Quella di Eneas è una storia triste: è morto nel Natale 1988, dopo un incidente stradale e un lungo ricovero in ospedale, quando sembrava fuori pericolo. Morto di broncopolmonite, come un povero qualunque, lui che non veniva da una famiglia povera. Terzo di cinque figli, poteva diventare medico, ma si fermò al diploma di Educazione fisica; a diciannove anni giocava titolare nel Portoguesa, la squadra del suo quartiere di San Paulo. Quella di Eneas è anche una storia allegra: fa parte di quella strana categoria di calciatori a cui accade di restare nella memoria al di là del valore dimostrato sul campo. Il brasiliano giocò 20 partite, segnò 3 gol, ne sbagliò almeno una dozzina, contribuì alla salvezza del Bologna e lasciò un ricordo indelebile. La sua avventura sotto le Due Torri è durata una sola stagione, l’anno dopo giocava nel Palmeiras.
Eneas de Golveia de Camargo sbarcò in Italia con la prima ondata di stranieri, alla riapertura delle frontiere, nell’estate 1980. Altri chiamavano Brady, Krol e Prohaska; il Bologna di Gigi Radice scommetteva su questo brasiliano paulista per un campionato che partiva ad handicap (meno 5) dopo il primo calcio-scommesse, quello che travolse Milan e Lazio, Paolo Rossi, Giordano e tanti altri.
Era il Bologna del presidente Fabbretti, di Zinetti e Vullo, Pileggi e Garritano, Paris e Bachlechner, Colomba e Dossena. Per sostituire Savoldi e Chiarugi, coppia sfiatata ma dal notevole talento, vennero individuati Garritano ed Eneas. Estroverso, cordiale, fanatico di ananas e tortellini, il brasiliano suscitava simpatia. Quel “negretto” (il termine finiva regolarmente nei titoli di giornale) venne riempito di soprannomi (Passerone, Bandolero, Al fenomen), lui sorrideva a tutti e già a novembre cominciò a portare i guanti in campo, per difendersi dal freddo. Un tipo così, una specie di incrocio fra Blissett e Juary, a Bologna poteva finire sotterrato dai fischi; invece accadde il contrario e, con il senno del poi, è un pensiero consolante.
Nel suo campionato rossoblù, Eneas dovette saltare una dozzina di partite per un infortunio in allenamento, talmente assurdo da riassumerne la personalità: volendo passare la palla a Radice con un colpo di tacco, si procurò uno strappo al bicipite posteriore della gamba destra, uno strappo non peggiore di tanti altri, ma i medici rimasero perplessi, parlarono di “incidente abbastanza raro, dovuto forse a crisi di adattamento alla nostra temperatura’. Era il 21 novembre, i guanti non erano bastati a difendere Eneas dal Generale Inverno.
Trenta gradi di differenza fra l’inverno petroniano e quello paulista: Eneas passava intere giornate accanto al termosifone, con la tivù accesa, per imparare la lingua. In una delle rare interviste alla Gazzetta, aveva descritto la sua paura del freddo: “La neve l’avevo vista solo una volta a Parigi; è divertente vederla cadere ma solo il pensiero di andarla a pestare mi fa venire i brividi, mi blocca lo stomaco. Anche nell’alimentazione incontro qualche difficoltà. Non vedo l’ora che finisca questo freddo, per consolarmi mi dicono che presto sarà primavera, ma quando io sarà veramente?’.
Bologna lo adottò per motivi insondabili. Forse perché Brasile è sinonimo di allegria, e di allegria c’era bisogno: Eneas arrivò appena prima del 2 agosto, la bomba, la strage alla stazione. Altra coincidenza, pure nel basket di casa Virtus venne a giocare un brasiliano: Carlos Marco Leito, detto Marquinho. Nelle cronache locali erano frequenti le interviste parallele: alle stesse domande, Marquinho dava lunghe e dettagliate risposte, Eneas regalava lunghi sorrisi, mettendo a dura prova le capacità degli impaginatori. E se si vanno a vedere le pagelle, i voti dei giornalisti a fine partita, i bolognesi regalavano sempre ad Eneas un punto o un mezzo punto in più.
