Costantino Rozzi – Intervista marzo 1983

L’impegno e il coraggio sono la sua bandiera e l’Ascoli è il suo quinto figlio. E’ per amore paterno, dunque, che spara a zero su colleghi presidenti, arbitri, calciatori, raccogliendo squalifiche e impopolarità

Intervista di Marino Bartoletti – Guerin Sportivo marzo 1983

Quando sbaglia, sbaglia per troppo amore. Una volta, al ritorno di una partita andata male, fece fermare il pullman al casello di Imola per chiamare Carlo Sassi dal «Molino Rosso» e insultarlo per un commento alla moviola che non gli era piaciuto. Le sue squalifiche hanno ormai fatto leggenda: in quindici campionati da presidente ha accumulato quasi due anni complessivi di sospensioni. E forse l’ultimo grande dirigente ruspante del nostro calcio e, come tale, va accettato: uno che dice «bianco» quando pensa bianco e che dice «nero» quando pensa nero. E questa, ne converrete, è una rarità degna di «Italia Nostra».

Al «Processo del lunedì» sembra trovare il suo vero habitat: è sempre uno degli ospiti più effervescenti e polemici. Memorabili sono rimasti i duetti col suo nemico storico, l’arbitro Lattanzi. Nell’Ascoli vede più un figlio che un’azienda: un figlio, all’occorrenza, da prendere a sculaccioni, ma che nessun altro — al di fuori di lui — può permettersi di trattare con poco rispetto. All’Ascoli, come detto, ha dedicato quindici anni di vita, tanto da cedere solo per pochi giorni a Fraizzoli il primato di presidente veterano della Serie A.

Si chiama Costantino Rozzi, cavaliere del lavoro, imprenditore edile (ha ricostruito anche lo stadio in cui gioca la squadra bianconera): rappresenta, nel grande ed affascinante giardino zoologico del football italiano 1’ impegno e il coraggio della provincia. Ha fatto di Ascoli, cioè della più piccola città partecipante al campionato (56.200 abitanti all’ultimo censimento, contro i 59.000 di Avellino), una forza ormai storica del nostro calcio contemporaneo, dando alle Marche una dignità sportiva d’alto bordo anche in questo sport.

Nei suoi rapporti coi calciatori una stretta di mano vale ancora di più di un pezzo di carta. Nessuno s’è mai lamentato della sua gestione, anche se i detrattori lo accusano di paternalismo. Ma non è con un paternalismo deteriore, ad esempio, che ha vissuto e risolto uno dei casi più imbarazzanti e drammatici delle ultime stagioni: l’arresto per droga di uno dei suoi giocatori, Gasparini.

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«Il calcio — disse allora a chi lo interrogava con gravità — è fatto per educare e rieducare: dunque, noi del calcio dovremo essere i primi a dare ima mano a questo ragazzo». E nessuno, in nessun stadio d’Italia, ebbe il coraggio di levare un solo insultò all’indirizzo dello stopper ascolano. Il suo impegno e i suoi poteri trascendono e travolgono quelli tradizionali di un presidente.

Tre anni fa l’Ascoli venne invitato ad un torneo nordamericano quale prima classificata del campionato italiano («In effetti eravamo arrivati quinti, ma era il periodo del “calcioscommesse” e dei Campionati Europei e tutti avevano rifiutato»). Si doveva partire il giorno dopo: compenso fissato 120.000 dollari. In società ci si accorse che nessun giocatore aveva il passaporto: Rozzi tirò giù dal letto il questore, convocò un amico con la Polaroid e fece preparare in una sola notte venti passaporti firmati e nuovi di zecca. La squadra decollò il giorno dopo per New York: «E vinse pure il torneo!».

È uno degli ultimi alfieri del sorteggio arbitrale («Perché io mi devo prendere Paparesta e la Juve no?»), anche se ora la faccenda è tornata moderatamente in auge. È l’unico paladino di una battaglia che vorrebbe sostituire Barbe con un organo collegiale («Ci sarebbe maggior garanzia di obiettività»). Nel suo frenetico agitarsi ha fatto vittime illustri: l’arbitro Pieri, per esempio, che s’è visto negare la patente di «internazionale» per essere stato sorpreso da lui a cena con un dirigente della Roma, a notte fonda, prima della partita fra l’Ascoli e la squadra giallorossa. Ha al suo attivo colpi di mercato memorabili: ha valorizzato giovani e rigenerato anziani.

