“Io, diventato comunista per un gol…”

Ai Mondiali di calcio del 1974 c’è un incontro decisivo tra le due Germanie: quella dell’Est e quella dell’Ovest. Nel ricordo di un allora bambino di dieci anni le origini e le motivazioni di uno «schieramento» non soltanto calcistico…


Il 22 giugno 1974, al settantottesimo minuto di una partita di calcio, sono diventato comunista.Non me ne sono reso conto subito, ma molti anni dopo, perché avevo solo dieci anni. Ho avuto un sussulto, una specie di esultanza interiore non prevista, un singhiozzo, la reazione del ginocchio al martelletto che misura i riflessi; una cosa controllata e allo stesso tempo incontrollata. Poco comprensibile, come la reazione di mio padre, che si è voltato di scatto a guardarmi, quasi per dirmi: ma che fai? – però non lo ha detto.

E tutti e due siamo tornati composti e attenti alla partita, attenti ma non troppo, col distacco che avremmo dovuto avere per una partita dei Mondiali che non ci riguardava e che in fondo aveva poca importanza anche per le due squadre che giocavano: erano entrambe già qualificate per il turno successivo e in palio c’era solo il primo posto nel girone.Già quattro anni prima, a sei anni, guardavo le partite dei Mondiali di calcio, e mio padre era venuto a svegliarmi una notte per dirmi: devi venire a vedere, è una partita bellissima. L’aveva fatto, credo, perché mentre Italia e Germania continuavano a segnare gol, si erasentito solo e aveva dubitato che stesse accadendo per davvero. Aveva bisogno di un testimone.

Così, assonnato e incredulo, avevo visto ancora qualche gol – due? uno? Come faccio a ricordare quanti, ora, se li ho tutti davanti agli occhi, come un’ossessione? Poi ero stato sveglio fino all’alba a guardare la sfilata. Della finale con il Brasile ricordo solo una mongolfiera sul campo e mio zio che bestemmiava e si faceva rosso sul collo, mentre mio padre sussurrava timido: siamo stanchi, siamo stanchi. Lo capivo. Ero stanco io, solo per essere stato sveglio tutta la notte, figuriamoci loro che avevano pure giocato tutto quel tempo. Però è da questo che bisogna partire, dalla Germania.

“Mio padre non nominava volentieri l’altra Germania, e se lo faceva sembrava avere un tono di disprezzo. E soltanto una poteva chiamarsi Germania…”

Ora era il 1974. Avevo dieci anni e una conoscenza dei giocatori e delle squadre di calcio precoce e precisa. Erano i miei primi Mondiali totalmente consapevoli. Pomeridiani e serali, e si svolgevano in Germania, appunto. Avevo comprato anche l’album delle figurine Munchen ’74; eavevo imparato i nomi dei calciatori ancora prima dell’inizio. Era tutto pronto, l’Italia tra le favorite, ero stato anche allo stadio durante il girone di qualificazione, a Napoli, la mia prima partita dell’Italia dal vivo, contro la Turchia, zero a zero, una partita bruttissima. L’unico ricordo che mi è rimasto, Riva e Anastasi lì davanti a me, con un paio di difensori intorno, che guardano la palla lontana e stanno fermi, tutti e due con le mani sui fianchi, per un sacco di tempo.

Ero pronto. Andava tutto bene, tranne una cosa. Inquietante. Ne parlava anche la Gazzetta dello Sport. Diceva: un momento storico. Parlava di un’altra Germania, la Germania Est, e tutte e due le Germanie erano state sorteggiate nello stesso girone. Si sarebbero incontrate. Un momento storico. Anche nell’album c’era quest’altra Germania. Era strano, perché in una c’erano Beckenbauer, Gerd Müller, Sepp Maier e altri che tutti già conoscevamo; nell’altra, solo giocatori sconosciuti, che giocavano quasi tutti nella Dinamo Dresda. Sì, anche noi avevamo il blocco-Juve, ma lì era diverso: sembrava che la Dinamo Dresda cambiasse maglia e cambiasse nome, ogni tanto, ma che giocassero sempre gli stessi.

Io mi ero dato questa spiegazione: che la Germania Est fosse una specie di formazione delle riserve, la squadra B. In fondo, era sempre Germania, ma aveva meno attenzione, non si diceva mai che era la squadra di casa, non era per niente favorita al contrario dell’altra… Insomma, se me lo avessero chiesto, avrei risposto che forse era venuta a mancare qualche altra squadra e avevano messo in piedi un’altra formazione per la regolarità della competizione. Solo per questo motivo c’era un’altra Germania con calciatori che nessuno conosceva e di cui nessuno parlava.

Intorno, c’erano nomi indimenticati o dimenticati come Francisco Marinho, Francillon, Heredia, Rivelino, Ronnie Hellström, Hristo Bonev, Bremner e il centravanti haitiano Sanon che batté Zoff dopo 19 ore e 3 minuti di imbattibilità. C’erano le partite con l’Olanda più forte di tutti i tempi, di Cruyff, Rep, Neeskens e Van Hanegem; il 9 a 0 della Jugoslavia contro lo Zaire; la Germania che giocava anche in maglia verde; c’era soprattutto la disfatta dell’Italia con la Polonia di Deyna e Szarmach e il gestaccio di Chinaglia all’indirizzo di Valcareggi. Dopo l’eliminazione dell’Italia, avevo paura che il Mondiale non lo guardassimo più. E invece, fin dalla partita successiva, mio padre accese il televisore e io fui sollevato.

