Corea 1966: la guerra di Fabbri

La sua Corea è durata per tutta la vita. Ancora nel 1994, un anno prima dalla morte, Edmondo Fabbri ripeteva: «Non auguro a nessuno di provare quello che ho provato io, dal luglio al dicembre del ’66. Quello fu il più brutto Natale della mia vita».

Fu un anno terribile, quel 1966 che segnò per sempre la sua carriera. Squalifica, calunnie, tradimenti: Mondino tentò di raccontare la sua verità. Rimasto solo contro tutti, scelse il silenzio. E non cambiò idea.

Cosa avrebbe dovuto rivelare? Le conclusioni di un dossier che lui stesso iniziò a compilare di ritorno dall’Inghilterra e che avrebbe potuto essere intitolato: “le ragioni di una disfatta“. Il Ct aveva raccolto una serie di testimonianze (Bulgarelli, Lodetti, Facchetti, Pascutti, Janich, Mazzola, Rosato, Fogli e Rivera) allo scopo di provare un’ipotesi sconcertante, quella della congiura. I giocatori interpellati accennavano a sospette cure mediche e a un’insolita freddezza (se non addirittura una totale latitanza) dei dirigenti federali nei momenti topici del Mondiale.

Non gli andò bene nemmeno allora: anticipate dal quotidiano bolognese Stadio, le denunce furono smontate senza che i giocatori, preoccupati dell’imprevista pubblicità, insistessero più di tanto sulle loro posizioni. Ma cosa era successo nella Scuola dell’Agricoltura di Durham, sede di un ritiro avvelenato da troppi rancori? I fatti sono noti: battuto il Cile nella gara d’esordio («ma se continuiamo a giocare così, usciamo in fretta», fu triste profeta il buon Fabbri), l’Italia fu seccamente sconfitta dall’Unione Sovietica.

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Diventava così decisiva la sfida con i coreani, risolta da un gol di Pak Doo Ik, il presunto dentista che nell’iconografia calcistica italiana assunse i tratti conturbanti del belzebù. A fine gara si presentò ai cronisti soltanto il capo-delegazione Artemio Franchi (il presidente federale Pasquale era tornato in Italia per un’importante riunione): «Quando sono arrivato a Durham, alla vigilia della partita col Cile, ho trovato un ambiente tutto diverso da quello che avevo lasciato a Coverciano. Ho trovato giocatori che avevano paura, una squadra emozionata e tesa. Ho cercato dì capire perché, nessuno ha saputo dare una spiegazione convincente».

Quali erano i motivi della depressione? Colpa di un Fabbri teso e insicuro («Da oggi entriamo guerra», disse appena sbarcato in Inghilterra. Evviva!) o dell’autolesionismo di certi dirigenti che rinunciarono ad appianare le grane interne (dai premi alla rivalità tra interisti e il blocco MilanBologna)? E perché in tempi non sospetti Facchetti e Rivera avevano denunciato inspiegabili tremori e gambe molli? Possibile che i fantomatici congiurati, oltre ad abbandonare la squadra al proprio destino, fossero intervenuti attivamente con una specie di doping al contrario?

Su questi temi verteva il dossier che Fabbri non riuscì mai a concludere. Lette le testimonianze dei giocatori (con Rivera che parlava di mancata assistenza economica, Bulgarelli ed altri che si soffermavano su misteriose iniezioni), il medico della Nazionale Fino Fini annunciò querele per tutti, mentre il massaggiatore Tresoldi smontò punto per punto le accuse. Le fialette? Vitamine. L’aroma sospetto che si respirava nelle saune? Comune bagnoschiuma.

Ma dove voleva arrivare l’inviperito Mondino? Facchetti ne sa qualcosa: quando Fabbri lo ha raggiunto per raccogliere la testimonianza, si sarebbe presentato come inviato del presidente Pasquale. Lo scopo del dossier sarebbe stato quello di inchiodare il capo-delegazione Franchi e il dottor Fini, che avrebbero tramato nell’ombra per silurare lo stesso Pasquale. Credibile? Mah. Certo è che l’indagine si sfilacciò in una serie di regolamenti di conti personali col povero Fabbri nella parte del vaso di coccio.

Fu lui, alla fine, l’unico a pagare. Lo stesso, che evidentemente doveva aver appianato certi contrasti, comunicò all’ex Ct la squalifica per un anno proprio nel momento in cui Mondino si stava accordando col Milan per ricominciare. Le querele furono ritirate e il fallimento del calcio azzurro tornò a gravare sulle deboli spalle di un uomo solo. Che da quel giorno pensò soltanto a dimenticare: «La Corea? Sono passati tanti anni», mentì fino all’ultimo. Quella orribile partita, per lui, non era mai finita…