La cavalcata del grande Bologna di Bernardini (quello del “Così si gioca solo in Paradiso”) nella stagione 1963/64 è offuscata in parte dalla controversa “questione” del doping. Una questione che a tutt’oggi è ancora irrisolta.
Era un Bologna da paradiso. Quello di Bernardini, quello di Bulgarelli, quello di Haller. La squadra che si avviava a vincere, dopo un memorabile spareggio con l’Inter di Herrera, il suo settimo – e ultimo -scudetto. Era stato il Dottor Fuffo, artista incredulo davanti al suo capolavoro, a inventare lo slogan che sarebbe diventato celebre: «Così si gioca solo in paradiso». Paradiso artificiale, però, stando al comunicato che la Federcalcio diramò il 4 marzo 1964: cinque giocatori del Bologna erano risultati positivi alle analisi antidoping effettuate il 2 febbraio dopo la gara col Torino.
I nomi: Fogli, Pascutti, Perani, Pavinato e Tumburus. Quel match col Torino, vinto dai rossoblu per 4-1, era stato l’ultima perla di una “collana” da record: dieci vittorie di fila. Gli uomini di Bernardini avevano cominciato la striscia di successi il 24 novembre (3-0 al Vicenza) e avevano proseguito stendendo nell’ordine Bari, Catania, Mantova, Juventus, Messina, Lazio, Roma, Genoa e, appunto, Torino.
Si può immaginare l’effetto che fece quel comunicato su una città che già pregustava un trionfo atteso da 23 anni. Sconforto? Macché: la parola giusta è furore. Sotto i portici è un fiorire di manifesti che gridano al complotto, le strade sono percorse dai cortei di protesta, i giornali cittadini, appoggiati da quelli romani, scatenano la guerra santa contro i poteri forti che agevolerebbero i milanesi ricchi e ingordi. E il povero Dall’Ara, il glorioso presidente? Il povero Dall’Ara deve andarci piano, perché ha un cuore malandato e ogni piccola emozione potrebbe essergli fatale. Per il momento si consulta coi suoi legali e fa l’unica cosa che può fare: chiedere le cosiddette controanalisi, ovvero far esaminare anche il secondo campione delle urine. Il regolamento infatti prevede che al momento del prelievo, il campione venga diviso in due flaconi, proprio per riservarsi la possibilità di una eventuale verifica.
Ma, tempo tre giorni, arriva il primo colpo di scena: il 7 marzo tre avvocati bolognesi (Cagli, Gabellini e Magri) hanno la bella pensata di adire la giustizia ordinaria. Ventiquattr’ore dopo il procuratore di Bologna Bonfiglio ordina il sequestro dei campioni incriminati, che così non saranno più a disposizione della giustizia sportiva per le controanalisi. L’incarico è affidato al maresciallo dei carabinieri Carpinacci, che però non può prelevare il campione depositato a Coverciano, perché – dicono i medici – non può essere asportato: il rischio è che il “prodotto” durante il trasporto possa deperire, rendendo impossibile ogni ulteriore analisi. Resta l’altro campione, quello conservato al Centro di medicina legale delle Cascine: e qui, effettivamente, viene riscontrata la presenza di amfetamine.
Peccato però che le provette non siano sigillate e vengano conservate in un frigorifero privo si serratura e contenente oltre ai flaconi in questione alcuni tubetti di amfetamina. Risultato: il riscontro è considerato inattendibile, dal momento che chiunque avrebbe potuto adulterare i campioni. Non solo: la quantità dello stimolante rinvenuta è tale da stroncare un uomo di normale costituzione. Insomma, bisogna rifarsi alle provette di Coverciano. Sorpresa: i carabinieri stavolta trovano i flaconi perfettamente sigillati, in un frigorifero con doppia serratura, ma nessuna traccia di amfetamina. Il mistero è sempre più fitto…
Intanto però il Bologna, che ha debitamente preso le distanze dall’azione legale dei tre avvocati (la clausola compromissoria impone alle società di fidarsi della giustizia sportiva senza travalicarla) deve sottomettersi al verdetto della Commissione giudicante. Che arriva il 27 marzo ed è pesantissimo: Bernardini viene squalificato per un anno e mezzo e alla squadra vengono tolti tre punti (i due ottenuti contro il Torino, più un punto di penalizzazione). Assolti invece i giocatori, perché la somministrazione dei farmaci sarebbe avvenuta a loro insaputa.
