose risse), hanno la meglio agevolmente sull’Uruguay, ormai in cronica crisi, e la Colombia.

Nel terzo il Brasile campione uscente (distintosi al Sudamericano 1959 per una selvaggia rissa con l’Uruguay) ha bisogno di una robusta mano per non cadere. La squadra ricalca quella di quattro anni prima, con l’inevitabile peso degli anni a gravare su alcuni uomini chiave, primi tra tutti il regista Didi e i due terzini, Djalma e Nilton Santos. Vicente Feola, malato, è sostituito sulla tolda di comando da Aymoré Moreira; al centro della difesa, sempre rigorosamente a zona, MauroZozimo sono gli eredi degli equivalenti BelliniOrlando.

I verdeoro si sbarazzano facilmente del Messico, ma con la Cecoslovacchia cominciano i guai. Pelè, già in gol nel match d’esordio, subisce in partita uno stiramento inguinale ed esce prematuramente dal Mondiale, così sottraendo alla squadra l’elemento decisivo per il salto di qualità; quasi inevitabile a quel punto la divisione della posta.

Per nulla malleabile, invece, si presenta il successivo avversario degli uomini di Moreira, la Spagna di Herrera, che in prima linea può contare su fuoriclasse assoluti come Puskas e Gento. È però assente nella circostanza il direttore d’orchestra Suarez e al resto pensa l’arbitro cileno Bustamente: annulla il raddoppio degli spagnoli, passati in vantaggio con Adelardo, e favorisce scopertamente la rimonta dei campioni, concretizzata dal sostituto di Pelè, il “garoto” Amarildo. Un favore arbitrale per nulla disinteressato: il Brasile ha pesantemente sostenuto sul piano politico la candidatura del Cile e sul campo riscuote con gli interessi. Assieme ai verdeoro, passano così i cecoslovacchi del favoloso portiere Schroiff, pur sconfitti nettamente nell’inutile ultimo match col Messico.

Nel quarto gruppo, meritato successo dell’Ungheria, che schiera il meglio di una nuova ricca generazione di talenti, sull’Inghilterra, salvata dalla differenza reti. Resta da dire del gruppo 2, di stanza a Santiago, ove si consuma il nuovo “dramma” della Nazionale italiana.

La partita della vergogna

Un momento della battaglia di Santiago

Regna il caos, nel ritiro azzurro, nonostante la presenza, in veste di capo delegazione, di un dirigente di polso come il vicepresidente Franchi. La “strana coppia” MazzaFerrari è d’accordo solo sul disaccordo, mentre influenti cronisti, con in testa Gianni Brera del “Giorno” e Rizieri Grandi del “Messaggero”, esercitano pressioni (anche con visite notturne al ritiro) per suggerire la formazione. A ciò si aggiunge il clima ostile creato ad arte dai cileni, agevolati da un paio di articoli di inviati italiani di denuncia delle condizioni sociali del Paese.

Nonostante il franco successo degli uomini di casa sulla Svizzera di Rappan, i timori azzurri si concentrano sulla forte Germania di Haller e Seeler, con la quale nel match d’esordio si punta scopertamente al pareggio. Un nulla di fatto su cui i nostri avversari si trovano d’accordo, di fronte a talenti offensivi temutissimi come Rivera, Altafini e Sivori. Il risultato viene raggiunto attraverso una bruttissima non-partita, in cui lo sfarzo dei nostri talenti offensivi si annacqua fino all’autolesionismo.

Sforzi concentrati sui cileni, dunque, e formazione rivoltata come un guanto, dopo mille ripensamenti: fuori gli stilisti Rivera e Sivori, dentro Mora e Maschio, mentre in difesa gli esordienti Tumburus e Janich surrogano assieme a David i raffinati Maldini e Losi e il mediano Radice; addirittura, cambia anche il portiere, il giovane Mattrel in luogo del più esperto Buffon. Nei piani, una squadra più da battaglia che da ricamo. Al via, il clima incandescente dello stadio viene forzato dai nostri avversari, che la mettono sul pesante, con la condiscendenza dell’arbitro inglese Aston.

