Cruijff in panchina: il dominatore che si arrese al Diavolo

Vuole un diffuso stereotipo del calcio che il grande campione difficilmente diventi un grande tecnico, per l’incapacità a comprendere i problemi di tocco e di intuizione tattica dei “comuni mortali”.

Johan Cruijff non ha corso questo rischio, per aver cavalcato il destriero di allenatore con la stessa determinazione di quando giocava. Avendo in testa un programma preciso: dare una continuità alla carriera col pallone tra i piedi perseguendo identici ideali di spettacolo. Stefan Kovacs, che ne amministrò il talento, disse un giorno di lui: «Il suo segreto è che ama il calcio e cerca continuamente nuovi modi per raggiungere la perfezione».

Della carriera di giocatore è superfluo parlare. Del numero 14 capace di invadere l’Europa e il mondo, portando l’Ajax e l’Olanda dalla periferia dell’impero ai vertici assoluti e poi ripetendosi col Barcellona, tratto dalla condizione di emarginazione in cui la lunga crisi degli anni Sessanta l’aveva precipitato. Un fuoriclasse di inedito conio, per la completezza del repertorio e la rispondenza quasi magica alle esigenze del “calcio totale”, nelle cui vene seppe iniettare fantasia, estro, incontenibile abilità nel rispondere alle esigenze di qualsiasi ruolo.

Il suo avvento sulle scene cambiò la faccia del calcio, tanto la classicità dei colpi di genio sposava la velocità dei nuovi tempi, la resistenza atletica conviveva con il tocco di velluto, il genio si immergeva nel cuore del collettivo.

Aveva virtualmente chiuso la carriera nel 1978, ad appena 31 anni, ma esigenze finanziarie e un certo dispetto per l’“homenaje” finita in beffa (8-0 dal Bayern nella sua Amsterdam) lo spinsero a ricominciare da capo, rastrellando denari e gloria fino al crescendo conclusivo con Ajax e Feyenoord. Il passaggio dall’altra parte della barricata fu pressoché immediato.

Un anno dopo l’addio al calcio giocato, nel 1985, si ritrovava ai nastri di partenza, con i colori dell’Ajax, aggirando dall’alto del suo carisma le regolamentari esigenze di patentino («All’università del calcio sono arrivato senza diplomi, con l’esperienza accumulata durante anni e anni di calcio» ringhia quando la Federazione gli impone di frequentare il corso allenatori; «ne capisco più di chi è stato sempre dietro una scrivania»), il suo programma e preciso: si gioca col 3-4-3: tre uomini in difesa sono sufficienti in un calcio che non propone mai più di due punte effettive, mentre tre ne sono necessari a svolgere un gioco offensivo che persegua i risultati trasmettendo gioia ed emozioni al pubblico.

Febbraio 1987: primi passi in panchina per Cruijff e primi passi in campo per Van Basten

La riorganizzazione dell’Ajax parte dalle giovanili: Cruijff rivitalizza il settore, che riprende a produrre talenti con impressionante prolificità; il tecnico impone lo stesso modulo della prima squadra a tutti i tecnici del vivaio, per facilitare l’accesso ai livelli superiori. E l’Ajax riprende a macinare: due Coppe d’Olanda e soprattutto la Coppa delle Coppe nel 1987 (gol del pupillo Van Basten al Lokomotiv Lipsia) sono il segno della grandezza ritrovata.

Nella primavera del 1988 il destino lo vede di nuovo sulla rotta Amsterdam-Barcellona. Per il club blaugrana sono giorni tempestosi. Il 29 aprile 1988 i giocatori, al culmine di una stagione disastrosa, chiedono in un pubblico manifesto le dimissioni del presidente José Luis Nunez. La sua risposta è l’assunzione dell’allenatore dell’Ajax. Che il 2 maggio 1988 viene presentato alla stampa: «Vengo ad avviare un’epoca di gloria» proclama con modestia; «farò del Barça il mio nuovo Ajax».

