Edmondo Berselli: il Romanzo Bianconero

originariamente apparso su La Repubblica del 15 maggio 2006


Nel giorno dello scudetto più malinconico l’album dei ricordi della Vecchia Signora del nostro calcio

«i Moggi passano, com’è passato Attila, ma alla fine, qualcosa di Platini resta»

Un golletto di Alessandro Del Piero mette l’ultimo sigillo sulla malinconica partita di Bari, in cui la Juventus ha battuto la Reggina, vittima designata, vincendo il suo ventinovesimo scudetto. La malinconia deriva dalla convinzione generale secondo cui la società bianconera subirà un castigo tremendo dalle autorità sportive, per cui il campionato vinto si trasformerà in una retrocessione in serie B, o peggio in C. Quasi una vendetta del destino: con il potere spregiudicato per quanto dialettale della Triade che si rovescia nell’impotenza assoluta, per la perfetta mortificazione dei tifosi, i venti milioni di juventini in Italia e nel mondo.

A occhio non vale neppure la pena di sdegnarsi, né di nutrire speranze. Si sa come sono i tifosi: il loro maggiore godimento è (a) vincere; (b) recriminare aspramente di fronte alle sconfitte. Sotto questo profilo, sia detto senza ironia, la situazione è dunque eccellente, dato che le possibilità di bombardare il quartier generale appaiono promettenti. Con il caso Moggi, la Cupola che si sostituisce al governo del calcio, la Vecchia Signora dei campionati si trasforma in una laida maîtresse. Quale migliore occasione per commiserarsi, deprecare e infine maledire? Subito dopo sarà bene ricorrere agli unguenti misericordiosi della memoria.

Perché il calcio è una “cosa” a due dimensioni: il presente e il passato. Il futuro non esiste se non come attesa di una semifinale o di un derby. Per il tifoso integralista, si vince sul campo; e la giustizia sportiva non può ribaltare il verdetto ottenuto con il gioco: quindi, tanto peggio per i fatti, soprattutto quelli penali, appuntamento nel rifugio nella memoria. L’unica dimensione intoccabile, almeno per ora e almeno per certi anni più lontani.

erché i tifosi hanno cominciato a fare il tifo per la Juve per ragioni essenzialmente mitologiche: e la memoria dice che nei primi anni Sessanta la mitologia era simboleggiata dalle figure del Gigante buono e dello Gnomo cattivo, ossia il centravanti John Charles e il perfido numero dieci Omar Sivori. Lo sanno tutti che il calcio vive di immagini, di sintesi storico-tattiche, di prodigi geo-tecnici che si aggrappano ai neuroni e all’anima. Il colosso gallese Charles che se ne va in porta trascinandosi dietro il modesto difensore avversario che gli si era ingenuamente attaccato al possente girovita; il gigante buono che prende a ceffoni Sivori, spirito demoniaco, effusione diabolica, perché si calmi, lasci stare l’ arbitro, e non si faccia espellere: sennò, altri schiaffi, e gli schiaffi di Charles non si discutono neppure, si prendono e zitti.

Funziona, la memoria, funziona. E’un esorcismo, è un linimento. Sivori, el Cabezon un “oriundo” che sarebbe capace di giocare con gli occhiali neri, per nascondere le occhiaie del poker notturno, e che in campo pensa soltanto a umiliare l’avversario, con il tunnel efferato, o come quella volta che sul cinque a zero, dopo che l’ arbitro aveva fischiato un rigore per la Juve, aveva consolato il portiere avversario suggerendogli: te la metto lì; e poi invece l’ aveva messa là, con l’altro che lo inseguiva per ammazzarlo.

Anche lui un simbolo, Sivori, dell’odio cordialissimo che il mondo juventino nutriva nei confronti dell’Inter di Helenio Herrera, soprattutto lui, il detestatissimo e vincente Acca Acca, “il Mago“, che intanto incamerava campionati e Coppe dei campioni mentre la povera Juventus non vinceva più un’ostrega: sicché quando in una desolata partita al Comunale di Torino, il populista Cabezon, incazzatissimo contro Herrera con cui ingaggiava polemiche vibranti, si avvicinò alla panchina interista e tirò una pallonata all’indirizzo della testa scolpitissima del Mago, venne giù lo stadio per l’ovazione (e chissenefrega se l’Inter espugna facilmente il Comunale, Parigi val bene una messa).

Per capire fino in fondo la juventinità, si deve considerare non soltanto l’idea del “potere bianconero”, quella combinazione di carisma agnelliano, ricchezza calcistica e infine di ramificato, a quanto pare, controllo dei campionati; bisogna avere sperimentato anche la micragna degli anni Sessanta, allorché una Juve miserrima era allenata da Acca Acca 2, ovvero “il Ginnasiarca“, come lo chiamava Gianni Brera, il quale cercava di supplire alla carenza di classe dell’organico con una sua invenzione tattica, un modulo che lui definiva “el movimiento“. Cioè, visto che siete scamorze, buttiamola sul casino totale. Un, dos, tres, movimiento!

