CUDICINI Fabio: un gentiluomo tra i pali

Non si diventa poeti per caso, ma calciatori in generale e portieri in particolare, sì. Sbocciato come campione d’Italia a 33 anni, fiorito come campione d’Europa un anno dopo: il più inverosimile esempio di successo tardivo che si annoveri nella storia calcistica italiana.

Fabio Cudicini, classe 1935, altezza un metro e novantuno, peso forma chilogrammi ottantuno, magro dunque come gli asparagi e flemmatico come Buster Keaton, giocava a calcio da ragazzo per puro divertimento. Giocava anche meglio a tennis, tanto che a sedici anni si classificò terzo nella coppa Lambertenghi e a diciassette vestì la maglia azzurra nel confronto ItaliaFrancia juniores, disputato a Riva del Garda. Come doppista, lo spilungone andava veramente forte.

Nel football, invece, aveva cominciato da centromediano e mezz’ala in una delle solite squadrette parrocchiali, quella del suo quartiere triestino, il Sacro Cuore, che era intestata alla congregazione mariana. Questo pio inizio fu propizio a lui come a molti altri campioni della pelota, un gioco per il quale i parroci d’Italia meriterebbero un’enorme stella d’oro al merito sportivo.

Un giorno che non aveva ancora compiuto i quindici anni, Fabio il temporeggiatore si trovò per pura combinazione a sostituire il portiere della congregazione, chiamata ad allenare i ragazzi della Ponziana, una squadra triestina di serie C. Lo fece così bene, per quanto inedito nel ruolo, che due anni dopo l’allenatore della Ponziana si ricordò di lui allorché dovette fronteggiare una situazione di emergenza, col titolare squalificato per cinque giornate e la riserva degente all’ospedale per una frattura.

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Era l’inverno del 1953: alla fine di quella stessa stagione, l’Udinese si fece avanti, chiese il cartellino del temporeggiatore e se lo portò a casa per la modica somma di 550 fogli da mille. Il 2 dicembre 1956. mentre le foreste del Balaton si annerivano di carri armati sovietici, Fabio esordiva in serie A.

Questo preludio un po’ romanzesco non deve, tuttavia, far pensare ad una carriera napoleonica, tutta rulli di tamburo e squilli di trombe. Al contrario. In primo luogo, il giovanotto era molto perplesso, tutt’altro che convinto di aver imbroccato la strada giusta. Se Aramis era sempre diviso tra la vocazione dell’abate e quella del moschettiere, il triestino si sentiva lacerato, addirittura fra tre impulsi, calcio, tennis e studio.

La scuola lo interessava molto, anche se suo padre era del parere che fosse meglio dedicarsi al calcio e buonanotte. Per qualche mese. Fabio cercò con il suo abituale scrupolo di conciliare le due occupazioni: si allenava tre volte alla settimana al «Moretti» (il vecchio campo da gioco dell’Udinese, trasformato oggi in un bellissimo parco) di pomeriggio, e alla mattina continuava a frequentare il liceo tanto che a vent’anni, anche qui in ritardo ma sempre in tempo, riuscì a prendersi la maturità classica.

Quando però l’Udinese lo cedette alla Roma, in cambio di Cavazzuti e parecchi milioni, la scelta fu definitivamente fatta: addio all’università, arrivederci al tennis e sotto col football, cornucopia generosa per tutti i ragazzi di stirpe veneta. A Roma, il lungagnone sperava di trovare la gloria, senza sospettare che l’avrebbe conquistata soltanto molti anni dopo e a patto di lasciare la città di cui pure si era innamorato al punto di trapiantarvi moglie, genitori ed una fabbrica di laterizi.

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Mattone su mattone, il portiere più alto d’Italia conobbe nel sodalizio giallorosso molti giorni piacevoli, una grande popolarità tra i tifosi e la maglia azzurra della nazionale B, indossata a Vienna l’8 maggio del 1963. In verità non fu un esordio strepitoso, perché al Prater quella sera si contavano si e no trecento spettatori, ma Fabio non era tipo da spazientirsi. Nella professione si era ormai dimostrato puntuale e zelante come un ornitologo: la grande civiltà triestina che aveva alle spalle, l’impeccabile educazione familiare, gli studi fatti, il temperamento pacato e riflessivo avevano contribuito a delineare di lui il ritratto del perfetto gentleman, rigido nella salvaguardia dei propri diritti ma altrettanto esigente nell’adempimento dei propri doveri.

Gradualmente, vedendo avvicinarsi i trent’anni, si andava abituando con piacere alla prospettiva di concludere la carriera a Roma, salvo decidere alla fine se restare nell’ambiente come allenatore o giornalista sportivo, oppure uscirne per dedicarsi alla sua azienda. Viveva, insomma, nello stato d’animo tranquillo di un marito che sia sposato da moltissimi anni e non sospetti neppure di potersi innamorare, da un giorno all’altro, di una donna più giovane e bella della propria moglie.

L’involontario galeotto della svolta nella vita di Cudicini fu un allenatore, il vulcanico comm. Oronzo Pugliese. Piombato come un meteorite sulla panchina giallorossa nell’estate del 1965, il tecnico di Turi prese subito in cordiale antipatia quel distinto e riservato dipendente, che se ne stava sulle sue, si rifiutava di ridere alle battute dell’allenatore e denunciava una certa allergia ai suoi sistemi ciclonici di preparazione, anche perché dotato come tutti i longilinei di un fisico particolare. Fabio riuscì a resistere al ciclone soltanto un anno, perché l’estate seguente seppe dai giornali di essere stato ceduto sottocosto (meno di 40 milioni) al Brescia.

