Euro 68: testa o testa?

Alla terza edizione, l’Italia si aggiudica il titolo: in panchina c’è Valcareggi. in campo Riva che si ripropone all’olimpico per la partita che vale il titolo. Ma il loro «momento magico», gli azzurri lo vivono a Napoli con una monetina…

Molte cose sono accadute dal lontano 10 novembre 1963 quando l’URSS, pareggiando all’Olimpico, aveva eliminato l’Italia dalla seconda edizione del campionato europeo. Edmondo Fabbri, il CU voluto dal presidente della FIGC Giuseppe Pasquale, era clamorosamente caduto ai mondiali del ’66 sulla buccia di banana della Corea del Nord. Furibonde polemiche, querele, interminabili bisticci ad ogni livello, Fabbri che si ritira a Camaldoli per meditare sulla caducità delle fortune umane, l’inevitabile sostituzione. In novembre, la Federazione affida gli azzurri al Mago per antonomasia, Helenio Herrera, che si avvale della collaborazione di… tale Ferruccio Valcareggi, triestino di nascita, fiorentino di adozione. praticamente uno sconosciuto (o quasi) nel mondo dei tecnici.

Collaborazione difficile, per non dire impossibile, fra i due, nonostante il carattere mite e accomodante del buon Uccio (come si fa a collaborare con un mago?). Infatti, la coabitazione sulla panchina azzurra ha vita breve: dal 1 novembre 1966 al 27 marzo 1967. Quando H.H., con una nobile lettera alla Federazione si dimette… prima di essere cacciato (i maghi, lo sapete, leggono nel futuro, sennò che maghi sarebbero?). Valcareggi resta solo: per il nostro calcio ha inizio un’era delle più luminose di tutta la sua lunga storia. Ma nessuno, allora, lo avrebbe immaginato.

LA PARTENZA DI H.H.

Valcareggi debutta come CU a Coppa europea già iniziata. Le prime partite, con Romania e Cipro, furono affrontate dal tandem (male assortito) H.H.-Zio Uccio. Una facile vittoria sulla Romania a Napoli il 26 novembre di quel 1966, con due reti di Mazzola e una di De Paoli, centravanti-panzer della Juve (una meteora in bianconero) a vanificare il gol iniziale del romeno Dobrin, una prima, robusta iniezione di fiducia dopo il disastro coreano. Poi, la trasferta nell’isola di Cipro, dove l’Italia agguanta il successo negli ultimi minuti con due reti ad opera di Domenghini e Facchetti, giocando su un incredibile campetto in terra battuta, con la gente ai bordi del terreno di gioco trattenuta da… una corda tesa su alcuni paletti piantati in fretta e furia dagli organizzatori di quell’incredibile match.

H.H., maestro di pubbliche relazioni, si accaparra i favori della stampa concedendo di andare nelle camere dei giocatori, dopo la partita, per le intervisto di prammatica. «Riposeranno dopo avere parlato con voi — dice il mago con espressione deciso — le esigenze della stampa su tutto e prima di tutto». Non gli serve a niente: sarà costretto a dimettersi nel mese di marzo, lasciando solo Valcareggi. E Valcareggi debutta il 25 giugno di quell’anno battendo la Romania a Bucarest, nel vasto Stadio a forma di catino «23 August», con una rete di Bertini a dieci minuti dalla fine E’ la prima perla della lungo collana di successi che Valcareggi collezionerà in quegli anni ruggenti per il calcio azzurro.

Nel novembre, il ritorno con Cipro, squadretta dilettantistica senza pretese, battuta in partenza senza alcun rimedio. La Federcalcio fa giocare l’incontro promozionalmente a Cosenza, gli azzurri passeggiano: 5-0, ma la data, il primo novembre, è di fondamentale importanza perché quel giorno spunta definitivamente l’astro Gigi Riva, uno dei più grandi realizzatori del nostro calcio di tutti i tempi. Riva, per la verità, aveva già giocato tre incontri in azzurro. Il timido, incolore debutto nel 1965 a Budapest quando subentrò a Pascutti infortunato; poi altre due insignificanti apparizioni, a Parigi contro la Francia e a Roma contro il Portogallo. Reti zero, consensi pochi. Ma a Cosenza il bomber esplode. Tre gol, strepitosi, si aggiungono ai due di Mazzola, l’Italia comincia a scoprire il cipiglio e il sinistro di «Rombo di Tuono», che tanta parte avrà nelle vicende a venire della Nazionale.