Eneas aveva il passo felpato, giocava sornione, non era un vero centravanti, oppure lo era, ma alla maniera di Socrates: movimenti larghi, rare percussioni, un rifinitore piuttosto che uno stoccatore, con un’insopprimibile propensione al palleggio, al dribbling, alle corse in progressione. Possedeva quel genere di talento che manifesta più voglia di stupire, che di vincere. Ricamava geometrie non euclidee, sfuggendo a qualsiasi schema. Non ci volle molto al pubblico bolognese per farne un idolo; a fine partita, Eneas rispondeva agli applausi della curva Andrea Costa e gettava la sua maglia ai tifosi. Nemmeno la Gazzetta conosceva bene il brasiliano: per qualche settimana lo chiamò De Carvalho, anziché de Camargo. Eppure Eneas giocava già in nazionale a vent’anni, convocato da Zagalo, che gli aveva affidato la maglia numero 10. Tre partite, poi era apparso un certo Zico…
Non sapeva della penalizzazione del Bologna, Eneas, quando aveva firmato il contratto, il suo procuratore aveva preferito nascondergli la verità. Ma Radice gli aveva promesso che la mitica maglia numero 10 sarebbe stata sua. In seguito, confessò di non aver mai sentito nominare la città di Bologna. Attraversò l’oceano con la mamma, la giovanissima moglie portoghese, Annarosa, e Rodrigo, il figlio di pochi mesi. Ogni lunedì tutta la famiglia andava in chiesa, Eneas si professava molto religioso; ma era al secondo matrimonio e aveva già una figlia, si scoprì poi. La famiglia de Camargo abitava nei pressi dell’Antoniano, non lontano dai Giardini Margherita. Lui non faceva vita mondana, nessuno l’ha mai visto in discoteca, le interviste le rilasciava in salotto. A Natale, ancora infortunato, fece ritorno in Brasile. Quel Natale 1980, come faceva sempre da quando era diventato famoso, caricò la sua automobile di giocattoli, vestiti, biscotti, latte, medicine, e partì per l’entroterra paulista, fermandosi negli orfanotrofi, cercando di aiutare quei ragazzini neri abbandonati, che non sapevano nemmeno chi fosse.
Il Bologna aveva cominciato il campionato con una vittoria e due pareggi, prima di andare a vincere a Torino con la Juventus di Zoff e Scirea, Furino e Bettega, che avrebbe poi conquistato lo scudetto. Alla sesta giornata, i rossoblu erano primi in classifica. Alla settima vennero sconfitti in casa dal Brescia e il sogno si interruppe. L’infortunio di Eneas ebbe un impatto molto negativo, la squadra precipitò in fondo alla classifica, risollevandosi in primavera. Squadra meteolabile, come il suo centravanti. Che manifestò la sua meraviglia in allenamento, quando scoprì che Radice voleva svolgerlo sul campo pure se pioveva: lui non aveva mai giocato sotto la pioggia.
Fu un bel campionato, quello dei rossoblù: senza la penalizzazione, il Bologna sarebbe arrivato quinto, dietro Juve, Roma, Napoli e Inter; concluse al settimo posto, nonostante un attacco anemico (7 gol di Fiorini, 6 di Garritano, 5 di Dossena, 4 di Paris… 32 gol fatti, 27 subiti). Il Bologna avrebbe avuto bisogno di un goleador ed Eneas non lo era. Equivoco rovinoso: lui girava lontano dai sedici metri, cercava il pallone per accarezzarlo, passarlo, riceverlo, innamorato del gesto fine a se stesso. Per ambientarsi, per capire il calcio italiano, avrebbe avuto bisogno di tempo; Fabbretti, prima delle vacanze estive, gli assicurò che sarebbe rimasto a Bologna, invece preferì cederlo al Palmeiras. Così Eneas poté evitare il tracollo: Fabbretti non confermò nemmeno Radice, cedette Dossena al Torino (che lo portò alla consacrazione del Mundial spagnolo), e il Bologna retrocesse in Serie B, nonostante il magnifico esordio di un diciassettenne, Roberto Mancini.
Il suo personale tracollo, Eneas l’ha vissuto in patria. Gli strascichi della carriera calcistica furono segnati da due gravi infortuni al ginocchio, il passaggio dal Palmeiras a squadre sempre più periferiche: Juventude, Piricicaba, Desportiva Ferroviaria, Central de Cotia. Abbandonò il professionismo poco più che trentenne, per passare dietro una scrivania, a occuparsi di marketing e pubbliche relazioni.
Non smarrì il sorriso accattivante: ai giornalisti italiani (per esempio, Gianfranco Civolani) che ogni tanto lo rintracciavano, Eneas dava l’impressione di bere un po’ troppo, vino e birra, e vuoti di memoria. Per i tifosi del Bologna, “il negretto” resterà quello intravisto in una domenica di fine estate, al Comunale di Torino. Le cronache, unanimi, definirono Eneas il migliore in campo, i difensori della Juventus non riuscirono a prendergli le misure, su di lui venne commesso il fallo che consentì a Paris di segnare il rigore con cui il Bologna dopo un quarto di secolo uscì vittorioso dalla trasferta bianconera.
Già il fatto che il centravanti non calciasse quel rigore che si era procurato, suggerisce qualcosa sulla natura di Eneas de Golveia de Camargo. Incapace di fare le cose semplici. Capacissimo di rifiutare un comodo tiro in porta pur di provare il gusto di rigiocare il pallone. E rigiocarlo ancora.
Testo di Rudi Ghedini