Una promessa audace: da tre anni il Barcellona non vince il titolo e dall’82 (Coppa delle Coppe) non taglia traguardi in Europa. Cruijff, il tecnico più pagato del mondo (un milione di dollari il suo ingaggio annuale) comincia a fertilizzare il vivaio, potenzia la prima squadra con gli innesti di Koeman e Michael Laudrup e impone il 3-4-3 come filosofia barcellonista a partire dalle giovanili. Insomma, imposta i meccanismi di una fabbrica di talenti ispirata al suo vecchio club di Amsterdam.

Al termine della prima stagione, chiusa al secondo posto in campionato, riconquista la Coppa delle Coppe. Alla vigilia della finale di Basilea contro la Sampdoria spiega: «Sono tornato qui perché volevo restaurare il rispetto della Spagna e dell’Europa per il Barça. Volevo praticare un buon gioco. Volevo riportare la gente al Camp Non e, se possibile, vincere subito qualcosa. I primi obiettivi li ho centrati tutti, ora manca l’ultimo, Basilea».

Con il Presidente del Barcellona Nunez: un rapporto di amore-odio

Il Barcellona di Lineker e Julio Salinas, di Zubizarreta e Amor lo asseconda, spazzando via la Samp, decimata in difesa e con Vialli a mezzo servizio. Dopo una stagione interlocutoria, con la vittoria in Coppa di Spagna, Cruijff individua nell’ombroso fantasista bulgaro Hristo Stoichkov il motore del salto di qualità. È la stagione 1990-91, Cruijff a febbraio inciampa sull’infarto, ma si riprende miracolosamente dopo l’inserimento di due by-pass e riprende il suo posto in panchina. Il Barça vince il titolo e arriva di nuovo in finale di Coppa delle Coppe, dove cede di misura al Manchester.

L’anno dopo Cruijff lancia come regista titolare il baby Guardiola: è nato il “dream team”. Il Barcellona vince il titolo e conquista a Wembley sulla Sampdoria di Mancini e Vialli la sua prima Coppa dei Campioni, sconfiggendo un tabù diventato con gli anni un invincibile complesso. Il Barcellona è tra i club d’elite del mondo.

Dopo Stoichkov arriva anche l’asso brasiliano Romario, devastante macchina da gol. Il Barcellona vince ancora: alla fine sono quattro i titoli consecutivi, conquistati sulle ali di un gioco offensivo e spettacolare che stipa di tifosi entusiasti il Camp Nou. «Bisogna puntare sul bel gioco» ripete, «è l’unica strada per riportare la gente negli stadi. Un tecnico che è stato attaccante prenderà sempre qualche rischio in più di uno che è stato difensore».

Con il figlio Jordi

C’è anche chi è stato centrocampista, come Fabio Capello, che guida il Milan avversario in finale di Champions League 1994. Ai rossoneri mancano i centrali titolari Costacurta e Baresi. Alla vigilia Cruijff non va per il sottile e snobba l’avversario “che offende il calcio schierando uno stopper (Desailly) a centrocampo”. Questa volta lo smacco è terribile: quattro schiaffi da un Milan spettacolare, trascinato dalla quintessenza del calcio offensivo, il fantasista Savicevic. È un colpo duro, durissimo, dal quale Cruijff non si riprenderà più.

La stagione successiva vede il Barça al quarto posto. Stoichkov è passato di cottura e in rotta di collisione col tecnico viene ceduto al Parma; Cruijff lancia la “quinta di Ivan” (De la Pena), una nidiata di giovani allevati nelle strutture modello da lui volute: accanto al futuro laziale, Celades, Quique e Javi Moreno. Nelle giovanili blaugrana gioca anche il figlio Jordi, che così, col nome di battesimo, vuole essere chiamato, per non portare sulle spalle un fardello insostenibile. Ha buona tecnica, ma gli manca la velocità del padre.

Sul “dream team”, però, il sole tramonta inesorabile. Un terzo posto ancora in campionato, con la grande delusione Prosinecki, logorato da terribili infortuni, infine il deterioramento dei rapporti col presidente Nunez. All’indomani dell’ennesimo scontro, il 18 maggio 1996 il padre padrone del club catalano annuncia la destituzione di Johan Cruijff. La sua carriera non sembra alla conclusione, ma la ritrosia dei grandi club a puntare sul suo cuore ferito e la sua avversione allo stress gli chiuderanno lentamente la porta a nuove avventure in panchina.