I «MESSICANI»

Cosenza è importante anche per il debutto in azzurro di «Picchio» De Sisti, che sarà l’insuperabile regista della squadra messicana andando ad affiancarsi ad Albertosi, Burgnich, Facchetti, Domenghini, Mazzola e, appunto, Riva che già figurano nelle formazioni di Valcareggi. Una grande squadra ancora in sboccio, comunque già in grado di imporsi autorevolmente in Europa. Gli azzurri volano, infatti, verso la fase finale della Coppa. Pareggiano a Berna contro la Svizzera (2-2, due gol di Gigi Riva…), che poi battono a Cagliari (4-0, un gol di Gigi Riva, uno di Mazzola, due di Domenghini, che di lì a poco passerà al Cagliari per vincere un favoloso scudetto).

Poi la prima sconfitta di Valcareggi: capita a Sofia, il 6 aprile del 1968, nel corso di una partita burrascosa e drammatica, e valevole per i quarti di finale. Segnano subito i bulgari su rigore, al 3’, per un fallo di Bercellino ai danni del famoso centravanti Asparuhov. L’Italia pareggia con un tiro di Mazzola deviato in rete da Penev ma i bulgari sono irrefrenabili e segnano due volte (Dermendjiev e Yetchev), gli azzurri perdono Armandino Picchi per un gravissimo incidente di gioco, ma hanno forza di reagire. E riducono lo svantaggio con Pierino Prati, detto «la Peste», a cinque minuti dal termine. E’ il gol che ci consente di passare il turno, perché il 20 aprile del ’68, a Napoli, fanno fuori la Bulgaria battuta per 2-0. No, non avete indovinato: Riva non segna perché non gioca, è già alle prese con un malanno subdolo, la pubalgia, che lo terrà in forse anche nella fase finale della Coppa. Segnano ancora Prati e Domenghini. L’Italia è dunque in finale.

SORTEGGIO OK

In semifinale, un accoppiamento galeotto: ci tocca l’Unione Sovietica. Smarrimento, timori diffusi, scaramanzia. Vuoi vedere che succede come l’altra volta? Vuoi vedere che i sovietici ci sbattono fuori dalla Coppa come accadde nello stregato incontro di Mosca? Si gioca in una atmosfera tesa e preoccupata, a Napoli, stadio portabene prediletto dalla Federcalcio. Valcareggi non può ancora contare su Gigi Riva, che i medici curano disperatamente nel quartier generale di Fiuggi, senza che la notizia trapeli all’esterno. Non si parla ancora di pubalgia, si saprà molto più tardi.

E’ un incontro drammatico: si infortuna quasi subito Rivera, si deve fare di necessità virtù. Gli azzurri moltiplicano gli sforzi, ma l’URSS è fortissima, non ha punti deboli, i tentativi di Domenghini, di Mazzola, di Prati cozzano, invano, contro una barriera d’acciaio, i giganteschi difensori Afonin, Shesternev, Istomin, che proteggono con eccezionale bravura l’erede del grande Jascin, un portiere dal nome che sembra uno scioglilingua: Pšeničnikov . Morale: 90 minuti senza reti, si va ai supplementari. La tensione è al culmine, lo Stadio è un ribollente calderone, gli azzurri sembrano stremati. Ma no, la grande squadra che entusiasmerà il mondo allo Stadio Azteca di Città del Messico è ormai una realtà, ha un morale di ferro, non la cederebbe neanche al diavolo. Ed anche la mezz’ora in più si chiude senza reti, bisogna ricorrere al sorteggio. Furono minuti indimenticabili.

Per regolamento, il sorteggio doveva avvenire nel chiuso degli spogliatoi, invece che sul campo. L’arbitro, il tedesco occidentale Tschenscher, e i giocatori delle due squadre spariscono, ingoiati dal sottopassaggio. Il San Paolo, colmo di folla fino all’inverosimile, tace di colpo. Un silenzio drammatico. teso, quasi insostenibile. Trascorrono cinque, dieci, quindici minuti. Ma santo Cielo, cosa fanno? Perché non sale nessuno a dirci come è andata? Vuoi scommettere che… Poi un urlo altissimo: dalla buchetta del sottopassaggio spunta, come un indemoniato, Giacinto Facchetti, il capitano. Le braccia alzate al cielo, il viso grondante lacrime di felicità, inseguito e subito travolto dai compagni di squadra. Che lo abbracciano, e rotolano tutti sull’erba: sfiniti ma incredibilmente felici. La monetina ha detto Italia, siamo in finale, possiamo vincere la Coppa…

E qui il discorso si fa un tantino scabroso. Su quel sorteggio se ne sono dette di tutti i colori. Una versione, la più maliziosa, è questa. L’arbitro estrae dal taschino una monetina che però, gli scivola di mano e finisce in un chiusino di scolo dell’acqua delle docce. Velocissimo, un dirigente azzurro (chi dice addirittura Artemio Franchi in persona) allunga all’arbitro un’altra moneta, «Grazie, fa Tshenscher, prego signor Facchetti scelga lei: testa o croce?». Il dirigente di prima sussurra «testa» e Facchetti annuisce. L’arbitro getta la moneta: è testa. Qualcuno raccatta fulmineamente la monetina che sparisce chissà dove. Perché quella versione (maligna) precisa che si trattava di una moneta con due… teste e neppure l’ombra di una croce… Sarà vero? Saranno soltanto malignità? Non lo sapremo mai. Perché, se c’è qualcuno che sa, ovviamente tace. O smentisce.

