Stranieri d’Italia: D

DEL SOL – DEMARIA – RAMON DIAZ – DIRCEU – DUNGA


DEL SOL: l'inarrestabile 'mantice' bianconero

«Se Di Stefano è sul viale del tramonto, noi abbiamo trovato un nuovo Di Stefano». Così si esprimeva sul conto di Luis Del Sol, poco prima che le “furie rosse” affrontassero l’avventura del mondiale cileno, il Ct spagnolo Hernandez Coronado. Pochi mesi dopo, ecco il fuoriclasse iberico in Italia, con la maglia della Juventus sulle spalle. Strappato a suon di milioni (240) all’altra metà di Torino, quella col cuore granata.
Luis Del Sol aveva già gloria e storia alle spalle, col Real Madrid aveva vinto una Coppa dei Campioni, una Coppa Intercontinentale, due scudetti e una Coppa di Lega. Otto anni in bianconero non gli bastarono per vincere altrettanto, ma furono suffcienti per farne il polmone del centrocampo, in grado di assistere la difesa, di ispirare un’azione da gol, di scegliere personalmente la via della rete. Allo scudetto, comunque, Del Sol sarebbe arrivato nella stagione ’66-67, prenden- do per mano assieme al brasiliano Cinesinho un gruppo senza grandi stelle, ma ricco di agonismo e vigore. Un motorino dai piedi buoni, il migliore per rendimento della Juve di quegli anni. Capace di chiudere bene una carriera importante, con i colori della Roma, a 37 anni suonati.

DEMARIA: muto come una roccia

Aveva il fisico di una roccia e il carattere chiuso, Attilio Demaria. Parlava poco, preferiva farsi in quattro sul campo. Mezz’ala dalle gambe arcuate, aveva uno stile inconfondibile: partiva a testa bassa, con una corsa apparentemente scoordinata ma potente, e seminava il panico nelle difese avversarie. Un attaccante che segnava ma preferiva far segnare, che il gioco sapeva vederlo e costruirlo. In Argentina raggiunse la notorietà nell’ Estudiantes Porteno, e dal 1930 nel Gymnasia y Esgrima La Plata. Fu durante una tournée europea con il suo club che lo notarono gli osservatori dell’Ambrosiana-lnter. Demaria fu nerazzurro dalla stagione ’31-32, e indossò la stessa maglia per dieci anni, vincendo due scudetti e una Coppa Italia. Mezz’ala sinistra nei primi anni, potè spostarsi a destra, come preferiva, con l’arrivo di Giovanni Ferrari. Insieme a quest’ultimo e a Giuseppe Meazza cosituì uno dei più poderosi attacchi dell’epoca. Giocò da oriundo in Nazionale (13 partite), dal momento che i suoi genitori erano partiti da Crescentino, ne! Vercellese, per trovare fortuna in Sudamerica. Lui, che di quella razza dura aveva tutte le caratteristiche, la fortuna la trovò in nerazzurro. Dopo la guerra, non si arrese al passare del tempo: giocò ancora a Legnano e chiuse la carriera a Cosenza, in Serie B, sulla soglia dei quarant’anni.

RAMON DIAZ: il bomber dei rimpianti

Sette anni in Italia. Amato dai tifosi, spesso sfortunato nel rapporto coi dirigenti dei club. Ramon Angel Diaz arrivò a Napoli nella stagione ’82-83, dopo cinque stagioni al River Plate, dopo essere stato il fenomeno, assieme a un certo Diego Maradona, del Mondiale juniores. Non fu una stagione felice. Andò meglio ad Avellino, dove si impose all’attenzione di tutti per la sua rapidità di gioco, senza fronzoli ma di grande efficacia, instaurando un feeling fantastico con i tifosi. Al punto che anche oggi Ramon ricorda Avellino come «il vero grande amore italiano». Tre stagioni eccezionali.
Lo chiamò la Fiorentina e furono due anni all’insegna delle polemiche col conte Pontello, sfociate in un divorzio traumatico. Da quel punto partì la rivincita di Ramon Diaz. Chiamato dall’Inter (in sostituzione del ricusato Madjer), giocò sapendo di poter ballare una sola stagione, perché dietro l’angolo c’era già l’opzionato Klinsmann. Eppure Diaz fu un trascinatore, segnò 12 gol da favola e contribuì in maniera decisiva allo scudetto dei record vinto dall’Inter a quota 58 con Giovanni Trapattoni al timone. A fine stagione, l’argentino ruppe definitivamente coi dirigenti viola e si trasferì in Francia, nel Monaco, tra i rimpianti dei tifosi italiani. Dopo la Francia, il Giappone (nel Yokoama Marinos, capocannoniere a 35 anni). Prima di tornare al River Plate, ma da allenatore. Sfortunata la sua parentesi in Nazionale: presente ai Mondiali dell’82 in Spagna, non fu convocato nell’86, quando l’Argentina fu campione del mondo.

