ELKJÆR – FACCIO – FALCÃO – FIRMANI – FRIONE
Idolo in patria, adorato sulle rive dell’Adige, giunse in Italia nella stagione 1984-85, circondato dalla fama di “viveur” scardinatore di aree avversarie. Ma l’epoca del Preben Larsen Elkjær che tirava l’alba nei night era già finita da un pezzo, per la precisione dal 1980, anno del suo matrimonio con Nicole, la ragazza che era riuscita a riportare ordine nella vita dello stravagante vichingo che regolarmente si presentava al campo di allenamento in sella a uno dei suoi amati cavalli. Ai tempi della sua militanza in Bundesliga, ancora ragazzino, un giorno venne accusato dall’allenatore Weisweiler di essere stato visto in un locale notturno con una bionda sulle ginocchia e una bottiglia di whisky vuota sul tavolo. «Niente di più falso» replicò: «era una bottiglia di vodka».
Ma il campione che giunse a Verona era un’altra persona. Era uno degli undici eroi che avevano trascinato la Nazionale danese fino all’ingiusta eliminazione in semifinale agli Europei del 1984. In patria la sua effige compariva persino sulle scatole dei cioccolatini. Lasciare il Belgio non fu facile per Preben, che in quel Paese aveva trovato moglie e felicità, ma fu la sua stessa compagna a convincerlo a indossare la maglia del Verona. E mai scelta si rivelò più oculata: ben presto divenne il terrore delle difese e le sue furiose galoppate a rete trascinarono gli scaligeri nella corsa verso il loro primo storico titolo tricolore. Le immagini della rete segnata alla Juventus senza una scarpa hanno fatto il giro del mondo. Dopo l’incredibile stagione dello scudetto, altre due belle annate in maglia gialloblù. Poi, a causa dei problemi di bilancio dei veneti, l’addio all’Italia.
Il suo trasferimento dall’Uruguay all’Inter fu una specie di telenovela ante litteram, con tanto di titoloni a tutta pagina sui quotidiani sudamericani, avvocati a minacciare cataclismi e fuga segreta nottetempo verso il Bel paese. Perno della difesa del Nacional Montevideo, l’oriundo veneto Ricardo Faccio era esattamente l’uomo di cui l’Ambrosiana aveva bisogno per dare vigore al proprio reparto arretrato. Cresciuto nel Deporting e poi nell’Universal e nell’Uruguay F.C, aveva raggiunto la celebrità nel Nacional, spostandosi da laterale sinistro a mediocentro e approdando alla Nazionale. Semisconosciuto in Europa, Faccio, pur colpito da una tragedia familiare (la moglie era morta di parto), si fece subito apprezzare, annullando il leggendario Sindelar in Mitropa Cup. Soprannominato “Tom Mix”, si fece apprezzare come straordinario interprete del ruolo. «Leonino in difesa» scrisse di lui Bruno Roghi, «abile ed attivissimo all’attacco. Fresco nella battuta, rapido nella corsa, ostinato e quasi sempre vittorioso nei corpo a corpo, impetuoso nei momenti infuocati della gara». Un centromediano completo, che giocò pure cinque incontri in maglia azzurra.
L’Italia intera l’ha odiato, almeno per un pomeriggio. Era il 5 luglio del 1982, al Sarrià di Barcellona l’Italia correva verso il suo sogno mondiale, ma per un momento il suo cuore si inchiodò, al minuto 68 della sfida tra Italia e Brasile, quando Paulo Roberto Falcão sorprese con un bolide da fuori area il mitico guardiano azzurro Dino Zoff. Poi, come racconta la storia, a risolvere la situazione ci pensò Paolo Rossi. Forse gli stessi tifosi giallorossi che solo due anni prima lo avevano accolto in trionfo a Fiumicino avranno maledetto per un quarto d’ora “er Falco”, ultimo re della capitale. Falcão era arrivato in Italia nell’agosto del 1980, proveniente dal Porto Alegre, per accasarsi, semisconosciuto in Europa, nella Roma di Liedholm. Il campione sudamericano ben presto prese per mano la squadra, grazie a un senso innato del fluire della manovra.