Vinsero anche un campionato, movimentisticamente, nel 1967, ma soltanto perché il generoso portiere dell’Inter Giuliano Sarti, riuscì a inventarsi una provvidenziale papera su un tiro piuttosto prevedibile del centravanti del Mantova, il solido Di Giacomo, proprio all’ultima giornata. Eppure ogni volta che don Heriberto, cavaliere dalla trista figura, annunciava luttuosamente la formazione, era una sofferenza. La “Giuventus“, come la chiamava lui facendo scendere un brivido lungo la schiena dell’ Avvocato, avrebbe giocato in attacco con il seguente assetto: «Sacco, Del Sol, De Paoli, Chinesinho, Sssigoni». Naturalmente “Sssigoni” era Gianfranco Zigoni, estroso fromboliere che non frombolava molto spesso, Sacco avrebbe dovuto emulare Rivera, ma non l’emulava, De Paoli era un centravanti vecchia maniera proveniente dal Brescia, Del Sol era il grande cursore del Real Madrid (con tanti campioni che c’erano al Real, «Amancio, Del Sol, Di Stéfano, Puskas, Gento», ci si era dovuti accontentare del cursore). E Cinesinho era un buon regista con forse qualche anno di troppo rispetto a quanto dichiarato ottimisticamente sulla carta d’identità.

Cambiò un po’ il clima allorché fu prelevato dal Varese per 640 milioni, fottendolo proprio all’Inter, Pietruzzu Anastasi, di cui sempre Brera asseriva «nei rientri sembra Leonidas», cioè il fantastico centravanti nero del Brasile annata 1938. Per la verità, almeno nei primi anni Anastasi segnava anche parecchio, scattava come un centometrista, e tirava anche delle stangate mica male (come si vide con il meraviglioso gol in girata nella seconda finale degli europei del 1968, contro la Jugoslavia, che agli juventini, settentrionali e soprattutto meridionali, che lo idolatravano, fece dimenticare una fila di fantasmi schierati al centro dell’ attacco con i nomi di Siciliano, Miranda, l’ancora inesploso Combin, il nero Nenè: che pure, quest’ultimo, sapeva giocare ma si dà il caso non da centravanti).

Dopo di che, acceso un lumino alla memoria, opportunamente ricordati i difensori Bercellino, Castano e Salvadore, celebrato il santino dell’ala destra Magnusson, che a norma di regolamento giocava solo nelle coppe, per riaffiorare dalle secche della mediocrità occorse che a occuparsi della Juve fosse Italo Allodi, che non aveva meno potere di Moggi, ma che deteneva tutt’altra eleganza e aplomb. Da allora in poi, l’elenco del sacrario comprende gente molto contemporanea come Zoff, Bettega, Furino, Morini Tardelli, Cabrini.

Più tardi appartengono all’iconografia bianconera una serie di figure la cui memoria è stata fissata con precisione da entomologo dall’Avvocato: il “bello di notte” Zibì Boniek, il «coniglio bagnato» Robi Baggio (così zoologicamente identificato nelle prime partite del Mondiale americano nel 1994), per poi divenire un «Raffaello» rispetto al “Pinturicchio” Del Piero, consegnato così a una categoria artistica inferiore: e per fortuna i calciatori non sono grandi intenditori di storia dell’arte.

Ma poi, nei momenti sconsolati che verranno, magari soffrendo come a suo tempo il Milan o il Bologna o la Fiorentina in certi campionati minori, in trasferte contro, mettiamo, l’Albinoleffe (absit iniuria), i tifosi juventini, per uscire da una prevedibile mutriosa desolazione psicologica, dovranno estrarre dall’album degli anni Ottanta la figurina Panini di Michel Platini. Per poter dire, risparmiateci la Triade, lasciateci piangere le nostre tragedie, a cominciare dalla notte dell’Heysel: ma al momento buono si dà un’ occhiata al volto e alla maglia zebrata di Platini, e un po’ di consolazione ne verrà.

Il biliardista ironico, che in una certa epoca fece discutere i Bar sport su chi era più forte, lui o Maradona: uno che era capace, lo sanno tutti, di spedire il pallone nell’angolino su punizione: con una fucilata, o con una vellutata, ma anche di guardare l’arbitro, seduto per terra dopo il fallo grossolano di un difensore truculento, e di scoppiare in una risata. Perché il calcio è anche questo: i Moggi passano, com’è passato Attila, ma alla fine, qualcosa di Platini resta.