Come è nato il Catenaccio

Storia della tattica difensiva che ha “inventato” la figura del libero dietro i difensori. Nata in Svizzera negli anni ’30, viene sublimata in Italia da Rocco e Herrera con Milan e Inter negli anni ’60.

Il catenaccio è una strategia calcistica che si colloca tra i classici moduli a «W» e «WM», correggendone le debolezze. È diventato famoso a livello internazionale grazie alle imprese di due squadre: la Svizzera dei Mondiali ’38, guidata dall’austriaco Karl Rappan, che fu il creatore del sistema, e l’Uruguay di Juan Lopez, che vinse a sorpresa i Mondiali del ’50, sconfiggendo al Maracanà il Brasile favorito della «diagonale», in quella che è ricordata nel Paese del «futbol bailado» come «la più grande tragedia sportiva di un popolo».

Proprio il successo celeste in quell’occasione, ottenuto contro una squadra molto più forte e dotata tecnicamente, esaltò i vantaggi del sistema: con una tattica intelligente e razionale, Davide poteva battere Golia. Svizzera e Uruguay sono gli esempi internazionali delle due linee di sviluppo quasi indipendenti del catenaccio, quella europea e quella sudamericana, che portarono a risultati simili. Lo schema del catenaccio valorizza le qualità difensive, le enfatizza e le trasforma in un’arma vincente, usandole come base per il contropiede. Rappresenta quindi la massima espressione del gioco difensivo.

Karl Rappan

Il «verrou» ideato dall’austriaco Karl Rappan prevede tre difensori che marcano a uomo i tre attaccanti avversari e un altro difensore che interviene in aiuto dei compagni in difficoltà, svolgendo il ruolo di «spazzino» dell’area di rigore, mentre uno dei centrocampisti ha il compito di rientrare per rinforzare la difesa. Piuttosto simile il disegno tattico dell’Uruguay 1950: la squadra riprendeva il vecchio schema metodista — tipico di quel calcio che già le aveva dato successi mondiali nel 1930 — con alcune modifiche.

I centrocampisti (Gambetta e Andrade) marcano le ali avversarie; i due terzini hanno ruoli diversi: Tejera contrasta in prima battuta l’attaccante avversario con la palla, Matias Gonzales agisce alle spalle dei centrocampisti in seconda battuta. Il regista Obdulio Varela si posiziona al centro, davanti alla linea difensiva, con compiti di intercettazione ma soprattutto di impostazione per le trequartisti Perez e Schiaffino, che fanno da collegamento tra la difesa e l’attacco. In avanti, le due ali Ghiggia e Moran si allargano sulle fasce, pronte a servire la punta centrale Miguez. In sostanza, si tratta di un «metodo» adattato alle marcature a uomo, visto che in pratica il primo terzino, Tejera, fa da stopper, mentre l’altro, Gonzales, fa da libero. Anche i trequartisti si abbassano spesso, per poi «saltare» il centrocampo con lanci lunghi.

L’Uruguay 1950

L’origine del catenaccio in Italia fu un processo lungo e difficile. Il torneo del 1944, disputato durante la guerra e non riconosciuto ufficialmente per la situazione precaria del Paese (diviso in due dalla Linea gotica e in parte occupato dagli anglo-americani), fu vinto dalla squadra dei Vigili del Fuoco di La Spezia. L’allenatore era Ottavio Barbieri, ex calciatore del Genova e già tecnico della squadra della Lanterna, che aveva seguito i principi del «sistema» insieme a William Garbutt alla fine degli anni Trenta.

Il modulo che ideò per i «pompieri» era una combinazione tra «metodo» e «sistema» e presentava molte somiglianze, in prospettiva, con il futuro Uruguay del ’50. Lo stesso Barbieri lo chiamò «mezzo sistema»: le marcature erano individuali, secondo le regole del «WM», e il primo terzino si occupava in modo fisso del centravanti, tenendo il secondo dietro di sé, con il ruolo di fatto di «libero». Un modulo simile fu usato dal Modena nel campionato ’46-47, dominato dal grande Torino. Tra tante squadre potenti, il modesto Modena riuscì a fare una grande stagione, finendo al terzo posto, grazie a un «metodo» particolare, che prevedeva il primo terzino, Remondini, a marcare il centravanti e il secondo, Braglia, a coprire le sue spalle.

