CLAUDIO GARELLA – aprile 1978

Ha sbagliato, ne è cosciente. Ma gli hanno fatto pagare troppo caro i suoi errori servendosi di lui come arma contro Vinicio. Ora ha paura dì se stesso

Le streghe di Garella

ROMA – C’è ormai un catalogo di maldicenze e spiritose cattiverie su Claudio Garella, il «notissimo ignoto» che Vinicio volle proclamare titolare «full time» nell’agosto scorso, allorché con la Lazio non aveva giocato neppure una partita vera. Queste: dice un tagliente capotifoso, diretto discendente di Pasquino: «Lenzini s’è messo in testa d’acquistare Colla, Tavola e Chiodi. Perché? Per chiudere una buona volta la porta abbandonata da Pulici…».
E un altro incalza: «Sapete che Wilson rischia la polmonite, là dietro, con quella porta sempre aperta?…».
Il catalogo, al colmo della perfidia, prevede inoltre che i peccati o le sbadataggini d’un portiere già definiti papere siano chiamati «garellate», mentre l’ultima amenità in questa Capitale dissacrante e questa: «A Garella daranno il premio come migliore assist-man. I passaggi gol che riescono a lui, non riescono a nessuno…».
Basta. Garella ha capito che non ci sono favole nella vita, ma solo fucili spianati e uomini con i loro pensieri, pronti a demolire anche quelli come lui, nati grandi e grossi come giganti. Ecco: spesso piccoletti macilenti sono coccolati e possono camminare rafforzati e in allegria per le strade del mondo, mentre fusti di un metro e 90 si sentono raccorciati e rimpiccoliti dalla preoccupazione e dalla ostilità che hanno intorno, giorno dopo giorno. Garella ci racconta che ha sempre preso da solo decisioni importanti e in età normalmente inadatte a prendere decisioni.
Aggiunge che di questi tempi si sente nello stato d’animo di quando abbandonò gli studi da un giorno all’altro.

«Non combinavo niente e non volevo prendere in giro me stesso e i genitori. Vedevo il calcio anche sui libri di scuola; era inutile continuassi a recitare la commedia del bravo figlio che riesce a conciliare gli allenamenti con gli orari dell’istituto, buono per il diploma. Sono venuto via e quelli intorno non hanno capito. Non credere nel pallone, dicevano. Il pallone è una ” brutta bestia “… vedrai, vedrai… Sconvolto andavo al campo e mi Riuscivano parate incredibili. Mi mettevo tra i pali, tra i tre legni della mia casa preferita, e mi ritrovavo in un mondo familiare; dimenticavo i guai, i brutti presagi, i rimorsi. Ero tanto sicuro delle mie possibilità che non mi meravigliai quando il Torino mi fece esordire in Serie A. Fu a Vicenza, 28 gennaio 1973. Avevo appena compiuto diciott’anni e tutti mi guardavano come fossi un marziano. Semmai mi meravigliai dopo, quando il Torino mi tirò fuori e finì per vendermi allo Juniorcasale. Ma come? Fu la prima mezza delusione, lo confesso. I parenti erano tornati alla carica, rimproverandomi il diploma di geometra, cui avevo rinunciato. Per non sentirli mi rifugiai in ima ragazza, Laura. A diciannove anni ero già sposato. E’ stato il successo più grande che ho ottenuto: Laura mi tiene su il morale; da Roma sarei già fuggito se non avessi avuto lei…».

A Tor di Quinto, mentre il successore di Pulici ripete con Lovati tuffi e parate fino all’ossessione, Laura minuta e raccolta guarda con ammirazione. Nella contestazione che ha coinvolto il suo eroe, voluto a spada tratta da Vinicio, lei francamente ha trovato motivazioni odiose e chissà quanto verosimili.
Spesso l’hanno sentita ripetere: «La stampa a Roma è sempre irrequieta, insoddisfatta, troppo scandalistica. Che ne sapevamo io e Claudio? Lui ci è andato di mezzo, è rimasto incastrato nel mostruoso meccanismo. Qui erano tutti amici di Felice Pulici. Pulici ha sempre fatto tenerezza. E’ mia cosa assurda: un portiere di calcio deve essere soprattutto un uomo, solido dentro. La tenerezza non c’entra niente. Ma per Pulici era così e a Pulici perdonavano tutto. A mio marito invece… Beh, meglio andar via da Roma al più presto…».

garella-intervista32-wp La stagione declina, la Lazio lotta per non retrocedere, Garella sempre più rannuvolato si sfoga raramente con qualche amico. Dopo i quattro gol di Napoli ha detto: «Se ci fosse un altro che potesse prendere il mio posto, lascerei la porta della Lazio. Non ne posso più. Non vedo l’ora che questa stagione finisca, ne ho viste di tutti i colori. Certo, non ho avuto fortuna, mi è andato tutto storto. Ma sbaglio, quando affermo che mi hanno tolto la serenità necessaria? No, non sbaglio. Io non ho mai accettato certi compromessi, sono sempre andato avanti per la mia strada, senza cercare la simpatia e la solidarietà della gente. Andrò via, cambierò aria. Sarà tutto diverso. Qui sono diventato un altro e io non voglio che la situazione duri a lungo…».

