Un anno dopo la tragedia di Superga, per la trasferta in Brasile dove l’Italia difendeva il titolo di Campione del Mondo, all’aereo venne preferita la nave. La traversata si rivelò un autentico disastro, e non solo per i palloni finiti in mare…
Fu davvero la tragedia di Superga a pretendere, poco più di un anno dopo il tragico 4 maggio 1949, un nuovo, pesante tributo tecnico al calcio italiano? La tesi non è affatto peregrina: a posteriori furono in molti ad attribuire al viaggio di trasferimento in nave, provocato da una sorta di fobia per i viaggi aerei nel dopo-tragedia, la causa principale del naufragio azzurro ai Mondiali del 1950.Innanzitutto, chi decise per la lunga, sfiancante crociera? Secondo una corrente di pensiero, sarebbero stati i giocatori a premere per evitare i pericoli del viaggio aereo. Va ricordato che all’epoca le trasvolate intercontinentali non erano ancora all’ordine del giorno come ai tempi nostri.
In realtà, fu Aldo Bardelli, giornalista insigne e membro della commissione tecnica presieduta da Novo, a mostrarsi irremovibile sulla scelta via mare. Tra i giocatori, lo appoggiò senza riserve, e con la schiettezza di carattere e lingua che lo contraddistingueva, Benito Lorenzi. La parte giornalistica ebbe a quel punto la meglio e nave fu, nell’approvazione generale. Non l'”Anna C”, in partenza da Genova per Santos, come deciso in un primo momento, bensì la “Sises”, dal porto di Napoli. La Nazionale arrivò in treno prima a Roma e poi alla stazione di Mergellina, a Napoli, accolta da un tripudio impressionante di folla, segno della grande attesa che circondava la difesa del titolo mondiale conquistato nel 1938. A quel punto cominciò la crociera-ritiro.
Due testimonianze valgono a chiarire quanto accadde. La prima è del grande Gianni Brera: «Poi si parte, con la maledetta Sises, e io m’illudo che il forzato riposo abbia sugli azzurri lo stesso effetto che ebbe su Luigi Beccali in viaggio per i Giochi di Los Angeles, dove trionfò sui 1500 metri. Gli azzurri hanno un duro campionato alle spalle (38 partite e il resto): la preatletica sul ponte e le ventate di iodio non potranno che ritemprarli… Durante la traversata – nefas auspicium – tutti i palloni cadono in mare. Lo sbarco a Santos avviene in casco coloniale, neanche ci si apprestasse a risalire il Niger. I facchini negri si rifiutano di scaricare il bagaglio di quei cafoni che si ritengono in colonia. Il giorno dopo, a San Paolo, Sperone pensa bene di far smaltire ogni ruggine ai suoi pupilli sottoponendoli a una massacrata senza mercè. Sono dunque tutti imbastiti, quei poverini, quando scendono in campo per affrontare la Svezia».
La seconda è di Angelo Rovelli, “decano” della Gazzetta dello Sport: «La partenza della Sises era l’avvio di un paio di settimane micidiali, le cui conseguenze sarebbero esplose non appena giunti a destinazione. Certo, per i turisti che facevano le vacanze sulla Sises, la traversata era salutare con svaghi e riposi; ma per calciatori-atleti, non proprio in viaggio-premio, la situazione diventava problematica sul piano della preparazione: gli strumenti per realizzarla si presentavano del tutto aleatori. Gli stessi Bardelli, Berretti e il mite Biancone, che dirigevano le operazioni con l’ausilio di due sperimentati tecnici quali Ferrerò e Sperone, dopo pochi giorni non nascondevano qualche perplessità. Di veri allenamenti neppure a parlarne. Al mattino gli Azzurri venivano radunati sul ponte di prima e allenati con palloni leggeri che, talvolta, maligni colpi di vento facevano precipitare in mare. Istintivamente, come fossero collegiali. i giocatori si davano la baia accusando questo o quello di non saper trattare convenientemente la sfera. Parve a tutti di tornare alla normalità quando l’8 giugno la Sises fece sosta a Las Palmas, dove la comitiva dopo lo sbarco fruì finalmente di un terreno di gioco per un allenamento consistente. Il clima appariva sereno, persino si giustificavano le mattane di Lorenzi, Remondini e Cappello i quali – acquistati al porto di Las Palmas tre sombreros – se ne servivano per comiche parentesi durante le serate decisamente noiose che separavano le Canarie dall’arrivo a Santos. Era difficile del resto – oltre a qualche lettura, a qualche torneo improvvisato di ping-pong, di pallavolo o del gioco della piastrella – trovare qualche cosa di meglio per ammazzare il tempo. Ferrerò e Sperone facevano il possibile per dare agli atleti un tono muscolare ma chiaramente con scarsi esiti. Intanto ciò che appariva evidente in tutti era la noia e in taluni il proposito di tornare in Italia, dopo i Mondiali, con il “maledetto” aereo».
Oltre alla traversata per mare, tuttavia, un ruolo importante lo giocò l’infelice sistemazione della Nazionale in Brasile. A San Paolo l’Italia venne alloggiata al dician-novesimo e ventesimo piano di un albergo di lusso, del tutto inadatto a garantire la quiete di un ritiro per una competizione di quel livello. Tanto più che lo stesso albergo ospitava le componenti di un corpo di ballo argentino di notevole presa… estetica, al punto che i responsabili della spedizione azzurra dovettero fissare dei… turni di guardia ai corridoi per evitare pericolose distrazioni. Non solo.
Racconta ancora nella sua ricostruzione Angelo Rovelli: «Ciò che rimane davvero incredibile è la decisione di rimanere in quell’albergo anche alla vigilia della partita con la Svezia, rifiutando l’invito di un ricco italiano, la cui fattoria a Trenembé avrebbe fatto al caso proprio in quel particolare momento. Dopo cinque giorni di ipotetico riposo, di insufficiente recupero, di allenamenti all’acqua di rose, la Nazionale dovette sorbirsi nella notte del 24 giugno la famosa festa di San Giovanni, esplosa in una fan tasmagoria di luci e di colori ma purtroppo anche di clamori: mortaretti, fuochi d’artificio, petardi a tener tutti desti. E un caldo terribile come colpo di grazia. Impreparazione, fiato corto, muscoli arrugginiti: questa sarebbe stata la sentenza del campo: Svezia-Italia 3-2».
Dopo la sconfitta, il mediano Annovazzi , tra i più negativi in campo, confidò: «C’era in me qualcosa di indefinibile che non mi permetteva di giocare come avrei voluto: il mio fisico non rispondeva agli ordini del mio cervello». Conclusione: la traversata in mare, ombra lunga della tragedia di Superga, fu solo il primo, sia pure importantissimo, anello di una lunga catena di errori dalle malinconiche conseguenze.