Il campionato prosegue, ma è chiaro che senza quei tre punti il Bologna non può tenere testa all’Inter nello sprint per lo scudetto. Il 4 maggio, quando mancano tre giornate alla fine del torneo, arriva anche la sentenza della magistratura ordinaria. Che appunto comunica di aver accertato «L’assoluta mancanza di sostanze dopanti nelle urine conservate presso il Centro di Coverciano».
E il caos: da una parte il verdetto dei giudici sportivi, dall’altra quello – di segno diametralmente opposto – della magistratura ordinaria. E in mezzo il surreale testa a testa tra Bologna e Inter, giunto ormai agli ultimi palpiti. Fortuna che c’è la sosta del 10 maggio: la CAF ha così il tempo di dirimere la questione prima della ripresa del campionato. E il 16 maggio arriva la tanto sospirata (dai bolognesi) assoluzione. Motivo: «l‘accertata mancanza di prove circa l’assunzione, da parte dei giocatori, di sostanze proibite». Risultato pratico: al Bologna vengono restituiti i tre punti tolti e così i rossoblu si ritrovano appaiati all’Inter. L’equilibrio resterà intatto fino alla fine e solo lo spareggio, dopo la tragica scomparsa di Dall’Ara, assegnerà lo scudetto ai rossoblu.
Certo, i misteri in questa storia ingarbugliata restano e nemmeno la sentenza definitiva del Tribunale di Firenze (13 marzo 1966) contribuirà a chiarirli. Se le provette sono state manomesse, chi è stato l’autore dell’imbroglio? «All’epoca in cui i cinque flaconi non sigillati», si legge nella sentenza, «si trovavano nel frigorifero (senza chiave) delle Cascine, nell’immobile erano in corso dei lavori di rifacimento, il luogo non era custodito e vi si poteva accedere con relativa facilità, perché sia i cancelli che le porte erano aperte».
Da quelle porte passò l’uomo che tentò di riportare in terra quel Bologna da paradiso. Un uomo al quale il Resto del Carlino ha assegnato un volto due anni fa: quello di Gipo Viani, allora tecnico del Milan. Rivelazione del dottor Dalmastri, medico sociale del Bologna dal ’64 al ’90: «Qualche anno prima della sua morte, Viani mi confidò che fu lui a far manomettere le provette».
È difficile stabilire, a distanza di tanti anni, quali motivazioni potessero spingere Viani a tramare contro il Bologna. Il Carlino però nell’occasione ripescò una frase sibillina del nipote di Dall’Ara, Augusto: «Nel gennaio ’64 tre uomini offrirono al presidente del Bologna di combinare un inghippo ai danni dell’Inter dietro un compenso di trenta milioni. Dall’Ara rifiutò e un mese dopo i rossoblu furono travolti dal ciclone del doping».
Mah: sembra che col passare del tempo, la nebbia che circonda il caso invece di diradarsi si infittisca sempre di più. Perché nel mazzo delle rivelazioni a scoppio ritardato va inserita anche quella di Giacomo Bulgarelli, che nel ’98 ha dichiarato alla Gazzetta dello Sport: «A me davano sempre il Micoren. Dicevano che serviva per la respirazione e io lo prendevo. Ma non soltanto io, tutti i miei compagni ne facevano uso. Poi, quando i controlli sono diventati più severi, si è smesso». E allora dobbiamo proprio rassegnarci: la vicenda del doping è un bel giallo al quale hanno strappato l’ultima pagina.