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Il goffo comportamento della società giallorossa non addolorò Cudicini: lo indignò. «A Roma mi trovavo benissimo ed ero convinto di chiudere la carriera in maglia giallorossa. Invece per la prima volta in vita mia litigai con un allenatore, Oronzo Pugliese, e mi trovai trasferito al Brescia per una manciata di milioni. Il motivo del litigio: avevo una contusione ad un fianco per la quale, anche secondo il medico, avrei dovuto star fermo. Pugliese, però, non si fidava di Matteucci, il secondo portiere, e per sei domeniche mi convinse pregandomi e supplicandomi a giocare in quelle condizioni. Ovviamente così facendo non guarivo mai e rischiavo sempre di fare brutte figure. Alla fine, quindi, mi rifiutai di scendere ancora in campo. Pugliese s’infuriò, considerando il rifiuto, avallato dal medico naturalmente, come un’offesa personale e mi tolse il saluto. Quando guarii non mi fece rientrare. Il bello è che il presidente, che evidentemente aveva fiducia in me, mi aveva incaricato di visionare qualche giovane portiere che avrebbe dovuto sostituirmi a distanza di 2-3 anni. Io avevo consigliato Boranga e Bardin. La conclusione fu che mentre ero in Australia in tournée post-campionato (Pugliese era rimasto in Italia per condurre la campagna-acquisti) ricevetti da mia moglie un telegramma molto significativo che dicevi tutto in due parole: Comperato Pizzaballa. Pochi giorni dopo un giornalista romano al seguito mi disse che ero stato ceduto al Brescia».

Sembrava destinato all’oblio dopo le nove stagioni con la Roma, le 18 partite giocate per il Brescia. Ma il “paron” Nereo Rocco non credeva davvero che quel compaesano trentaduenne, venuto alla ribalta a 21 anni nell’Udinese che risaliva dalla B alla A, potesse andarsene dal grande calcio senza aver avuto un’altra grande occasione. Il Milan aveva stava liberando il veterano Barluzzi, era interessato a Dino Zoff, reduce da una grande stagione con il Mantova. Per quello che diventerà poi il mitico numero uno della Juventus e degli azzurri iniziò un’asta a cui il Milan non intendeva partecipare, anche perché il Napoli fu il più attivo nella trattativa. Al signor Rocco andava bene però “Stralongo“, gli piaceva lo stile, era convinto che l’uomo potesse adattarsi bene in quel gruppo che si preparava a vivere le stagioni dei massimi trionfi.

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«Quando il presidente del Brescia Lupi mi telefonò a Trieste per dirmi che mi aveva ceduto al Milan accolsi ovviamente la notizia con gioia, ma pensavo che non sarei riuscito ad indossare la maglia rossonera. L’inizio in rossonero non fu dei più facili, anzi. Ci fu un episodio spiacevole, infatti, proprio all’inizio della preparazione che alla resa dei conti si è rivelato la chiave della mia cosiddetta seconda giovinezza. “Ciò longo — mi apostrofò Rocco al terzo o al quarto giorno di allenamento — se non hai voglia di lavorare come si deve puoi andare a casa”. Forse Rocco credeva che io facessi il lavativo, invece, la verità era che, dopo un po’, proprio non ce la facevo più. Fu come una frustata. Capii che se non volevo deludere chi aveva creduto in me, dovevo stringere i denti, dare tutto quello che potevo. Ecco, la mia seconda carriera è cominciata con questo episodio».

Esordio a Ferrara, vittoria, la prima partita a San Siro, poi dopo la trasferta di Napoli, un infortunio che lo tenne lontano dal campo fino all’inizio del girone di ritorno. Dominatore dei palloni alti, mai esagerato nel cercare effetti speciali, l’uomo per tutte le situazioni difficili capace di dare tranquillità ad una difesa dove il suo amico Schnellinger garantiva, con Anquilletti, la chiusura dei varchi esterni mentre in mezzo Trapattoni, Malatrasi, Rosato, aiutati spesso da Lodetti, sistemavano ogni pratica. Ci voleva un “ragno” per dare fiducia al gruppo degli artisti che spingeva la preda sempre nella tana giusta, non c’era bisogno di vederlo volare o uscire a valanga, lui leggeva molto prima cosa sarebbe stato necessario fare per avere la palla, per non subire una rete. La tensione lo prosciugava, anche se i suoi 81 chili si sentivano e come nelle uscite alte, ma era lo stile dell’uomo a dare garanzia, fiducia. Non avevi mai paura se dietro alla difesa stava “Stralongo“.

Anche se nel suo primo campionato fu più pericoloso il Napoli della grande Inter che si stava consumando nel rapporto con il Mago Herrera, pronta a lasciarlo per riprovare con Foni. Cinque stagioni in rossonero subendo 0.59 gol a partita in 127 incontri di campionato, con il capolavoro del 1968-69 quando in 29 gare subì soltanto 9 reti. Di questo si è sempre vantato poco perché la legge del branco non lasciava spazio agli individui, lui c’era, aveva le chiavi della cassaforte, era la saggezza, anche perché sapeva indicare ai più giovani la strada, spiegando che la vita del professionista non dura in eterno e bisogna prepararsi per il dopo, sapendo bene cosa si vuol fare da grandi.

Nella storia della sua carriera di grande portiere milanista la data del 28 maggio ha un significato speciale: era il 1969 quando il suo Milan vinse a Madrid la coppa dei campioni battendo 4-1 l’Ajax di Crujff; nel 1972 giocò a San Siro contro il Catanzaro l’ultima partita di campionato ricevendo dal suo amico Bigon il regalo del gol partita, anche se poi il vero epilogo ci fu in luglio nella vittoriosa finale di Coppa Italia.