Il calcio ha i suoi eroi silenziosi, e Ray Clemence è uno di questi. Portiere leggendario di Liverpool e Tottenham, ha ridefinito il ruolo con la sua classe e la sua discrezione.
Il calcio moderno corre veloce, troppo veloce. I giocatori cambiano maglia come cambiano le stagioni, gli stipendi astronomici hanno ridefinito le priorità, e la fedeltà è diventata una reliquia del passato. Ma c’è stata un’epoca in cui le cose erano diverse, un’epoca incarnata perfettamente da Ray Clemence. Con il suo fisico imponente di 1,91 metri, una caratteristica non comune per i suoi tempi, e quel mullet che lo facevano sembrare più un rockstar che un portiere, Clemence ha scritto una storia d’amore con il calcio inglese che merita di essere raccontata. La sua maglia verde è diventata un simbolo, un faro di sicurezza per i tifosi di due delle squadre più prestigiose d’Inghilterra. Non era solo un portiere tecnicamente eccellente; era un guardiano di valori, un custode di tradizioni, un ultimo romantico in un mondo che stava già iniziando a cambiare.
L’occhio di Shankly
La storia del primo incontro tra Clemence e Bill Shankly sembra uscita da un romanzo. Era una grigia giornata del 1967, e il leggendario manager del Liverpool si era recato a vedere una partita del modesto Scunthorpe United. Il caso volle che proprio in quella partita il giovane Clemence visse una delle sue peggiori prestazioni. Tre gol subiti, errori evidenti, una giornata da dimenticare. Per molti osservatori presenti, quel ragazzo non aveva futuro nel calcio che conta.
Ma Shankly non era come gli altri. Dietro quegli errori, vide qualcosa di speciale: la personalità, il coraggio di rischiare, la capacità di non nascondersi anche dopo gli errori. Con una cifra che oggi farebbe sorridere, 18.000 sterline, il Liverpool si assicurò quello che sarebbe diventato non solo il più grande portiere della sua storia, ma una vera e propria istituzione del calcio inglese. La capacità di Shankly di vedere oltre le apparenze, di scommettere sul potenziale piuttosto che sul presente, si rivelò ancora una volta profetica.
La pazienza dei Grandi
I primi due anni di Clemence al Liverpool potrebbero essere un manuale su come costruire un campione. Due anni nelle riserve, un’eternità agli occhi di un giovane portiere, furono fondamentali perché in quegli anni Clemence non solo affinò la sua tecnica, ma costruì il suo carattere. Si allenava con la prima squadra, osservava, imparava ogni sfumatura del mestiere. I compagni raccontano di sessioni di allenamento estenuanti, di una voglia di migliorarsi che andava oltre il normale.
Quando finalmente, nel 1970, gli venne data l’opportunità di difendere la porta della prima squadra, era pronto non solo tecnicamente, ma soprattutto mentalmente. La sua prima stagione senza trofei non fu un fallimento, ma l’ultimo test prima di una cavalcata trionfale che avrebbe cambiato la storia del Liverpool.
Il Re d’Europa
Gli anni ’70 del Liverpool sono entrati nella leggenda del calcio mondiale, e Clemence ne è stato un protagonista assoluto. La vera consacrazione arrivò nel 1972-73, quando il club inglese conquistò un memorabile double: campionato e Coppa UEFA. In quella stagione, Clemence stabilì nuovi standard per il ruolo del portiere. Non si limitava a parare: comandava la difesa, leggeva il gioco, avviava l’azione. La sua parata su rigore a Heynckes nella finale di Coppa UEFA contro il Borussia Mönchengladbach divenne leggendaria.
Il periodo tra il 1974 e il 1978 rappresentò l’apice della dinastia Liverpool. Con Clemence tra i pali, la difesa, guidata da Phil Thompson e Alan Hansen, sembrava imbattibile. Il momento più alto fu probabilmente la Coppa dei Campioni del 1977. Nella finale giocata all’Olimpico di Roma, ancora contro il Gladbach, Clemence compì quella che molti considerano la parata della sua vita su Stielike. Il Liverpool vinse 3-1, ma senza quella parata sul punteggio di 1-1, la storia avrebbe potuto essere diversa.
Gli ultimi anni con i Reds videro Clemence raggiungere una maturità totale. Il suo stile era diventato più essenziale, meno spettacolare ma incredibilmente efficace. Nel 1981, dopo l’ennesima Coppa dei Campioni (vinta 1-0 contro il Real Madrid a Parigi), decise che era tempo di una nuova sfida. La decisione di lasciare il Liverpool non fu facile. L’emergere del giovane Bruce Grobbelaar e la voglia di mettersi ancora in gioco lo spinsero verso Londra.
I numeri di una Leggenda
I numeri che Clemence ha costruito al Liverpool sono qualcosa che va oltre la semplice statistica. 665 partite non sono solo presenze, sono 665 storie diverse, 665 battaglie combattute con la maglia dei Reds. E i 323 clean sheet non sono solo porte inviolate, sono monumenti alla sua capacità di leggere il gioco, di organizzare la difesa, di trasmettere sicurezza a tutto il reparto.