Il suo calcio era danzato eppure privo di orpelli: appostato nel cuore del gioco, il Divino (così lo soprannominarono) faceva magicamente girare tutto il meccanismo. Regalò alla società giallorossa due Coppe Italia, lo scudetto 1982-83 e la sfortunata finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool, col suo “gran rifiuto” di calciare dal dischetto nella serie finale. Cinque stagioni in giallorosso, l’ultima maledetta: solo quattro incontri disputati, un gravissimo infortunio, l’operazione al ginocchio negli Stati Uniti, l’interminabile rieducazione e il licenziamento da parte della società, per il rifiuto del giocatore di sottoporsi a una visita fiscale. Spiacevole epilogo nelle aule di tribunale per un autentico campionissimo.
Primo sudafricano a militare nel nostro campionato, a soli sedici anni fu scoperto dal manager degli inglesi del Charlton, allora impegnato in una tournee in terra d’Africa, e immediatamente tesserato per la modesta cifra di dieci sterline. Quel veloce giovane di origini italiane ben presto conquistò il posto di titolare in Premier League e lo difese a suon di gol, anche se a più riprese fu utilizzato in ruoli a lui non del tutto congeniali come quello di difensore. Nella sua ultima stagione in Inghilterra segnò la bellezza di ventiquattro reti e non riuscì a vincere il titolo dei cannonieri solo perche nelle ultime sei giornate fu costretto a inventarsi terzino, a causa di un infortunio occorso al titolare della sua formazione.
Un giocatore del suo calibro e di tali origini non sfuggì agli osservatori dei nostri club: fu la Sampdoria ad aggiudicarsi quel campione dai nonni abruzzesi, strap- pandolo al Charlton per la cifra record di 35mila sterline. Anche in Italia il ventiduenne Firmani riscosse immediato successo: attaccante atipico, era capace di coniugare il rigore del calcio inglese con la fantasia e l’agilità tipicamente latine. Normale che a questo centravanti, che faceva della rapidità la sua arma micidiale, non tardasse ad arrivare la convocazione in Nazionale. Lasciò il segno anche nella storia azzurra, Eddie Firmani: tre presenze e due reti. Dopo tre belle stagioni in blucerchiato fu ceduto all’Inter, dove confermò le sue doti di bomber per altrettanti campionati. Infine il passaggio al Genoa, in B, che grazie alle sue reti riconquistò immediatamente la serie maggiore. Complessivamente, otto anni in Italia, 227 partite e 125 reti. Davvero un gran bel bottino.
Giunge in Italia alla corte dell’Ambrosiana a soli vent’anni, preceduto dalla fama di portafortuna. La sua squadra, i Wanderers, con lui in campo aveva perduto un solo incontro in due stagioni.
A diciannove anni è già titolare della Nazionale uruguaiana, ma in Italia fatica ad adattarsi e sotto la Madonnina i giudizi dei tifosi si dividono: c’è chi lo idolatra e chi lo vedrebbe volentieri relegato in tribuna a favore dell’ala Visentin. Fatica a trovare un posto in squadra, all’inizio, ma, una volta collocato nel suo ruolo naturale, all’ala destra, diventa un punto di riferimento imprescindibile per i nerazzurri. E conferma la fama di portafortuna che lo aveva accompagnato: le uniche sconfitte del girone d’andata subite dalla sua squadra maturarono in sua assenza. Come tanti altri oriundi, entra nel giro della Nazionale italiana, ma la sorte gli impedirà di calcare il campo con la selezione maggiore: alla sua terza stagione all’Inter, a soli ventidue anni e in piena ascesa, la sorte gli volta le spalle. Il giovane si ammala, i medici non trovano la cura giusta: in poco tempo, Francisco Frione si spegne a causa di una malattia di cui nessuno conosce nome nè rimedi, e la sua morte resta avvolta in un alone di mistero.