Gipo Viani

In quegli stessi anni Gipo Viani, allenatore della Salernitana, portò la squadra a una «storica» promozione e poi a disputare un dignitoso campionato di massima serie (che si concluse con la retrocessione per un solo punto) grazie a un astuto accorgimento tattico: con la formazione schierata a «WM», compensò le lacune difensive del modulo mettendo stabilmente un finto centravanti, Piccinini (che infatti nel ’50 avrebbe vinto lo scudetto con la Juve giocando in mediana) come marcatore del centravanti avversario: in questo modo liberava un difensore, Buzzegoli, da compiti «personali», permettendogli di pulire l’area, chiudendo gli spazi lasciati aperti dai compagni di reparto. Il modulo prese, dall’inventore, il nome almeno curioso di «Vianema».

Altri semi-segreti precursori di una formula, il catenaccio, che per anni fu considerata da noi una vergogna per chi osasse applicarla più o meno apertamente (e ancora oggi non è finita…) si ebbero nel campionato ’49-50, protagonista la Juventus di Jesse Carver, che conquistò il titolo anche grazie a un modulo… clandestino, che vedeva il mediano Mari arretrare a marcare il centravanti, con Parola di fatto «libero» e Muccinelli arretrato a tornante, ma solo in circostanze occasionali. Questa serie di anticipazioni, cui va aggiunta la coriacea Triestina che Rocco portò al secondo posto nel campionato ’47-48, trovò la sua piena consacrazione nell’adozione scoperta del catenaccio da parte dell’Inter di Alfredo Foni nel vittorioso campionato ’52-53.

La Triestina di Rocco, stagione 1947/48

Dopo un inizio di stagione deludente, quella squadra cambiò il suo schieramento tattico adottando il modulo “blasfemo” e grazie a questo riuscì a vincere il campionato, superando squadre più forti tecnicamente come Juventus e Milan, che giocavano con il classico WM. In quella squadra, oltre al decisivo Blason, libero che ripuliva ogni azione avversaria, era fondamentale l’ala tornante: Armano, un attaccante esterno, si sacrificava in fase difensiva aiutando la linea arretrata, mentre la squadra nerazzurra di Foni si affidava ai rapidi contropiedi dei suoi attaccanti, sfruttando le debolezze difensive dei WM rivali. Quella stessa squadra fu costretta, dopo due anni, ad abbandonare quel modulo, a causa delle critiche della stampa… indignata per la scarsa spettacolarità di una simile disposizione tattica.

Tuttavia, qualche anno dopo, un’altra Inter, quella di Helenio Herrera avrebbe dominato la scena, sia nazionale che internazionale, grazie al catenaccio. In quell’epoca, però, il libero era ormai diventato un ruolo fondamentale nel nostro calcio e nessuna squadra si sarebbe sognata di schierare la difesa senza quel prezioso elemento, il cui nome, piuttosto controverso, va attribuito alla paternità di Gianni Brera, grande sostenitore (e precursore) del difensivismo all’italiana che, nel corso del campionato ’47-48, propose la necessità che lo stopper centrale del WM venisse protetto da un altro difensore “libero” da impegni di marcatura.

Due modelli di Catenaccio

La Svizzera 1938

Mentre l’Austria di Hugo Meisl e del suo “Wunderteam” aveva incarnato il vertice del gioco offensivo, un altro allenatore austriaco, Karl Rappan, fu il pioniere dello schema più difensivo della storia del calcio. Rappan, che aveva già sperimentato interessanti soluzioni tattiche al Servette, era alla guida della Nazionale Svizzera al Mondiale 1938. Consapevole dei limiti tecnici della sua squadra, decise di rinforzare la difesa, ideando un modulo che si preoccupasse prima di tutto di contrastare e annullare il gioco avversario.