Ogni anno si prende la soddisfazione di battere qualche «grande» («Anche se, per noi, sarebbe meglio battere qualche “piccola” in più e qualche “grande” in meno»). È alla guida dell’unica società di calcio italiana con un florido conto in banca: ogni anno lui, come gli altri consiglieri, si tassano di parecchie decine di milioni a fondo perduto per irrobustire la «dote». Poco tempo fa, per risolvere a modo suo il problema del ritiro della squadra ha acquistato… un albergo fuori Ascoli, a Colle San Marco. Ci ha assicurato che è molto più conveniente così.

— Lei che cosa si considera, un presidente-padrone, un presidente-manager, un presidente-mecenate, o che altro?
«Mi considero un presidente voluto dal popolo. Ovvero dai tifosi. E anche amato. Tutto il restò passa in second’ordine. Sa cosa le dico?».

— No, me lo dica…
«Che non so neppure quante azioni ho. Ma che se sto in questo posto è perché tutti sono felici che io ci stia. Prima di tutto, devono venire l’Ascoli e gli ascolani. Poi noi dirigenti. Se la squadra va bene ci guadagnano gli sportivi, se va male ci rimettiamo noi consiglieri. Ed è giusto che sia così».

— Ma non l’hanno stufato quindici anni consecutivi di presidenza?
«No. Anzi, finché mi ci lasciano, ci voglio rimanere. Ormai questa esperienza fa parte integrante della mia vita. Quando il campionato è fermo perché gioca la nazionale, mi dico sempre “oh, meno male che passo una settimana tranquilla”. E, invece, arriva la domenica e sento che mi manca qualcosa, che non mi basta la sicurezza matematica di… evitare una sconfitta. Anche in estate, per qualche settimana mi rilasso, poi come sento che mi manca l’odor di canfora degli spogliatoi comincio a dare in ismanie. E non vedo I’ ora che ricominci tutto. Persino la sofferenza».

— Lei è rimasto l’unico presidente, l’ultimo, ad andare ancora in panchina: che cosa la spinge a farlo?
«Forse perché detesto la passerella della tribuna d’onore. O forse perché ormai sono abituato a vedere le partite da lì, anche se credo che la panchina sia il posto d’osservazione più infelice. Il fatto è che sento che quello è veramente il “mio” posto. Se non mi trovate è perché mi hanno squalificato… E infatti in questo periodo non ci sono».

— In tanti anni che cosa ha visto cambiare nel mondo del calcio?
«Troppo poco: le nostre leggi sono più vecchie di quelle della Chiesa. Che dico? La Chiesa, dopo mille anni di immobilismo, ora s’è mossa. I regolamenti di Lega no».

— Che hanno i regolamenti di Lega che non vanno?
«In alcuni casi non si sono neppure accorti che i nostri club si sono trasformati in società per azioni. A volte esistono addirittura delle contraddizioni clamorose. E questo è solo un esempio. Poi ci sono le norme federali, quelle di disciplina. Un vero e proprio ammasso di vecchiume».

— Se lei fosse, per un giorno, padrone del calcio italiano, da che parte comincerebbe a rinnovarlo?
«Bisognerebbe fare almeno venti riforme tutte assieme».

— Ma la prima quale potrebbe essere?
«Finalmente una regolamentazione seria e obiettiva dei rapporti fra il sindacato (cioè l’ associazione calciatori) e gli “imprenditori” (cioè noi rappresentanti delle società). Si formino commissioni paritetiche, si discuta. Ora siamo all’assurdo che i calciatori non hanno un interlocutore: nel senso che la Lega Calcio prende in considerazione, approva, recepisce qualsiasi proposta dell’Associazione. Lo si fa per pigrizia, per amore di quieto vivere, per non disturbare la Federazione, non so. So solo che ogni iniziativa va sempre a danno delle Società si arriverà a situazioni talmente acquisite e compromesse che nessuno potrà più sopportare».

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— C’è sempre il Totocalcio…
«Eh già! Ora ci daranno ii contentino per tappare i buchi e si ricomincerà daccapo. Ma io non tollero neanche questo. Bisogna smettere di alimentare la voracità dei calciatori: ovvero della categoria di persone che guadagna di più in Italia e che, ciononostante, non smette mai di chiedere e di pretendere».

— Ma, ammesso che sia così, la vostra Lega che cosa ci sta a fare?
«Me lo chiedo anch’io. La richiesta dei calciatori di essere stipendiati dalla vecchia società di appartenenza anche dopo lo svincolo è assurda, immorale e persino anticostituzionale. Fui proprio io, durante il pranzo che i presidenti di A e di B tennero dopo il ricevimento da Pertini e dal Papa, a farmi portavoce presso Matarrese del malumore comune…».