Cinque campionati inglesi in un’epoca in cui la First Division era forse il campionato più competitivo al mondo. Tre Coppe dei Campioni quando vincere in Europa era un’impresa titanica, quando ogni trasferta era una battaglia non solo sportiva ma anche ambientale. La sua capacità di dominare l’area di rigore ridefinì il ruolo del portiere: non più ultimo baluardo ma primo regista, non più solitario guardiano ma leader della difesa.
La rinascita con gli Spurs
Il trasferimento al Tottenham nel 1981 poteva sembrare il classico ultimo contratto di una carriera gloriosa. Invece, fu una seconda giovinezza. A White Hart Lane, Clemence dimostrò che la classe non ha età. La vittoria della FA Cup nel 1982 contro il Queens Park Rangers fu la sua personale rivincita contro chi lo considerava sul viale del tramonto. Nei suoi sette anni agli Spurs, aggiunse 330 presenze al suo curriculum, diventando un idolo anche per i tifosi del Tottenham. Questa sua capacità di adattarsi a un nuovo ambiente, di essere leader in uno spogliatoio diverso, dimostrò ancora una volta una personalità che andava ben oltre le qualità tecniche.
Il duello infinito
La storia di Ray Clemence con la Nazionale inglese è forse una delle più peculiari nel panorama del calcio internazionale. Sessantuno presenze in nazionale potrebbero sembrare un numero rispettabile, ma raccontano solo una frazione della verità. Per comprendere appieno questa storia, bisogna parlare di quello che è stato definito il “lusso impossibile” dell’Inghilterra: avere contemporaneamente due dei migliori portieri al mondo e dover scegliere tra loro.
Quando Gordon Banks, l’eroe del Mondiale ’66, fu costretto al ritiro dopo un tragico incidente stradale nel 1972, l’Inghilterra si ritrovò di fronte a un bivio. Da una parte c’era Clemence, già colonna del Liverpool dominante in Europa. Dall’altra Peter Shilton, più giovane di un anno, che stava emergendo con il Leicester City.
Il confronto tra i due portieri andava oltre la semplice competizione. Erano l’incarnazione di due scuole di pensiero diverse sul ruolo del portiere. Mentre Clemence aveva sviluppato un gioco basato sul posizionamento impeccabile e sulla lettura superiore delle situazioni, Shilton si distingueva per i suoi riflessi felini e le parate spettacolari. Una dicotomia che divideva gli esperti e appassionava i tifosi.
Clemence era il prodotto di una difesa organizzata come quella del Liverpool, abituato a gestire poche situazioni ma cruciali. Shilton, forgiato in squadre meno blasonate, era costantemente sotto pressione e aveva sviluppato un repertorio di parate più ampio, costretto a interventi più frequenti e spettacolari.
Nel 1977, il ct Greenwood prese una decisione senza precedenti: alternare i due portieri. Una scelta che oggi sembrerebbe folle, ma che all’epoca aveva una sua logica. Per sette anni, Clemence e Shilton condivisero non solo la maglia della nazionale, ma anche la stanza nei ritiri. Una situazione unica che produsse risultati sorprendenti. I due si allenavano insieme, spingendosi reciprocamente verso l’eccellenza, sviluppando una rivalità rispettosa e mai tossica. Senza volerlo, crearono un nuovo standard per i portieri inglesi.
Il punto di svolta arrivò con il Mondiale 1982. Greenwood dovette fare una scelta definitiva e optò per Shilton. Una decisione che segnò profondamente Clemence, non tanto per la scelta in sé, ma per il timing: a 33 anni, sapeva che quella era probabilmente la sua ultima chance di giocare un Mondiale da titolare.
Comunque sia, le statistiche di Clemence con la nazionale parlano chiaro: 61 presenze, 27 clean sheet, solo 48 gol subiti (0,79 gol a partita). Numeri che in qualsiasi altra epoca gli avrebbero garantito il posto da titolare indiscusso.
L’eredità
C’è un momento, catturato in una foto sbiadita del 1975, che racchiude l’essenza di Ray Clemence: il portiere è fuori area, a quaranta metri dalla porta, mentre imposta l’azione. I difensori del Newcastle lo guardano confusi, il pubblico trattiene il respiro. Era calcio dell’altro mondo, per quei tempi, e Clemence stava silenziosamente rivoluzionando l’arte della porta.
A Liverpool, negli anni ’70, i portieri erano ancora visti come una razza a parte, creature solitarie confinate alla loro area di rigore. Clemence ruppe questo isolamento autoimposto. Durante gli allenamenti, chiedeva di partecipare alle esercitazioni di possesso palla. Bob Paisley, inizialmente scettico, finì per costruire schemi che partivano proprio dai suoi piedi.
White Hart Lane e Anfield sono separati da 220 miglia di asfalto inglese, ma unite da un filo invisibile chiamato Ray Clemence. Due tifoserie che raramente concordano su qualcosa, condividono lo stesso rispetto reverenziale per quest’uomo che ha saputo essere profeta in due patrie. Non è mai stato solo questione di clean sheet o trofei – era il modo in cui faceva sembrare normale l’eccezionale.
Ma forse il suo lascito più prezioso è nell’aver dimostrato che l’eccellenza non richiede eccentricità. Per questo la sua rivoluzione è stata tanto più profonda quanto più discreta.