Schierò quindi davanti al portiere Huber i mediani Springer e Loertscher, con al centro il terzino sinistro Lehman, incaricato di marcare a uomo i tre attaccanti nemici; dietro questa prima linea difensiva posizionò il terzino destro Minelli, vero “spazzino” dell’area di rigore, pronto a intervenire sull’attaccante che fosse eluso dal proprio marcatore. Davanti a Lehman, in posizione centrale, agiva il centromediano Vernati, regista del gioco insieme ai due interni: Walacek, centrocampista tuttofare, che doveva rientrare in aiuto alla difesa nelle azioni avversarie, e l’elegante André “Trello” Abegglen, vero “cervello” avanzato, piccolo di statura, ma geniale nello smistare i palloni. In attacco, le tre punte classiche: le due ali Amadò e George Aebi e il centravanti Bickel.

Con un modulo così chiuso sulla linea difensiva e pronto a ripartire in contropiede grazie ai lanci lunghi di Vernati, Rappan riuscì nell’impresa clamorosa di eliminare al primo turno del torneo mondiale nientemeno che la Germania di Sepp Herberger, tra le favorite: i tedeschi potevano infatti contare sulla tradizionale forza fisica dei loro giocatori e sulla spiccata tecnica dei migliori elementi austriaci, inglobati alla vigilia della competizione mondiale a seguito dell’“Anschluss” (annessione) dell’Austria alla Germania di Hitler. Il netto 4-2 con cui gli svizzeri vinsero la partita fu tra i risultati più sorprendenti di quel Mondiale e resta una tappa indimenticabile nella storia del calcio svizzero. La squadra fu poi eliminata nei quarti dall’Ungheria, che avrebbe poi perso in finale contro l’Italia.

L’Inter di Foni

Dopo la seconda guerra mondiale, l’arrivo di calciatori stranieri nel nostro campionato migliorò la qualità delle squadre. Soprattutto quelle delle grandi città, che potevano permettersi di acquistare campioni e goleador da altri paesi. Così arrivarono Nordahl, Wilkes, Martino e molti altri. Per contrastare la forza delle grandi, le squadre più piccole iniziarono a giocare in modo molto difensivo. Le difese si rinforzarono, e segnare diventò sempre più difficile.

Nel 1952 ci fu una svolta: anche una grande, l’Inter, adottò il famoso “catenaccio” (ispirato al “verrou” svizzero) scatenando le critiche dei puristi. Allenata da Alfredo Foni, (terzino sinistro campione del mondo 1938), la squadra nerazzurra basò il suo gioco su un’ala finta, Armano, che venne spostato in difesa sulla linea dei terzini. Armano non era un difensore nato, anzi in origine giocava molto avanti. Con un libero, Blason, padrone dell’area di rigore, due marcatori tenaci e aggressivi (Giacomazzi e Giovannini) e il trucco Armano, Foni poté schierare la squadra con tre attaccanti “veri” (l’interno Skoglund, Lorenzi e Nyers), grazie anche alle caratteristiche dei centrocampisti. Questi erano due mediani operosi e solidi Neri e Nesti, oltre al “regista” Mazza. Non che i giocatori fossero tutti di alto livello (a parte l’attacco), ma con questo schema, usato dalla sesta giornata di campionato, l’Inter subì solo 24 gol, vincendo lo scudetto con due punti sulla Juventus.

L’anno dopo (1953-54) Foni replicò lo schema e il successo, con Armano sempre nel doppio ruolo di “terzino offensivo” o di “ala arretrata”. La figura del difensore di spinta rimase poi diffusa in tutto il calcio, arrivando fino ai giorni nostri. Foni negò che il suo sistema di gioco fosse principalmente difensivo (in effetti Armano segnò ben 12 gol nel 1952-53), sostenendo al contrario un grande spirito combattivo della sua squadra. Dopo i due scudetti consecutivi, tutto il calcio italiano prese a modello il modulo interista, basandosi su difesa compatta e contropiede.

La stessa Inter, ai tempi di Herrera, ne fu l’esempio più efficace, ma questa è un’altra storia…