— Probabilmente si spiegò male, perché dopo pochi giorni Matarrese, pur di scongiurare lo sciopero, accettò le richieste di Campana…
«Matarrese non era nemmeno autorizzato a discutere: doveva rigettare le richieste e basta. Poi non ho capito bene che pasticcio sia venuto fuori. Comunque una cosa è certa : per quanto mi riguarda non accetto nemmeno una delle concessioni fatte da Matarrese. Se vuole, le applichi per il suo Bari: l’Ascoli Calcio si comporterà diversamente».

— E se no?
«Se no, come mi auguro, verrà fuori un finimondo. Finalmente!».

— Mi sembra di aver capito che lei ama poco l’Associazione Calciatori, ma ama ancor meno la Lega Calcio…
«Cerco di frequentarla il meno possibile. Come potrei amare in questo momento una Lega e un presidente di Lega che vanno addirittura contro gli interessi dei propri associati? Matarrese, lo ripeto, ha agito di testa sua e contro la volontà dei presidenti di A e di B, mal interpretando un mandato che gli imponeva di comportarsi in maniera esattamente opposta di come s’è comportato. Ora paghi lui. In caso contrario cominceranno a volare le denunce».

— Qual è, a suo parere, il male maggiore del nostro calcio in questo momento? Spero che non mi risponderà: Matarrese…
«No, le rispondo la mania per i giocatori stranieri e la folle “euforia” che spinge molti presidenti a spendere in maniera smodata per accaparrarsi questa o quella presunta stella. Molti credono che la buona annata del nostro calcio dipenda dall’arrivo degli stranieri: niente di più falso. Il boom è legato al rilancio di grandi città come Roma o Firenze e alla reazione che questo ha suscitato anche altrove. E poi, non dimentichiamolo, c’è stata anche la vittoria ai Mondiali. In questo clima qualche amministratore ha perso il senso delle proporzioni: e allora ecco il mezzo miliardo di ingaggio al giocatore straniero e, soprattutto, le pretese dei giocatori italiani, che non vogliono certo essere da meno. Anche per questo, a parte Zahoui che è un caso molto, ma molto particolare, io non voglio importati: se no, con che faccia potrei offrire trenta milioni all’anno ai miei ragazzi? Non solo, ma se quest’anno gli incassi sono andati bene — forse perché legati a un momento di discreto interesse per il calcio — chi ci garantisce che in futuro sarà ancora così? Attenzione, dunque: perché l’attivo potrebbe diminuire, ma le spese continuerebbero a salire. E allora sì che il calcio italiano farebbe bancarotta!».

— A proposito di previsioni divertenti: che accadrà dopo lo svincolo?
«Potrà anche accadere che le società delle piccole città muoiano. E questo sarebbe davvero terribile, perché prescinderebbe dai meriti sportivi e da quelli dirigenziali. Un centro come Ascoli, coi suoi 60.000 abitanti, potrebbe non garantire più gli incassi necessari alla sopravvivenza. Sarebbero favorite solo le grandi città: dunque le dimensioni urbane e anagrafiche prevarrebbero sulla bravura e sull’oculatezza…».

— Mentre ora…
«Mentre ora, perlomeno, al miliardo e mezzo di incassi, possiamo aggiungere quello che guadagnamo valorizzando i giovani o rigenerando i vecchi. Ma dopo, quando ci sarà negata questa possibilità, con che cosa camperemo?».

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— Appunto, con che cosa camperete?
«C’è solo una soluzione: ampliare la percentuale del fondo comune che già ora esiste fra tutte le società. Al momento la quota è del quattro per cento: bisognerà arrivare almeno ai venti. Il concetto è che questo denaro trattenuto e accumulato venga ridiviso a fine anno in maniera inversamente proporzionale agli incassi, prendendo come base zero I’ incasso più alto e dando il massimo contributo a chi ha introitato di meno. Ci sarebbe un rilivellamento più giusto. In caso contrario, ripeto, città come Ascoli, o Verona — alla faccia delle loro tradizioni calcistiche — sarebbero destinate a scomparire dalla scena nazionale. Mentre altre città, attualmente insignificanti dai punto di vista sportivo, sarebbero privilegiate solo dal fatto di avere un “serbatoio” maggiore di spettatori. Come Bari, per esempio, che ha 400.000 abitanti…».