Poi venne la sera del 22 giugno. Ad Amburgo, c’era la partita storica. L’incontro tra le due Germanie. Erano tutt’e due qualificate, ma non aveva importanza. C’era di più, molto di più. A quel punto, avevo capito che la storia della squadra delle riserve non funzionava. La questione era più complicata. Scoprii che quella che io avevo sempre chiamato la Germania era solo una parte della Germania; quella dell’Ovest, più precisamente. Mio padre non nominava volentieri l’altra Germania e se lo faceva sembrava avere un tono di disprezzo. Più esattamente, chiamava «Germania» la Germania Ovest, e «Germania Est» la Germania Est, e la nominava soltanto perché era ai Mondiali. Anche gli altri facevano così, e quindi facevo così anch’io.

Era come se non provassimo molta simpatia per quella squadra. Chiedevo spiegazioni e mio padre mi diceva che di Germania non ce n’era una, ma due, appunto. Diceva che per dividerle, per esempio, avevano messo un muro che attraversava tutta la città di Berlino. E quelli che stavano al di là del muro non potevano venire più da questa parte. Allora io pensavo che Berlino stava al confine tra le due Germanie – andavo a vedere sull’atlante e scoprivo che non era così, che stava solo da una parte, e c’erano due divisioni, una tra le due Germanie e una dentro Berlino perché nessuno voleva lasciare la città all’altro. Quando mio padre diceva di qua, parlava della Germania Ovest (ma diceva solo Germania). Quando diceva di là, parlava della Germania Est. Quella come noi è la Germania Ovest – la Germania, insomma. È più bella, più forte e se vuoi andarci ci possiamo andare. L’altra è più brutta e più debole e non ci fanno neanche entrare per vederla.

“…E allora io pian piano cominciavo a sentire crescere una simpatia per quelli più sconosciuti più deboli, più poveri per quelli sempre in difesa…”

Quindi, quando le squadre entrarono in campo, doveva essere tutto chiaro. Da una parte c’erano quelli come noi, dall’altra c’erano quelli diversi da noi. Per mio padre non c’era dubbio per chi fare il tifo: per la Germania.Per quella delle due che era rimasta, semplicemente, la Germania. Non avevo nulla da dire. Almeno, così mi sembrava. C’era il fatto, però, che in campo adesso c’erano due squadre, una di fronte all’altra: in una giocavano i forti, nell’altra i deboli; in una i ricchi, nell’altra i poveri; in una c’erano tutti calciatori famosi, nell’altra tutti sconosciuti; una squadra era padrona di casa, l’altra no, anche se si giocava in Germania – ma non era la loro parte di Germania.

E c’era ancora un’altra cosa: che l’allenatore e quelli che stavano in panchina, nella Germania dell’Est, avevano una tuta azzurra semplice semplice, come avrei potuto averla io, con una scritta enorme DDR, che sembrava cucita dalle mamme dei giocatori, proprio come la mia mamma cuciva il numero sulla maglia. C’era il fatto, insomma, che a me toccava fare il tifo per i più belli, per i più ricchi, per i più forti, per quelli con le maglie e le tute migliori. E questa cosa, in fondo, mi metteva a disagio. Se nessuno mi avesse condizionato, se nessuno mi avesse detto che una Germania era come noi e un’altra era diversa da noi, se ci fossero state due squadre anonime in mezzo al campo, io avrei tifato di sicuro per la più debole, la più povera, quella con calciatori sconosciuti e tute comprate al mercatino dell’usato. Sarebbe stato naturale.

E invece adesso mi dicevano che era naturale il contrario. Lo accettavo a fatica, anzi era come se lo accettassi, ma non mi sentissi in pace – come se a quel punto non è che non mi piaceva una Germania o l’altra, ma non mi piacevo io.Prima del fischio d’inizio, poi, Beckenbauer e Bransch si erano scambiati i gagliardetti e al telecronista era sembrato un gesto simbolico che avvicinava le due Germanie e ciò significava anche che quella dell’Est allora non era più così lontana.Infine, quando cominciò la partita, tutti i presupposti si rivelarono esatti: si capì subito che c’era una differenza tra le due squadre evidente e schiacciante, così da recuperare anche solo simbolicamente – come i gagliardetti – la mia idea di squadra A contro squadra B, titolari contro riserve, prima squadra contro squadra primavera (quella dei giovani).

E allora io, pian piano, nonostante una sola fosse la Germania e l’altra fosse solo l’Altra Germania, nonostante mio padre mi avesse raccontato le cose in un modo che la scelta non potesse essere che una, pian piano cominciavo a sentire crescere una incontrollabile simpatia per quelli più sconosciuti, più deboli, più fragili, più lontani, più poveri e con le tute più tristi. Respingevo il sentimento che cominciavo a provare, ma intanto che lo respingevo sentivo crescere dentro di me una naturale simpatia per quelli che subiscono di fronte a quelli che aggrediscono, per la difesa strenua della Germania Est contro l’attacco forsennato della Germania Ovest, per il portiere Croy che continuava a volare sui cross avversari anticipando Gerd Muller, Cullmann, Breitner e gli altri.

In silenzio, di sicuro senza saperlo con nitidezza, forse essendo addirittura convinto del contrario, provavo un sottile piacere per i minuti che passavano, per lo zero a zero che mi sembrava un risultato pacificatore, che avrebbe in ogni caso lasciato il primo posto nel girone alla Germania, ma avrebbe dato la soddisfazione all’Altra Germania di non capitolare. I più poveri e i più deboli avrebbero fatto una bella figura e la Germania vera non avrebbe perso. Mi sembrava un giusto compromesso tra ciò che dovevo sentire e ciò che cominciavo a sentire…

Di Francesco Piccolo . tratto da La matematica del gol (Fandango Libri)