Cina 1991: Il Primo Mondiale Femminile

Nel novembre 1991, dodici squadre si ritrovarono in Cina per il primo Mondiale femminile, un torneo che avrebbe cambiato per sempre il volto del movimento. Questa è la loro storia.

Nel novembre 1991, la Cina si apprestava a ospitare il primo Campionato Mondiale di calcio femminile. Nonostante il nome ufficiale altisonante – “FIFA World Championship for Women’s Football for the M&M’s Cup” – l’essenza era rivoluzionaria: per la prima volta nella storia, le donne avrebbero ufficialmente avuto il loro palcoscenico mondiale. Quattro città cinesi – Guangzhou, Foshan, Jiangmen e Zhongshan – furono scelte per questo momento epocale.

Il torneo non era un esperimento improvvisato: si basava sull’esperienza del torneo pilota del 1988, sempre in Cina, dove la Norvegia aveva trionfato sulla Svezia. Ma questa volta la posta in gioco era molto più alta: era una competizione ufficiale FIFA, con un rigoroso processo di qualificazione che aveva coinvolto ben 48 nazioni, dalle quali sarebbero emerse le migliori per contendersi il titolo mondiale.

Era un segnale chiaro: il calcio femminile stava finalmente ottenendo il riconoscimento che meritava. La FIFA, dopo anni di resistenza, aveva finalmente ceduto alle pressioni per organizzare un vero campionato mondiale femminile. Il formato scelto prevedeva tre gruppi da quattro squadre, con le prime due di ogni girone più le due migliori terze che si qualificavano per i quarti di finale. 

Le Pioniere

Dodici nazioni, ognuna con la sua storia unica, si preparavano a scrivere la storia. Da una parte c’era la Nigeria, con una squadra giovanissima (età media 18 anni) formata appena un anno prima della competizione. All’estremo opposto, c’erano giganti come Norvegia e Svezia, che già dagli anni ’70 avevano costruito strutture solide per il calcio femminile. Una disparità di esperienza e risorse che era emblematica dello stato del calcio femminile dell’epoca. 

Nel Gruppo A, la Cina padrona di casa si trovava con Norvegia, Danimarca e Nuova Zelanda. Il Gruppo B vedeva gli Stati Uniti affrontare Svezia, Brasile e Giappone, mentre nel Gruppo C la Germania si confrontava con Italia, Taiwan e Nigeria. Ogni squadra portava con sé non solo le speranze di una nazione, ma anche il peso di rappresentare tutte le calciatrici che nel proprio paese lottavano per il riconoscimento. 

Per molte di queste atlete, il calcio era ancora un’attività secondaria: molte mantenevano lavori regolari o studiavano, allenandosi nelle ore libere. La loro dedizione era straordinaria, considerando che molte di loro non ricevevano alcun compenso per giocare. Era un mosaico di esperienze diverse, unite dalla passione per il calcio e dalla voglia di dimostrare al mondo che le donne potevano regalare spettacolo tanto quanto gli uomini.

La rappresentativa svedese

La Grande Vetrina

Mai prima di allora il calcio femminile aveva goduto di tanta attenzione mediatica. Oltre 600 giornalisti da tutto il mondo si riversarono in Cina, e le partite furono trasmesse in più di 100 paesi e gli spettatori, in gran numero, assistevano per la prima volta a una partita di calcio femminile

L’evento rappresentava una vetrina senza precedenti per atlete che fino a quel momento avevano giocato nell’ombra. Le telecamere scoprirono talenti straordinari come April Heinrich, con la sua tecnica raffinata, Pia Sundhage, che sarebbe diventata una delle allenatrici più rispettate al mondo, Heidi Mohr, la bomber tedesca dal tiro potente, la nostra Carolina Morace, una leggenda italiana, e una giovanissima Mia Hamm, appena diciannovenne, destinata a diventare una leggenda. 

La tedesca Heidi Mohr

I media locali dedicarono ampio spazio all’evento, con servizi speciali e approfondimenti sulle squadre partecipanti. I giornalisti stranieri, molti dei quali scettici all’inizio, rimasero colpiti dal livello tecnico e dall’intensità delle partite. 

La Danza dei Gol

Il torneo si aprì con uno spettacolo maestoso allo stadio Tianhe di Guangzhou, dove 65.000 spettatori assistettero alla prima partita della storia dei Mondiali femminili tra Cina e Norvegia. Le padrone di casa trionfarono per 4-0, ma la particolarità era che le partite duravano solo 80 minuti – bisognò attendere il 1995 per vedere match da 90 minuti. 

La nostra Carolina Morace

Il torneo si rivelò subito un festival del gol: 64 reti nelle prime 18 partite della fase a gironi, con una media di 3,5 gol a partita. La Svezia stabilì il record vincendo 8-0 contro il Giappone. Ma fu l’italiana Carolina Morace a scrivere la storia, realizzando la prima tripletta in un Mondiale femminile contro Taiwan, tre gol in meno di 30 minuti nel secondo tempo. 