Abitato dalle streghe, di ragazzo che a Novara era considerato un paratutto, ha perso pure quel pizzico d’impudenza che in agosto gli imponeva d’affermare: «Se Vinicio ha scelto me, significa che ha capito. A ventidue anni, nessun portiere italiano è stato bravo come il sottoscritto. Vedrete che non lo deluderò e andrò in Nazionale. Magari non con la Lazio, ma ci arriverò…».
Ora l’eco di quelle parole è perfino crudele. Garella ha dovuto fare i conti con palloni roventi e incantesimi maledetti; prigioniero di decisioni di attimi si è perso, s’è arruffato, s’è sfatto.

Ha rimorsi? Quante sono state le sue giornate nere? Quale domenica cancellerebbe dalla memoria? Quali sono effettivamente le sue colpe? Gli addetti ai lavori spiegano che ha pagato il noviziato in maniera tremenda. Il romanista Menichini, già suo compagno di squadra al Novara, garantisce: «Eppure era un fenomeno, il più bravo in Serie B, tre anni fa. Non può aver dimenticato il mestiere. Aveva colpo d’occhio e riflessi formidabili. Forse andava inserito gradualmente oppure ha avuto un destino ingiusto. Nel calcio non si può mai essere sicuri di nulla».

Garella è impaziente, va avanti con l’animo gonfio di risentimenti. E’ convinto che gli stanno rovinando la vita e la carriera, diffida di tutto e di tutti. Dice: «Io non posso dubitare di me. Ho cominciato a sbagliare qualcosa nelle prime partite: ad esempio, contro il Foggia, dopo aver commesso una gaffe, mi sono detto una parolaccia. Sono andato avanti, mi sono ripreso. Vinicio mi aveva rassicurato con poche parole. Insisti, io non ho mai dubitato di te, affermava. Ora Vinicio non c’è più. Mi dispiace tanto, anche se il signor Lovati si batte per recuperarmi psicologicamente, per allenarmi nel migliore dei modi. E’ possibile? Forse sono capitato alla Lazio nell’anno sbagliato, forse un portiere giovane ha bisogno di comprensione e di consensi intorno. Io, all’inizio, pensavo di superare qualsiasi ostacolo, qualsiasi giudizio prevenuto. Mi sentivo talmente forte, che non avevo paura di nulla. Io non ho mai conosciuto la paura. Qui a Roma ero arrivato sereno. Ho atteso un anno, senza far storie. Vinicio da tempo mi aveva fatto capire i suoi intendimenti. Quando mi annunciò che sarei partito titolare mi sembrò naturale, la cosa più logica del mondo. Ho sempre avuto stima professionale per Pulici. Sul campo, durante la Coppa Italia, mi sono però guadagnato il posto. Forse sarebbe stato meglio che avessi perduto… la sfida…».

Non credeva di poter arrivare a dubitare delle proprie capacità: è forse questa la radice di tutto: dei suoi risentimenti, delle inquietudini. Lui aveva sempre preso, nel modo più spontaneo e prepotente, decisioni importanti, aveva effettuato scelte con spregiudicatezza e coraggio. «Purtroppo, anche se il pubblico mi ha accolto favorevolmente, la stampa mi ha stroncato. E alla fine, la stampa ha condizionato il pubblico. Ho preso sei gol a Lens e sono andato sotto processo. Ho preso quattro gol a Perugia e giù bastonate. A Verona è stata in parte colpa mia, non ho mai capito come abbia potuto incassare quelle due reti. Poi altre partite e altre esitazioni, che non ricordo nemmeno più… Voglio dimenticare in fretta. I quattro gol di Napoli, mi hanno fatto saltare i nervi. Solo d’uno, però, posso ritenermi responsabile. Quando si subiscono tanti gol, il portiere non sempre è responsabile. Ma ormai non voglio dire più nulla, non voglio criticare nessuno. Non servirebbe. Ormai lotto solo per la Lazio, non per me…».