DI STEFANO Alfredo: mai nessuno come lui

Amava i soldi, le donne e i divertimenti, ma questo non gli impedì di dedicarsi sempre anima e corpo al calcio. Lo chiamavano «Saetta bionda» per il suo meraviglioso gioco a tutto campo

Di Stefano, la «Saeta rubia» («Saetta bionda»), è stato qualcosa di più di un grande campione, e non ci sono schemi dove collocarlo e le prose che lo hanno raccontato sono state in ogni caso inferiori al suo talento, che era qualcosa di eccezionale nella misura in cui era originale.
I veri assi non si ripetono, i geni anche nel calcio improvvisano con l’eccellenza di un’ispirazione che li fa ringiovanire ogni volta. Possono avere tutti i vizi del mondo ma li sublimano in quegli istanti, in quei minuti, in quelle ore, sia Pablo Casals il violoncellista quasi cieco e quasi sordo che a ottantanni suonava come un dio, sia Paganini il violinista genovese pagàno che metteva nel suo Stradivarius sortilegi e cavava note come tele di ragni e come arcobaleni sanguigni, sia Alfredo Di Stefano appunto di cui tento un profilo.

Ci hanno provato in tanti magni crani a raccontarlo. Carlos Zeda, scrittore e giornalista madrileno, ha affermato che in lui c’era il compendio delle qualità dell’atleta sognato da Platone. Gioanbrerafucarlo, la cui opera «Coppi e il Diavolo» è un capolavoro di scrittura e di sensibilità a memoria di un giornalismo sportivo che onora la cultura italiana, ha scritto che è stato superiore a Pelè. 1.75 di atleta per 77 chili oscillanti che sul prato verde diventava un gigante con cento occhi e mille piedi, l’espressione fuori da iperbole del calcio eclettico, per cui assolveva al lavoro di tutti i ruoli, sapeva essere difensore incontri sta e attaccante rifinitore, nonché lussuoso elegante leggero e possente centravanti. Si assommavano in Di Stefano effettivamente tutte le doti del calciatore.

Come classe pura era esemplare in quanto eseguiva le cose più difficili con semplicità. Cosi gli arresti ovvero gli stop sulle parabole più astruse, così gli shot per il passaggio come usava solo «Farfallino» Borel, così il colpo di testa secco a seguire in fondo alla rete, così a tempo e luogo il dribbling, quando un compagno andava a liberarsi, ma soprattutto la consapevolezza che in campo non si deve mai sprecare niente, che il pallone deve essere esercitato come un tesoro, subito passato al volo senza perditempo, un passaggio immediato e tempestivo supera in ogni caso l’avversario, lo disorienta.
Alfredo Di Stefano era nato a Buenos Aires nel rione di Barracas il 4 giugno 1926. Subito si pensa che un genio come lui poteva nascere soltanto in quella capitale del mondo, in quella città senza confini, dove ogni razza è libera di vivere, dove bianchi e neri, siciliani e turchi, trovano, un angolo, un riparo.

Cresce nella squadra ragazzi del River Plate. Il suo idolo era Arsenio Erico, centrattacco dell’Independiente, un tipo fosco che non degnava di un saluto nessuno, che veniva a prelevare lo stipendio trovandolo sempre inferiore ai suoi meriti che erano del mas grande mai visto in tutto l’orbe terracqueo. Alfredo quattordicenne ne possedeva tutti gli opuscoli biografici e un mazzo di fotografie, esattamente centodue fotografie di cui sei firmate dal suo idolo. Era andato ad aspettarlo e lo invocava bevendoselo con i suoi occhi chiari di ragazzo innamorato di pallone e di gloria. Il talento di Di Stefano fu subito notato, ma i tecnici non convenivano che potesse riuscire a farsi largo. Nel River Plate giocava un altro fuoriclasse dai piedi magici, ovvero «Il divino» Adolfo Pedernera, che era per natura sospettoso e cominciò in allenamento a fare dei dispetti a quel ragazzo fin troppo ambizioso. Fatto è che il River Plate pensò bene di cederlo in prestito all’Huracan.

