EUGENIO BERSELLINI – Intervista maggio 1980

Breve incontro con Bersellini, il celebrato «mago di campagna» che ha plasmato la nuova squadra nerazzurra a sua immagine e somiglianza: modesta, semplice, ordinata, concreta, efficace

Eugenio e regolatezza

MILANO. Lo chiamano «allenatore di campagna» e della gente semplice, quella che misura ancora il tempo con il sole. Di questa gente Eugenio Bersellini ha mantenuto la modestia, la capacità ormai rara di commuoversi, la grande dignità, la possibilità di tenere dentro di se anche le emozioni più violente che, al massimo, confessa con un lievissimo tremore della voce. Uomo attaccato alla realtà delle cose di tutti i giorni, Bersellini non si è scomposto nemmeno quando – a due minuti scarsi dalla fine della partita – Mozzini ha colpito il pallone che ha trafitto Tancredi dando all’Inter la gioia del dodicesimo scudetto, una gioia che inseguiva da nove anni. E dire che la stessa azione ha provocato una incontrollabile crisi di pianto in Onesti, l’alter ego di Bersellini. Lui – l’Eugenio – invece niente: stesso tono di voce pacato, stessa freddezza nell’esaminare i pro e i contro della partita, stessa determinazione nel dire, «da domani si ricomincia»… Come se vincere uno scudetto fosse cosa che capita tutti i giorni. E queste parole pronunciate proprio mentre, pochi metri più in là, Fraizzoli sottolineava di non riconoscersi in «questo» calcio e, conseguentemente, di essere incapace di gioire come avrebbe voluto. Fa una certa impressione vedere tanta emotività nel presidente e tanta freddezza nel mister, ma forse è anche grazie a questo cocktail di caratteri che l’Inter ha vinto il titolo.

RIMPIANTI. «Lo scudetto è arrivato – ci ha detto Bersellini – ma non è che sia soddisfatto in pieno di quello che ha fatto la mia squadra. Non mi riferisco tanto all’ultima partita, che i ragazzi hanno giocato in uno stato di enorme tensione, quanto a quello che è stato fatto durante tutto il campionato. So di essere un perfezionista, un incontentabile, ma troppe cose, provate e riprovate in allenamento non sono state realizzate in partita. Mi riferisco in particolare agli schemi, agli incroci, alla confusione che vedo ancora sulle… palle morte. Su quelle, cioè, che vengono giocate da fermo, su punizione o su corner. Ma c’è di più. Questo anno abbiamo vinto lo scudetto, d’accordo, però giocavamo meglio dodici mesi fa quando l’inesperienza finiva sempre col fregarci…».
A questo punto, l’immagine del Bologna che giocava come si gioca il paradiso (e che non vinceva il titolo) è entrata negli spogliatoi di San Siro…

CANDORE. Capita la stessa cosa per molto meno, figuriamoci quando una squadra vince il campionato. Tutti lì, attorno al mister. Per complimentarsi con lui, per dirgli che è bravo, per ricordargli che c’era un altro come lui… ma in Cina e l’hanno ammazzato. Ma Bersellini è uno che da quest’orecchio mostra di non sentirci e lo dice chiaro e netto: «In questa impresa io ho una parte di merito, d’accordo, ma il merito maggiore e della società che mi ha aiutato a fare la squadra che desideravo. Quando arrivai all’Inter, tre anni fa, vidi tre ragazzini che mi parvero subito ben dotati: alludo a Pancheri, Baresi e Ambu che, infatti, adesso sono titolari. Era chiaro, però, che non bastavano e l’anno successivo pescai Altobelli, Beccalossi e Pasinato che sono stati tra i punti di forza della mia terza e migliore stagione nerazzurra. Quindi, se abbiamo vinto il dodicesimo scudetto della storia dell’Inter, il maggior merito, lo ripeto, va alla società: io mi tengo solo quello dell’impegno e della serietà nel lavoro cui si potrebbe aggiungere un po’ di psicologia e tanto dialogo con i giocatori. Io non sono certo di quelli che dicono ai propri ragazzi che sono i migliori di tutti. Al contrario: al massimo dico loro che, sì, possono ottenere determinati risultati…, ma solo a certe condizioni. E siccome all’Inter ho sempre avuto la fortuna di avere a che fare con della gran brava gente, i risultati mi hanno dato perfettamente ragione».

MISSIONE COMPIUTA. Tre anni or sono l’Inter si affidò alla troika Bersellini-Mazzola-Beltrami: il loro programma era di rinvigorire e ristrutturare la squadra nelle prime due stagioni per poi renderla competitiva nella terza. Oggi, quindi, possiamo parlare di missione compiuta. «Forse con un minimo di anticipo rispetto ai programmi – precisa Bersellini – ma non sarò certamente io a lamentarmi. Adesso, comunque, è proibito dormire sugli allori: il difficile, ami, comincia proprio adesso, visto che sin d’ora sappiamo che il prossimo anno avremo il doppio impegno Campionato Coppa dei Campioni». A questo punto, il discorso sullo straniero diventa immediato. Stando alle voci di corridoio, all’Inter sono indecisi tra un centrocampista e una punta: nel primo caso Beltrami tenterebbe un ultimo aggancio nei confronti di Hansi Muller mentre nel secondo di nomi non se ne tanno. La decisione definitiva, ad ogni modo, spetta a Bersellini.

PRESENTIMENTO. San Siro stava sempre più somigliando ad un deposito di locomotive sotto pressione quando Mozzini – mai a segno da quando gioca nell’Inter e autore di cinque gol nel Torino – azzeccava un collo destro pieno che definire «colpo della domenica» è il minimo. «Che succedesse proprio questo – confessa Bersellini – non l’avrei mai immaginato, che però sì arrivasse al colpo di scena ci avrei giurato. All’inizio del secondo tempo l’ho detto: pareggiamo di sicuro e con uno dì quei gol che la gente non si aspetta. Non direi proprio di aver sbagliato pronostico».

DEDICA. Nella carriera di un allenatore – soprattutto se di campagna – uno scudetto non è certo cosa che capiti spesso per cui merita ben più di un premio in denaro e di una bottiglia di champagne. Uno scudetto significa il raggiungimento di un traguardo sperato sopra ogni altra cosa. La relazione di un sogno per tanto tempo covato in fondo al cuore ma cosa si prova in un momento così? «Una gioia enorme. Ma anche un grosso pugno nello stomaco e subito sei preso dalla commozione: come in un film vedi tutto quello che hai fatto, rileggi tutta la tua vita; ripercorri la tua carriera sin dal primo giorno. E poi pensi a qualcuno come per fargli vivere accanto a te questo meraviglioso istante. Anche a me è capitato tutto questo. Anche a me è venuta in mente una persona».
Chi? «Una persona che appartiene a Eugenio Bersellini uomo e non a Eugenio Bersellini allenatore dì calcio. E’ per questo che non ne faccio il nome, che questa emozione la tengo esclusivamente per me».