DOPPIA FINALE

Comunque gli azzurri, bisogna dirlo in piena onestà, la finalissima l’avevano strameritata. E meritarono anche il titolo di campioni d’Europa, guadagnato in due drammatiche finalissime disputate contro la sorprendente Jugoslavia, che schierava una squadra giovane, ma fortissima. Assi di primo piano la famosa ala sinistra Džajić, un funambolo di rara efficacia in zona-gol. L’altra ala, Petkovic, estremamente veloce. Il centravanti Musemic, forte e un tantino scorretto. L’interno di regia Acimovic. Il portiere Pantelic.

Gli azzurri scendono in campo senza Rivera e Bercellino, infortunati contro l’URSS. Senza Mazzola, sacrificato a Pietro Anastasi. Ancora senza Gigi Riva, del quale… non si hanno notizie precise. Valcareggi dimostra un coraggio (e una lungimiranza) di cui pochi, allora, lo accreditavano. Per Rivera schiera Lodetti, generoso cavallone di centrocampo. Per Bercellino ripesca Guarneri, ormai non più interista dato che è passato al Bologna con un trasferimento a sensazione. E, ecco il colpo gobbo. Sandrino Mazzola è stato messo in disparte per un debuttante: Anastasi, appunto, allora del Varese e non ancora baciato dalle glorie juventine.

Ma tutto sembra crollare addosso agli azzurri quando, dopo 39 minuti di un incontro angosciosamente sofferto, l’infernale Džajić folgora Dino Zoff con un pallone che è come una freccia piantata nel cuore degli undici azzurri sul campo, dei centomila tifosi che spasimano sulle immense gradinate dell’Olimpico. Passano i minuti, l’Italia attacca, ma non passa. Pantelic para tutto, la Jugoslavia fa tremare lo Stadio con le puntate in contropiede di Džajić, siamo ormai a cinque minuti dalla fine, tutto sembra compromesso quando scocca il fulmine del pareggio che fa esplodere l’Olimpico in un boato terrificante. Angelo Domenghini, uomo prezioso per le fortune azzurre come si confermerà in Messico, batte una punizione, poco fuori dall’area, in un silenzio sepolcrale. Parte il tiro, è una botta tremenda, per Pantelic questa volta non c’è niente da fare, la palla ballonzola nella rete jugoslava, mentre la gente si abbraccia, piange, strepita, urla, si abbraccia, sembrano tutti improvvisamente impazziti. Quel brutto fallo di Paunovic ai danni di Lodetti varrà il titolo europeo per gli azzurri, il primo alloro internazionale dopo il campionato del mondo del 1938, esattamente trent’anni dopo…

Ma i tempi supplementari non risolvono la questione, le squadre sono sfinite, si gioca per onor di firma, bisogna ritrovarsi sul campo, a quarantotto ore di distanza per la finale-bis. Ce la faranno i nostri eroi a battere i giovani jugoslavi pur avendo nelle gambe i centoventi minuti di Napoli contro l’URSS e i centoventi minuti della prima finale?

E’ FATTA!

Sì, ce la faranno. Si gioca la sera del 10 giugno del 1968, formazione segreta fino al momento di entrare sul campo. Giocherà Rivera? Giocherà Mazzola? E Ferrini, sarà della partita? Eccoli, gli azzurri. Ferrini e Rivera non ci sono. Mazzola sì. Ma chi è quello? Sembra Gigi Riva… Sì, è lui, il redivivo! Allora è guarito, allora sta bene, allora possiamo vincere. E vinciamo.

La Jugoslavia è sorprendentemente più stanca dell’Italia, la partita si decide quasi subito. E’ il 12′ quando Riva, su lungo lancio di De Sisti subentrato a Lodetti per una geniale intuizione di Valcareggi, scappa sul filo del fuorigioco (i nostri avversari protesteranno a lungo con l’arbitro, lo spagnolo Ortiz de Mendebil), e batte inesorabilmente Pantelic. E’ il crollo per la Jugoslavia. Raddoppia al 31’ Pietro Anastasi, con un guizzo dei suoi, la ripresa non ha storia, siamo campioni d’Europa. L’Olimpico fiammeggia nella famosa fiaccolata, migliaia di copie di giornali accese sugli spalti, è un attimo intriso di gioia e di commozione, siamo di nuovo grandi, l’Italia è tornata ad essere una potenza calcistica di primissimo piano. Lo confermerà due anni dopo, in Messico, classificandosi seconda nel mondo, ancora prima delle squadre europee.

di Alfeo Biagi