E Di Stefano andò per dimostrare le sue qualità. Era cresciuto a diciotto anni il suo fisico con il suo gioco. Ormai giocava alla Di Stefano, riempiva il campo da solo, risolveva un sacco di problemi tattici all’allenatore che poteva disporne. Un particolare del carattere di Di Stefano si deve subito precisare, perché sia lampante come il suo stile di calciatore arrivasse già dai grattacieli. I genitori piccolo borghesi non gli avevano mai fatto mancare nulla. E lui voleva vivere nell’agiatezza, voleva avere sempre soldi in tasca e vestire da signore. Quello che sembri sei era il suo motto. Gli piaceva già tutto, a diciotto anni. Mangiare, bere, fare all’amore. Ma senza stancarsi troppo, senza concedere troppo. Per divertire lo spirito.

Nell’Huracan Di Stefano gioca le sue prime eccezionali partite. Il mondo argentino del calcio è in subbuglio. Pedernera il divino accusa i morsi degli anni. Il nuovo allenatore del River Plate, Pepe Monella, accogliendo con entusiasmo l’incarico di guidare la squadra, pone come condizione il recupero del giovane, ora ha vent’anni, è il 1946, anzi il rientro alla base, di Alfredo Di Stefano. Naturalmente col sacrificio di Pedernera. Viene accontentato. E così il River Plate ha un trio d’attacco dei prodigi Moreno, Di Stefano, Labruna, Chi li può fermare? Chi può fermare Moreno, secondo solo a Di Stefano?

Ma chi può fermare soprattutto il genio di Di Stefano? La scuola di Moreno è quella che serve. Moreno è un mezzo matto, in campo ha un suo modo di gestire la professione, di esercitarla.
A parte una specie di grido di guerra che lancia «A papà, a papà!», come un richiamo al capofamiglia, come un solleticare le sue più ancestrali ambizioni a farsi ammirare, Moreno è rabbioso e truculento nella lotta, ma furbo, furbissimo. Nessun arbitro gli ha mai visto fare un fallo, ma quanti ne ha azzoppati lui! Accanto a Moreno, Di Stefano svolge la sua parte di orchestratore, ispira e inventa il gioco per tutti, è sempre smarcato a seguire, l’uomo-squadra è lui, di altri, dello stesso Moreno, possono essere certe squisitezze o ghirigori, di Labruna è il tiro di inaudita potenza, ma di Di Stefano è l’arte del comando, la disci- plina tattica. Nel 1947 il River Plate vince lo scudetto e Di Stefano segna ben ventisette gol. I giornali son pieni di lui. Lui è la «Saeta rubia». Ma ora deve andar militare. Ci va mugugnando, perché son tutti quattrini persi e lui vive per i guadagni.

Al suo biografo ufficiale, Cesar Pasquato di «El Grafico», Di Stefano a fine carriera ha detto: «Per diventare bravi giocatori occorre pensare giorno e notte al pallone. I giovani che vogliono fare solo quattrini senza fatica o svolgere altri mestieri, anche soltanto per distrarsi, mentre giocano da professionisti, sbagliano, perché infallibilmente toglieranno, anche senza accorgersene, tempo prezioso al loro mestiere. Io non sono mai stato molto disciplinato nella vita privata, ho bevuto botti di vino e ho mangiato quintali di pesce fritto, ma tutto questo mi serviva per stordirmi e non pensare ad altro. E dormire. Ma in sostanza io mi sono mortificato in campo in allenamenti durissimi, mentre nei giovani d’oggi c’è la tendenza ad allenarsi poco e a non saper soffrire. Gli allenamenti duri, massacranti, estenuanti, sono indispensabili ad un campione, formano il campione. A me hanno dato l’ossatura. Il campione deve essere ambizioso ogni giorno di più, ogni giorno più ambizioso del giorno prima».