DIRCEU: anima zingara

Destino maledetto, quello di José Guimarães Dirceu. Una vita spezzata a soli quarantatre anni, a un incrocio dell’Avenida das Americas, nel settembre 1995. Una di quelle morti che non ti spieghi, perchè Dirceu aveva un’anima accesa, di quelle che trasmettono felicità e gioia di vivere. Un’anima zingara, anche.
Non riusciva a stare fermo, questo fantasista brasiliano che aveva classe da vendere e un tiro da lontano che fulminava: chiedere per conferma a Dino Zoff, che restò impietrito sul sinistro da venticinque metri che costò all’Italia il terzo posto contro il Brasile ai Mondiali del ’78. Non riusciva a diventare una bandiera, era condannato a cambiare casacca in continuazione. Curitiba, Botafogo, Fluminense, Vasco da Gama, America (in Messico), Atletico Madrid prima di arrivare in Italia. E nel nostro campionato, cinque squadre in altrettante stagioni: Verona, Napoli, Ascoli, Como e Avellino. A Napoli, Dirceu fu voluto fortemente da Juliano, nell’83-84, emesso da parte un anno dopo perchè in arrivo c’era un certo Diego Armando Maradona. Ma a fine carriera tornò al Sud. Dopo Avellino, una veloce avventura a Miami e poi l’Interregionale con l’Ebolitana. Giocatore, allenatore, amministratore, manager. Cento idee per ogni azione, pilotata dal suo magico sinistro, capace di traiettorie impossibili. Fino a quel maledetto incrocio dove lo aspettava il destino.

DUNGA: grinta di un 'cucciolo' mondiale

Ci sono duemila persone, all’aeroporto Galeati di Pisa, il 22 luglio del 1987. Tutte lì ad attendere Carlos Caetano Bledorn Verri, in arte Dunga. Il nuovo brasiliano portato in Italia dalla Fiorentina e trasferito per una stagione al Pisa, in prestito. Un duro che in patria si è fatto strada giocando nell’Internacional, con cui ha vinto due campionati, nel Corinthians, nel Santos e nel Vasco da Gama. Un lottatore che deve il suo soprannome alle dimensioni fisiche: Dunga è il corrispondente di Cucciolo nella versione portoghese di “Biancaneve e i sette nani”.
Il piccoletto ha grinta da vendere, e lo dimostra. Nel suo primo anno italiano è di gran lunga il miglior straniero del campionato. In Brasile ha cambiato nel tempo caratteristiche e ruolo: da rifinitore con licenza di segnare, si è trasformato in mediano davanti alla difesa.
A fine stagione, il passaggio alla Fiorentina, condito di polemiche perché lo stesso giocatore giura di essere libero da qualsiasi opzione. Fatto sta che a giugno Dunga è nell’organico viola, e inizia un viaggio straordinario, dal punto di vista del rendimento in campo ma anche da quello dei travagli che accompagnano la sua permanenza a Firenze. Il giocatore, negli anni, polemizza con i tecnici, da Eriksson a Giorgi, con i dirigenti per questioni di contratto (all’inizio si lamenta spesso di essere pagato come un giocatore di C), con gli avversari in campo. Eppure, per quattro anni è il leader indiscusso della squadra, sia durante la presidenza Pontello che all’inizio dell’avventura Cecchi Gori. Perché il ragazzo di Ijui ha capito presto che «nella vita devi porti un obiettivo e stargli addosso come un cane da caccia». Dopo quattro anni, il rapporto importante e contradditorio con la Fiorentina si interrompe. Bruscamente, e male. Arriva Brian Laudrup, per Dunga non c’è più posto.
Finisce al Pescara di Galeone, che chiude la stagione ’92-93 all’ultimo posto. Il Cucciolo grintoso se ne va, finisce in Germania allo Stoccarda. E poi in Giappone, allo Jubilo Iwata prima di chiudere di nuovo in Brasile con l’Internacional del 2000. Sarà un punto fermo della Nazionale brasiliana, con cui vince il Mondiale 1994.