— Lei ce l’ha proprio con Matarrese…
«Voglio dire che la Serie A e la Serie B non verrebbero più stabilite dai meriti del campo, dalle capacità organizzative, dall’abilità, ma solo dalla popolazione».

— Per la verità già adesso ci sono società che hanno incassi, sponsor, sovvenzioni ma, che riescono a combinare disastri amministrativi…
«Sì, anch’io mi chiedo come possano certe società dilapidare incassi di una decina di miliardi. Ma tutto è giustificabile se si pensa che, in certi casi, si butta via un miliardo e mezzo alla sola voce “spese generali”. All’Ascoli c’è un segretario, un’impiegata e basta: non sprechiamo soldi per personale superfluo o, peggio per direttori sportivi superpagati. E, guarda caso, i nostri bilanci sono fra i più impeccabili di tutto il calcio italiano: chiedere agli uffici di Lega per credere».

— Nel bilancio dell’Ascoli non c’è neppure la voce «omaggi agli arbitri»…
«Per carità. Li trattiamo bene, gli facciamo compagnia, ma negli spogliatoi non trovano neanche una medaglietta».

— Lei, ormai, è rimasto uno degli ultimi Don Chisciotte del sorteggio arbitrale…
«Lasciamo perdere: le raccomando la coerenza dei miei colleghi che dicevano di stare tutti con me e che, alla resa dei conti, mi hanno lasciato praticamente solo».

— Non è rimasto il solo a contestare, però: quella arbitrale ora è una delle categorie più terremotate…
«Ah, guardi, in questo sono stato scavalcato a… sinistra dagli stessi interessati. Io, quando sbraitavo, parlavo al massimo dei loro peccatucci veniali: adesso sono stati proprio i fischietti più illustri a rinfacciarsi l’un con 1’ altro i peccati mortali che avrebbero commesso. Non riesco più a seguirli neanch’io…».

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— Dei suoi nemici storici (Menicucci, Pieri, Ballerini, Bergamo, Barbaresco, Agnolin), su quale si è, in qualche modo, ricreduto?
«Sono rimasti nemici storici. No, scherzo. Il bello di questo nostro sport è che, ogni tanto, ci si arrabbia un po’, ma alla fine passa tutto».

— Sarà. Ma perché un arbitro (come nel caso di Agnolin con l’Ascoli) può ricusare una società, mentre teoricamente una società non può ricusare nessun arbitro?
«È uno dei tanti assurdi del nostro calcio. In effetti non ho mai capito perché il signor Agnolin (che, nessuno aveva chiamato in causa) un bel giorno, abbia dichiarato che non ci voleva arbitrare più. Aggiungendo, se ben ricordo “almeno fino a che Rozzi resterà presidente”. E giusto tutto questo? E bello? E sportivo? A parte il fatto che se Agnolin non viene ad arbitrare ad Ascoli a me non me ne frega niente, anzi mi fa piacere, chi mi assicura che dopo quelle dichiarazioni non ci voglia danneggiare in qualche modo? Come può essere al di sopra delle parti una persona che fa una dichiarazione tanto compromettente? Chi mi garantisce che non potrebbe farci del male arbitrando, per esempio, una nostra diretta concorrente alla salvezza? Per questo io chiesi a Campanati di non far più dirigere quel signore in Serie A. E posso aggiungere che ritenni quelle dichiarazioni di Agnolin tanto offensive che avrei voluto denunciarlo: non lo feci perché… mi mancò il tempo».

— Qual è il più bravo arbitro italiano?
«In assoluto è diffìcile dirlo: ognuno ha le sue giornate buone o le sue giornate storte. Diciamo che, seguendo le partite internazionali, non ci possiamo affatto lamentare dei nostri».

— In che cosa è d’accordo con quello che ha dichiarato Casarin?
«Casarin? Non so, non ho seguito…».

— Non è che Lattanzi ha venduto le poltroncine anche a lei, per caso?
«Oh sì, ho tutte le fatture. Ma se è per questo Lattanzi è anche l’arbitro che mi ha squalificato di più: l’ultima volta per sei mesi. Si vede che avevo comprato poche sedie…».

— Che cosa pensa di Sergio Campana?
«Che è una persona abilissima: perché sfruttando i demeriti altrui è riuscito ad ottenere più di quanto lui stesso meritasse o sperasse».

— Che cosa pensò all’epoca dello scandalo delle scommesse?
«Che solo dei cretini potevano compromettere una carriera per quattro soldi, pur guadagnando decine di milioni all’anno».

