Enrico Mentana: Mariolino primo amore

La cosa bella della memoria è che ti fa sentire vicina l’inattualità assoluta. Nel calcio l’inattualità assoluta ha un nome sopra a tutti. Quello di Mario Corso. Se parlassimo di tennis il nome sarebbe forse quello di Ilie Nastase, per esempio. Insomma, l’inattualità si incarna in genere in quei talenti estrosi che lo sport atletico tende inesorabilmente a cancellare.

E il calcio che oggi tollera solo con difficoltà un Robi Baggio, e che esalta la “vita da mediano”, cerca perfino di rimuovere dal suo passato un vecchio giovane con un principio di pancetta, una calvizie incipiente, poca propensione a correre e pochissima a saltare, una gamba che – Brera docet -gli serviva solo da stampella, ma poi quel divino sinistro che figura nella storia del football.

Di Corso e della sua Grande Inter si è tanto parlato, e tanta acqua è passata sotto i ponti. Ma come si fa a dimenticare i momenti di gloria, a cancellare -che so – quel gol in fondo ai tempi supplementari dello spareggio della Coppa Intercontinentale del ’64 a Madrid contro l’Independiente? Lui sorprendentemente meno spossato di tutti, andare laggiù davanti alla porta argentina a raccogliere il cross di Peirò alla fine di un contropiede micidiale.

Perché Corso fu anche match winner, certo. Ma se penso a lui mi vengono in mente le tante punizioni a foglia morta, i duetti con Suarez, quella voce strana, fina e cavernosa a un tempo, e quei calzettoni tirati giù, strafottenti nei confronti degli avversari, come a dire: “dei parastinchi non so che farmene”.

Destino vuole che il mio ultimo ricordo calcistico di Mariolino si leghi proprio a quegli stinchi così provocatoriamente esposti. Era la sintesi di una partita di Serie B, il Genoa giocava in trasferta. Corso finiva la carriera lì, anzi la finiva proprio quel giorno. Rientrava da un infortunio, e mi ricordo un contrasto in copertura, fuori dall’area genoana, il rilancio e poi una smorfia di dolore, Corso che zoppica e poi va giù: la tibia che ha ceduto di nuovo, il piede sinistro di Dio esce di scena.

Di lui non avevo mai scritto, perché questi non sono ritagli di stampa, notazioni giornalistiche, riflessioni sui dati d’archivio. Questi sono fiori della memoria, brividi di bambino, andare ad Appiano Gentile in macchina con papà ed essere superati in tromba dal “pagodino” pilotato da un Mario Corso che quasi ci scompariva dentro.

Stagione 1972/73, Inter Palermo 3-1: punizione di Corso

Quel campione di cui credevo di sapere tutto (e ancor oggi non dimentico la data di nascita, 25 agosto 1941, che lo gemellava con un altro nerazzurro molto amato, il “bergheim” Domenghini). Già l’esser nato non in qualche Castelnuovo di Sotto o Brembate, ma a San Michele Extra, dove quell’Extra mi sembrava simbolo di eccellenza, marchio doc del campione…

Dalla memoria mi riaffiora persino la lettura di un libro, che forse s’intitolava “Il mio calcio”, scritto proprio da lui, Corso (o da chi per lui, dico oggi che il lavoro mi ha reso inevitabilmente più smaliziato), e in cui rivelava il suo talento innato, la sua capacità di colpire una nocciola col tacco e di farla arrivare nel taschino, e altri aneddoti assortiti. Veri o falsi, chissà. Ricordo anche un capitolo dedicato al suo tasto dolente. Cominciava raccontando che il suo primo allenatore gli urlava sempre: “Usa la testa!”. Lui, Mariolino, credeva che lo esortasse a ragionare, a non giocare troppo d’impulso. Ovviamente l’altro cercava invano di addestrarlo al gioco aereo.

Con Roberto Boninsegna, suo partner ideale

Fatto sta che Corso è fiorito così, straordinario talento calcistico senza il destro e la testa, ma con un cervello fino e una sapienza di gioco che si mangiava – con rispetto parlando – tutti i Baggio e gli Zola d’Italia. Con L’Inter di Herrera gli ho visto fare di tutto, in quel Dream Team che purtroppo le cineteche sportive ci restituiscono solo in parte. Si capiva bene che col Mago non si potevano sopportare, si immaginava bene che il suo talento da “genio e sregolatezza” fosse agli antipodi rispetto ai nuovi principi che si facevano strada nel calcio.

Corso non era e non poteva diventare un atleta. Ma tanto era limitato il suo raggio d’azione, tanto ampia era la sua visione di gioco, e con lei la potenza dei suoi lanci: e quindi di pasta frolla non doveva essere, visto che lanciava con precisione, di interno e di esterno, con una gittata di quaranta metri, e da fermo sapeva calciare le punizioni, e non solo quelle celeberrime ad effetto, ma anche quelle più secche. E solo chi l’ha visto può ancora gustare il suo dribbling caracollante, avversario da una parte, palla al piede dall’altra, il contrario di quello scattoso e sciistico di Sandrino Mazzola.

Anni sessanta, Corso in un nebbioso pomeriggio a San Siro

Già, Mazzola: mi ricordo negli ultimi anni gli slogan di noi tifosi “Corso, Mazzola, in una squadra sola”, vano tentativo di fermare il tempo. Eppure in qualche modo loro ci riuscirono, con quello scudetto maturo nella stagione iniziata con l’altro Herrera, Heriberto, e finita trionfalmente con Gianni Invernizzi. Era il ’71. Fu la grande rimpatriata del Dream Team: c’erano ancora Burgnich e Facchetti, e con Jair, Mazzola e Corso c’erano Boninsegna e Bertini.

Credo che quella sia stata la grande annata di Corso: lo vidi giocare come mai aveva fatto. Tornò perfino nel giro della Nazionale, dove pure si erano appena scannati tra mazzoliani e riveriani. Corso di quel campionato fu l’indiscusso protagonista (insieme con un certo Boninsegna, che segnò 24 gol, incluso quello memorabile in rovesciata nell’incontro col Foggia che ci diede la certezza dello scudetto).

Ricordo partite memorabili, ma una resta sopra tutte, proprio il derby nel ritorno. Il Milan era il nostro avversario per il titolo. Fu lui, Mariolino, il match winner. Avevo sedici anni, ero nel parterre a livello del campo, guardavo la partita attraverso le sbarre che allora lo circondavano. Ricordo quel calcio di punizione delizioso che Corso calciò non a scavalcare ma ad aggirare la barriera dal lato opposto rispetto a quello in cui era piazzato Cudicini. Uno a zero. Ma ricordo anche l’azione del raddoppio: Corso affronta Rivera e gli ruba palla, lancio lungo immediato per Jair, volata e cross al centro, appoggio di testa di Bonimba per Mazzola, due a zero. “Dio Corso pensaci tu”, ritmavamo. Lui ci aveva pensato.

A San Siro, tanti anni dopo, ci ho giocato. Per beneficenza. Il beneficato ero io, in realtà, per la possibilità di prender parte a una partita vera, con glorie interiste in campo e Mariolino in panchina. Io, modestamente, sono mancino. Quando per ventura mi toccava di calciare, subito dopo guardavo verso la panchina. Lui rideva. Gli spettatori, temo, ancor di più.

  • Enrico Mentana – originariamente apparso sul Guerin Sportivo (2000)
Le immagini del memorabile derby ricordato da Enrico Mentana