Il livello tecnico sorprese gli osservatori: tiri dalla distanza, combinazioni elaborate, giocate di fino. La Germania perse subito la sua capitana Silvia Neid per infortunio, ma questo non impedì alla squadra di mostrare un calcio spettacolare. La svedese Ingrid Johansson segnò quello che molti considerano il gol più bello del torneo contro gli Stati Uniti, un tiro che avrebbe fatto invidia a qualsiasi campione dell’epoca.

Il “Triple-Edged Sword”

La nazionale americana si presentò con un trio offensivo che terrorizzò le difese avversarie: Carin Jennings, Michelle Akers e April Heinrich, soprannominate dalla stampa cinese “Triple-Edged Sword“. Non era un caso: delle 25 reti segnate dagli Stati Uniti durante il torneo, ben 20 portarono la loro firma. Il momento più spettacolare arrivò nei quarti di finale contro Taiwan, quando Michelle Akers realizzò una storica cinquina, la prima nella storia dei Mondiali femminili. 

Michelle Akers

Ogni componente del trio aveva caratteristiche uniche: Jennings era l’abile dribblatrice, Heinrich la finalizzatrice infallibile, mentre Akers combinava potenza fisica e tecnica sopraffina. La loro intesa in campo era quasi telepatica, frutto di anni di allenamenti insieme e di una filosofia di gioco offensiva promossa dal loro allenatore. Le loro prestazioni influenzarono un’intera generazione di giovani calciatrici americane, contribuendo a creare quella dinastia che avrebbe dominato il calcio femminile nei decenni successivi.

Storie di Passione e Pasta

Il torneo non fu solo calcio giocato, ma anche un caleidoscopio di storie umane affascinanti che resero l’evento unico. La Nuova Zelanda stupì tutti con la sua preparazione fisica eccezionale, frutto dell’esperienza delle sue atlete in altri sport come il touch rugby e il softball. Marilyn Marshall divenne un simbolo di questa versatilità, entrando nella Hall of Fame sia del calcio che del softball del suo paese. 

Stefania Antonini

Le italiane, invece, si distinsero per un approccio tutto mediterraneo al torneo: preoccupate dal cibo locale, si portarono intere scorte di pasta dall’Italia. L’immagine della portiera Stefania Antonini che grattugiava il parmigiano sui suoi spaghetti divenne iconica, simbolo di come le tradizioni nazionali si fossero fuse con lo sport. 

Ogni squadra portò le proprie peculiarità: la disciplina tattica delle tedesche, il calcio tecnico delle brasiliane, l’organizzazione delle scandinave. 

La Grande Finale

Il 30 novembre 1991 si giocò la finale. Con il leggendario Pelé tra gli spettatori, Stati Uniti e Norvegia si affrontarono al Tianhe Stadium davanti a oltre 60.000 spettatori. La Norvegia cercava di completare un percorso di redenzione dopo la pesante sconfitta iniziale contro la Cina, mentre gli Stati Uniti puntavano a coronare un torneo dominato dal loro “Triple-Edged Sword”. 

Una fase del match tra Stati Uniti e Norvegia

Fu Michelle Akers a decidere la partita con una doppietta memorabile. Il suo primo gol aprì le danze, ma Linda Medalen, l’instancabile attaccante norvegese, pareggiò i conti. Quando tutto sembrava indirizzato verso i tempi supplementari, Akers realizzò quello che lei stessa descrisse come “il tipo di gol che sogni da bambina“, il suo decimo nel torneo, consegnando agli Stati Uniti il primo titolo mondiale. 

La partita, nonostante il report FIFA la descrivesse come “relativamente deludente”, rappresentò il culmine perfetto di un torneo che aveva cambiato per sempre il volto del calcio femminile.

L’Eredità

Carin Jennings

La finale vide Carin Jennings vincere il premio come miglior giocatrice del torneo, mentre Michelle Akers si aggiudicò la scarpa d’oro come capocannoniere. Ma fu l’intero movimento a vincere: il presidente FIFA Joao Havelange dichiarò che il torneo aveva “formalizzato il calcio femminile“, anche se il nome ufficiale della competizione – con quello sponsor di caramelle – tradiva ancora un certo scetticismo dell’establishment calcistico. 

L’evento aveva anche rivelato storie straordinarie come quella di Gunn Nyborg, che aveva giocato tutte le prime 100 partite della storia della nazionale norvegese, ricevendo in premio il pallone della finale firmato da Pelé. O come quella di Mia Hamm, che giocò tutto il torneo come terzino destro prima di diventare una delle più grandi attaccanti della storia. 

Con 99 gol in 26 partite e una media di 20.000 spettatori a partita, il torneo dimostrò che il calcio femminile poteva essere spettacolare e attraente quanto quello maschile. I numeri raccontavano solo una parte della storia: ogni partita aveva contribuito a sfatare pregiudizi e stereotipi.