— Coi suoi giocatori che rapporto ha?
«Un rapporto estremamente franco e onesto. Qui, il guardarsi negli occhi vale ancora di più di un contratto. Per questo nessuno è rimasto mai deluso dall’Ascoli. Forse la nostra forza consiste nel fatto che non ci sono intermediari parassiti».

— Che cosa le ha tolto il calcio?
«La passione per la caccia. Ma mi ha dato tantissimo: mi ha addirittura regalato degli anni di vita».

— Quali sono stati i suoi tre affari più grossi?
«Torrisi, pagato più o meno duecento milioni e rivenduto con oltre un miliardo di guadagno. Poi Scanziani, acquistato già maturo eppure rivenduto ancora con un grosso guadagno (malgrado il pelo sullo stomaco di quei birboni di Mazzola e Beltrami). E poi Adelio Moro comperato in liquidazione, artefice della promozione e rivenduto — al momento giusto — ad una cifra cinque volte superiore a quella spesa».

 

— E il prossimo «colpo»?
«De Vecchi. Vale tre miliardi: e non credo che prenderò molto meno quando lo darò via».

— Premesso che sia Mazzone il suo allenatore ideale, qual è, invece, l’allenatore che non vorrebbe al suo Ascoli?
«Non lo so: so solo che io non ho mai considerato l’allenatore un dipendente, ma un amico. Se ne ho licenziato qualcuno sono stato il primo a soffrirne. In fondo allenatore e presidente sono il dodicesimo e il tredicesimo giocatore di una squadra: sarebbe bello se potessero andare sempre d’accordo».

— Qual è il giocatore che comprerebbe domani?
«Scanziani. Lo abbiamo venduto solo perché avevamo bisogno di soldi».

— E invece quello che non vorrebbe mai?
«Francis».

— Certo che lei ama davvero i giocatori stranieri…
«Oh, se è per questo, fra un po’ saremo costretti ad amarli per forza, perché con le nuove leggi sul vincolo i vivai scompariranno e allora non avremo più giocatori italiani. A quel punto ci vorranno altro che due stranieri : ce ne vorranno undici per squadra!».

— Nel dubbio, lei non ne ha nemmeno uno: a parte il buon Zahoui…
«Zahoui, agli occhi di tutti, ha un solo grande difetto: quello di costare poco. Se lo avessimo pagato un miliardo, invece che cinque milioni, sarebbe considerato un fenomeno».

— Qual è il collega presidente che ama di più?
«Guidotti, del Verona. E poi Pontello che, in fondo, fa pure il mio stesso mestiere».

— E quello che le piace di meno?
«Tutti quelli delle grandi società: non conoscono il valore del denaro».

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— Ma costoro che cosa crede che pensino di lei?
«Che se non vado in Lega quando ci sono loro è meglio».

— Non le è mai venuta voglia di essere il presidente di una grande squadra?
«Premesso che non mi stanno simpatici i presidenti che passano da una società all’altra, credo proprio che potrei tranquillamente dirigere un’Inter o una Juve. Hanno molti meno problemi di noi».

— A proposito di problemi, perché l’Ascoli, che è la più importante società della regione, non ha uno sponsor marchigiano?
«Che vuole che le dica? L’Ariston ha preferito dare un miliardo alla Juve piuttosto che a noi. Con quei soldi avremmo fatto uno squadrone. Coi Merloni ci ho pure litigato per questa faccenda: sono persino uscito per protesta dall’Associazione Industriali Marchigiani. Ma che soddisfazione quando li abbiamo battuti!».

— A proposito di soddisfazioni: quale può essere il massimo traguardo al quale l’ Ascoli può aspirare un giorno?
«La partecipazione ad una Coppa internazionale. E ce l’avevamo quasi fatta ai tempi di Fabbri: saremmo arrivati secondi battendo la Juve alla penultima giornata, invece perdemmo e slittammo al quinto posto. Purtroppo proprio quell’anno diminuirono il numero delle squadre partecipanti alla Coppa Uefa e, per colmo di sfortuna, la Coppa Italia venne vinta dalla Roma che era dietro di noi in classifica».

— Per quanti anni ancora farà il presidente?
«Finché gli ascolani mi vorranno».

Questo è Costantino Rozzi, «presidente di campagna». Segni particolari: una pericolosa tendenza alla sincerità.

Intervista di Marino Bartoletti – Guerin Sportivo marzo 1983

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