È la partita della vergogna: picchiati senza remissione, gli azzurri cadono nella trappola, facendosi invischiare in indecorose risse, da cui escono espulsi Ferrini, sorpreso a scalciare un avversario in reazione, dopo che Maschio si è preso da Leonel Sanchez un terribile cazzotto che gli ha fratturato il setto nasale, e David, in preda a crisi isterica. Rimasti in nove contro undici, perdono seccamente, uscendo di scena. A nulla vale infatti l’agevole successiva vittoria sulla Svizzera, con due gol dell’esordiente Bulgarelli completati da Mora: dimostrazione delle possibilità offensive di una squadra ricchissima di talenti ma bruciata da una conduzione tecnica scellerata prima ancora che dalle porcherie dell’arbitro inglese.

Andini sempre più in alto

Il Cile supera di slancio anche i temibili sovietici

Il Cile superò poi anche gli ottavi, violentando la fortissima Urss di Yashin, Ponedelnik e Cislenko. Proprio il portiere, forse il più grande che mai abbia calcato un campo di calcio, venne in avvio colpito proditoriamente da un terribile calcio al capo del centravanti Landa; volle restare in campo, ma la menomazione lo portò a subire due gol dalla distanza di Sanchez e Rojas che aprirono ai locali le porte delle semifinali.

La Jugoslavia, placati gli istinti belluini, dimostrò con i tedeschi di saper anche giocare a calcio, concretizzando con Radakovic una marcata superiorità di gioco; giusto all’ultimo soffio, il portiere Soskic negò il gol con un miracolo al grande Seeler e i tedeschi dovettero tornare a casa.

Match-clou a Vina del Mar, con l’Inghilterra opposta al logoro Brasile che con tanta difficoltà aveva superato il primo scoglio. In gravi difficoltà contro Greaves e soci, i verdeoro furono presi per mano dal genio di Garrincha. L’incontenibile ala attivò la propria micidiale finta, fino a stordire il terzino Wilson, messo a sedere a comando: due gol segnò direttamente il grande Mané, accontentandosi la terza di spedire in gol il centravanti Vavà.

Infine, l’Ungheria di Albert andò a cozzare contro il muro eretto dall’imbattibile Schroiff, portiere prodigioso, e uscì inopinatamente di scena col proprio calcio ricamato per un gol in contropiede di Scherer.

Rapsodia ceca

La rete dello jugoslavo Jerkovic nella semifinale persa contro la Cecoslovacchia per 3-1

In semifinale, il Brasile non ebbe vita facile col Cile, seguito dalla passione di un intero popolo. Stipato fino all’inverosimile lo stadio di Santiago, i campioni uscenti furono di nuovo presi per mano da Garrincha: gran gol dalla distanza e poi deviazione vincente di testa su angolo del solito prezioso Zagallo; sul 2-0, una punizione liftata di Toro prima dell’intervallo ridiede animo ai locali, cui si affiancò nella ripresa l’arbitro peruviano Yamasaki (ovviamente cessava per gli auriverde la serie dei favori, di fronte agli uomini di casa). Prima negò un netto rigore su Garrincha, poi, dopo il 3-1 di testa di Vavà, concesse il penalty ai cileni per un “mani” probabilmente involontario di Zozimo in area. Leonel Sanchez trasformò l’ultima illusione. Il solito Landa diede un nuovo saggio della sua brutalità e questa volta neppure il compiacente Yamasaki potè risparmiare l’espulsione. Poi fu la volta di Garrincha, martirizzato per tutta la partita: si vendicò su Rojas e l’arbitro cacciò anche lui. Mentre usciva dal campo, il grande Mané venne colpito alla testa da una pietra piovuta dalle gradinate, dove ululava un pubblico inferocito. Quattro gol del Brasile, quattro punti di sutura per il suo uomo-guida: il simbolo di un Mondiale violento.