Passione per il calcio, sterminata ambizione a titolo personale, creano il mito di Di Stefano. «La Guita», il denaro, è tutto per lui. A un certo punto non gli basta più il River, il denaro che gli danno gli par poco, nel 1950 viene a sapere che la Colombia, il paese sudamericano uscito dalla Federazione Internazionale, c’è la possibilità di guadagnare venti volte di più. Insalutato ospite, sparisce dalla circolazione, si imbarca nottetempo in un aereo e va a giocare in Colombia.
Dal ’50 al ’53, da 24 a 27 anni, gioca nel Millonarios di Bogotà, gol come se piovesse, donne a profusione, piaceri di ogni genere, gloria gloria gloria. E l’eco delle sue gesta raggiunge l’Italia, precisamente la Roma, che nel ’53 avrebbe la possibilità di ingaggiarlo. Ma quei nostri furboni di i romanucci, dopo l’ennesima riunione di consiglio, ispirati da un biondo Frascati freddissimo, arronzano che è troppo vecchio, no, no, non vale la spesa…

E’ nato il Real Madrid di cui Saporita è il genio tecnico organizzativo, riesce a soffiarlo al Barcellona e lo fa suo. Di Stefano parte alla conquista della Spagna, il Paese si può dire della sua vita. La Spagna lo intenerisce e lo appassiona. II Real Madrid gli entra nel sangue. Tocca i vertici funambolici del rendimento. La «Saeta rubia» è più «Saeta» che mai. Con la squadra madrilena di tutte le leggende vince dal ’54 al ’60 cinque Coppe dei Campioni, percependo ogni anno 39 milioni d’ingaggio e uno stipendio mensile di 500 mila lire. Per acquistarlo, il Real Madrid aveva pagato al River Plate 150 milioni di lire, nove scudetti di Spagna vinti da Di Stefano col suo Real. Dominguez il portiere, Marquitos e Zarraga i terzini ondeggianti, Santisteban, Santamaria e Ruiz la mediana-diga, Kopa il cervello del gol, sette di maglia, Mateos l’interno destro, Di Stefano il perno della strategia, l’uomo-guida, il maestro in campo, guai a sgarrare, predice tutto, insegna col gesto, gioca a testa alta e vede gli errori, Rial mezzo sinistro e ala sinistra Gento il funambolico, il piede di velluto più dolce e melodioso dopo quello di Rinaldo Martino.

Nel 1960, quando ha trentaquattro anni, l’anagrafe non conta per lui, Di Stefano è valutato cifre iperboliche. Vale un miliardo di lire, i giornali spagnoli si occupano più di lui che di politica. Diventa famosa una battuta, in Italia, all’arrivo di Del Sol, forte corridore e campione: «Ha portato le valigie a Di Stefano». Qualsiasi campione può portare le valigie ad un asso così.Nel 1963, il 24 agosto, i castro-comunisti lo rapiscono, lo vanno a prelevare nell’albergo in cui dormiva, il Potomac, alle sette del mattino, spacciandosi per ufficiali di polizia del reparto antidroga. Il colpo avrà un eco mondiale. I rapitori dopo 56 ore libereranno Di Stefano senza torcergli un capello. Azione dimostrativa per scuotere il mondo.

Di Stefano si considera ormai spagnolo e si è naturalizzato da tre anni. Viene a trovarlo da Buenos Aires Cesar Pasquato e Alfredo si sfoga, raccontandogli la sua vita. La Spagna ha saputo tenerselo, ha saputo amarlo. Ci vogliono strepitose tenerezze, ci vuole una sopportazione infinita con i geni. In ogni campo del vivere il genio è uomo scorbutico, duro e tenero, intrattabile e umile. Il biondo Di Stefano che ormai perde i capelli cui tiene tanto, involontariamente ha inventato il calcio totale, il calcio che ha superato i ruoli.

Lui è stato un centravanti, ma anche una mezzala, un mediano, un’ala, un terzino. In qualsiasi punto del campo un genio è genio. I gol sono fioccati dal suo piede. In vent’anni di carriera ha infilato la bellezza di 529 gol, in Spagna è stato capocannoniere nel ’54, nel ’56, nel ’57, nel ’58 e nel ’59. Quando non lo è stato è perché non ne aveva voglia. I suoi gol sono sempre il risultato di eccellenti manovre. Nella nazionale argentina ha giocato 27 volte, e 31 in quella di Spagna. Nel 1957 e nel 1959 «France Football» gli ha assegnato il «Pallone d’oro» come migliore calciatore europeo.
Forse il suo sangue misto ne ha agevolato certi estri pungenti, certe ribellioni, certi spunti di rabbia e passione gelavano gli avversari. Fu grandissimo, fu mostruoso. Ne nascerà mai più uno così…?