Febbraio 1978: dalle colonne del Guerin Sportivo, l’originale sintassi di Sandro Ciotti dedicata alla scoperta di un inedito Roberto Bettega
Rispetto al modello tradizionale del perbenismo sabaudo — nei cui confini un po’ tutti ci compiaciamo di collocarlo — ha l’indubbio vantaggio di un senso dell’umorismo cui quel modello è, diremo «per definizione», allergico. A giudicare da come ha reagito ad alcuni giochetti che il destino ha deciso a suo tempo di giocare sulla sua pelle, gli manca anche quel senso del melodramma che sta all’italiano come il latte alla mucca. Come sabaudo e come italiano inalbera anche il connotato, abbastanza anomalo, di una conversazione elegante e concisa che rifiuta i fronzoli senza negarsi ad un minimo di stile.
Anche quando arriva trafelato al microfono pochi secondi dopo la conclusione di una partita, amministra coordinate e incisi con la sobria precisione con cui uno chef di classe smista le «comande» ai suoi subalterni. Tra le esperienze più sofferte che ci impone le routine di un mestiere certo affascinante ma acrobatico la sua parte, e indubbiamente da annoverare la confezione di una trasmissione che va in onda il lunedì mattina («Riparliamone con loro») e che dovendo ospitare le opinioni degli addetti ai lavori sulle vicende indagate la sera prima alla moviola, ci impone l’esigenza di collegarci telefonicamente con giocatori e tecnici o alla mezzanotte della domenica o alle 7,30 del lunedì, cioè in ore in cui gli interlocutori o sono comprensibilmente stanchi o sono, altrettanto comprensibilmente assonnati.
Quando lo chiamiamo, Roberto Bettega invece sembra appena uscito da una doccia rigeneratrice dopo dieci ore di sonno tonificante: capisce al volo dove vogliamo andare a parare, si allinea col nostro punto di vista se lo ritiene giusto, oppure lo contraddice, ma in entrambi i casi in un modo pronto, esauriente, puntuale e usando un linguaggio certamente moderno, certamente disinvolto, ma dal qual è anche facile capire che, almeno per lui, grammatica e sintassi non sono un pregiudizio borghese. E’ insomma uno di quei giovani — non irreperibili, ma rari — che non parlano in jeans.
Dipendesse da noi ne faremmo il partner fisso di ogni edizione della trasmissione (e non è detto che un giorno o l’altro non chiederemo in questo senso il «placet» a Zavoli). A segnalarci per la prima volta la maturità, la serenità, l’equilibrio di «Bobby-gol» fu proprio il suo improvviso, amaro distacco dal calcio. Era ricoverato da poche ore in un ospedale torinese e, abbastanza comprensibilmente, l’accesso alla sua camera era sorvegliato con discrezione ma con rigore. Il verboten per giornalisti e fotografi era assoluto. Da Roma fummo spediti in loco senza molte speranze, ma in qualche modo riuscimmo a portare il microfono nella stanza di Roberto.
Ritenevamo di dover affrontare un compito penoso, da assolvere con imbarazzo. Sorprendentemente fu proprio Roberto a metterci a nostro agio. Parlò del suo malanno senza vittimismo, persino con un pizzico di humour. Volle far sapere ai tifosi che lui era ottimista, che presto sarebbe tornato. Arrivò a ringraziarci per l’occasione che gli fornivamo di poter così sollecitamente tranquillizzare tutti. Di quei «tutti» conoscemmo, quel giorno, genitori e futura moglie del campione. Campioni anche loro, in qualche modo. Di semplicità, di umanità, di pulizia morale. Figurine nitide e fondamentali di un presepe raro e prezioso proprio perché privo di orpelli.
I Bettega sono arrivati a Torino dal Veneto portandone umori e principii fragranti. La fede nel lavoro e nella inossidabilità che dà ad ogni traguardo il fatto di averlo sofferto, per esempio. Già quel giorno credemmo di intuire che l’impatto tra gli umori della sua terra d’origine e quelli di una società concreta (ma pure sentimentale, ancorché con l’imbarazzo di esserlo) come quella piemontese avrebbe avuto, in Roberto, esiti eccezionalmente positivi. Pensiamo di non aver sbagliato. Il risultato è rappresentato da un calciatore e un uomo esemplare senza pedanterie, trasparente senza stucchevoli ingenuità, disinvolto senza concessioni al gigionismo. Di lui si parla come del successore di Boniperti. Se l’ipotesi è fondata – e lo sembra – i sabaudi che contano hanno ancora una volta scelto bene. Roberto ha vocazione manageriale, talento per i rapporti con i suoi simili, conoscenza profonda del pianeta calcio, intuito felice nel cogliere gli aspetti essenziali di ogni panorama umano. In più, è spiritoso, un vantaggio enorme per chi è chiamato a muoversi in un mondo, come quello del calcio, così prammatico e musone, così ligio ad un culto di sé stesso da celebrare, chissà perché, senza allegria.
Il Bettega calciatore non ha ormai più misteri per nessuno se non, forse, per qualche terzino di fuori via che ancora non sa spiegarsi come mai, sui cross e sui corners, «sparisce» inesplicabilmente per riapparire al momento dell’impatto in gol. Gol che firma preferibilmente di testa, forse per consegnare a fotografi e tifoseria l’immagine, altamente promozionale, di un Bettega capace di sovrastare tutti. Non che con i piedi non sappia fare cose altrettanto egregie: il gol di tacco segnato a Cudicini in un lontano Milan-Juve rimane tra le prodezze più antologiche cui ci sia capitato di assistere in tanti anni di mestiere. Ma la testa è senza dubbio la sua sezione più emblematica. Come lo furono le gambe da fenicottero per Piola, il sinistro con il calzettone a cacaiola per Sivori, il busto costantemente rigido per Schiaffino. Una testa già spruzzata di bianco, quasi a voler segnalare che, all’interno, maturità e saggezza sono di casa. Che sia stato Boniperti a consigliargli quelle méches?
Sandro Ciotti