Nell’altra semifinale la Cecoslovacchia ebbe la meglio nel finale, grazie alla tenuta fisica. Jerkovic pareggiò il gol di Kadraba, il portiere Schroiff eresse la solita diga e negli ultimi minuti Scherer per due volte piegava la superiore tecnica degli jugoslavi.

La finale per il terzo posto vedeva quindi un Cile non ancora pago e la Jugoslavia, al culmine di un ciclo felice (vittoria alle Olimpiadi, secondo posto agli Europei), ma ormai stremata. Tra le intenzioni bellicose dei cileni, sostenuti dal calore del pubblico ma tecnicamente inferiori, e i tentativi di accademia dei fantasisti jugoslavi, alla fine, allo scadere, ebbe la meglio Rojas, che bucò la resistenza avversaria indovinando la rete di un terzo posto storico.

II crollo di Schroiff il grande

Il Brasile, era pronostico comune, avrebbe fatto un solo boccone della coriacea Cecoslovacchia. nettamente inferiore sul piano tecnico, la cui terribile forza fisica, accoppiata alla sagacia tattica, costituiva però una minaccia pesante per i campioni uscenti. In campo brasiliano, Pelè chiese una chance, nonostante l’infortunio fosse tutt’altro che smaltito, ma cozzò contro un muro: non era accaduto lo stesso nel 1954 a Puskas, non sarebbe capitato altrettanto a Roberto Baggio nel 1994.

Doveva mancare anche Garrincha, espulso in semifinale, ma una nuova pagina vergognosa macchiò il Mondiale quando, viste le pressioni politiche del Brasile e del Perù (patria dell’arbitro Yamasaki, “colpevole” dell’espulsione), la stessa delegazione cecoslovacca chiese la riqualificazione dell’ala avversaria. Il tecnico boemo Vytlacil era un volpone. Tatticamente aveva costruito una squadra quasi perfetta, capace di supplire, con la straripante tenuta atletica e i perfetti equilibri tra i reparti, a valori tecnici complessivi poco più che modesti. Si risolse dunque al gran passo, conscio di poter chiudere Garrincha in una “gabbia” ad hoc, senza scapitarne più di tanto nella manovra, vista la condizione declinante dei “nonnetti” avversari.

Al fischio d’avvio, anziché tenere guardinghi i propri uomini in attesa della zampata in contropiede, secondo collaudato schema, li sguinzagliò sulle piste di Gilmar sfruttando l’effetto sorpresa. Il fuoriclasse Masopust, “cervello” della squadra, attivato da Pospichal, si ritrovò davanti al portiere e lo fulminò con una perfetta esecuzione rasoterra. Ma se Garrincha in effetti, ancora stordito per la ferita alla testa e chiuso dalla morsa NovakJelinek, veniva costretto fuori dalla partita, altri grandi protagonisti erano pronti a salire al proscenio.

In primis Amarildo, degnissimo sostituto di Pelè, che si inventò una serpentina sul fondo, da dove indirizzò un incredibile tiro liftato nell’angolo di Schroiff nettamente sorpreso. Poi Zito, splendida colonna del centrocampo, che assieme a Zagallo aveva menato le danze anche per il quasi immobile Didì e l’anziano Nilton Santos: come Schroiff si fece nuovamente sorprendere, mancando l’intervento su un cross perfetto del solito Amarildo, il mediano prese l’ascensore e andò a impattare di testa il pallone del 2-1.

Incredibile: il miglior portiere del Mondiale era il peggior uomo in campo. Lo confermò nel finale, quando si lasciò sfuggire un pallone crossato da Djalma Santos dalla destra, concedendo a Vavà il gol della sicurezza. Così fu di nuovo trionfo per il Brasile, capace di vincere anche senza Pelè, con una squadra di ottima caratura difensiva ma nettamente meno spettacolare e brillante di quella, quasi uguale, di quattro anni prima.