Euro 84: Quando Platini diventò Roi

Il divino Michel fu il trascinatore e il cannoniere di una Francia che, sino allora, aveva spesso incantato, con il suo gioco frizzante, ma vinto mai.

Ciascuna delle precedenti edizioni dell’Europeo era stata legata, a doppio filo, al nome di un protagonista: il grande ragno nero Lev Jascin nel ’60, il genio tattico Suarez nel ’64, il nostro Gigi Riva, Rombo di Tuono, nel ’68, l’implacabile bomber tedesco Gerd Muller nel 72, il para-rigori cecoslovacco Ivo Viktor nel ’76, nonno-gol Horst Hrubesch nell’80. Ma nessuno aveva mai lasciato una così determinante, esclusiva impronta di sé, come seppe fare Michel Platini nel trionfo francese dell’84.

Il divino Michel fu il trascinatore e il cannoniere di una Francia che, sino allora, aveva spesso incantato, con il suo gioco frizzante, ma vinto mai. E invece, in quell’anno di grazia, arrivò a centrare una storica e sensazionale doppietta, titolo europeo e poco dopo l’oro al torneo olimpico di Los Angeles, il segno dell’impetuosa crescita dell’intero movimento, che sarebbe stata poi confermata dal terzo posto al Mondiale messicano dell’86.

Come già l’Italia quattro anni prima, anche la Francia aveva ottenuto per la seconda volta l’onore e l’onere di organizzare la fase finale. Espana 82 aveva regalato un avaro quarto posto, inadeguato ai meriti di una squadra che con Tigana, Giresse e Platini (ai quali si sarebbe poi aggiunto Fernandez) allineava il più forte e meglio assortito centrocampo del mondo. Affrancata dall’impegno di disputare le qualificazioni, sostenuta dal fattore campo, la Francia si accostò a questi Europei nelle vesti di grande favorita.

I 4 moschettieri della Francia: Platini, Fernandez, Tigana e Giresse

A rendere vincente il calcio dei “coqs” erano soprattutto i due Michel: Hidalgo, un tecnico intelligente, moderno, coraggioso, che aveva sempre battuto la strada maestra del gioco e che era il riconosciuto inventore del calcio-champagne, e Platini, il fuoriclasse dall’inarrivabile talento, formidabile costruttore di gioco e implacabile realizzatore, un campione che il passaggio alla Juventus aveva completato sotto il profilo tattico e trasformato, da solista delizioso e un po’ accademico, in un insaziabile cacciatore di trofei.

La logica antagonista di questa Francia, per il successo finale, era l’Italia di Bearzot, fresca campione del mondo in carica, dopo aver definitivamente scacciato, con la vittoria in terra di Spagna, gli ultimi fantasmi dei giorni bui dell’ottanta, quando lo scandalo si era abbattuto con impeto distruttivo sulle strutture del nostro calcio. Dopo quel trionfo inatteso e straordinario, sarebbe però occorso un graduale rinnovamento: invece Bearzot rimase prigioniero della gratitudine e confermò una fiducia senza limiti ai suoi logori guerrieri. Così, il girone di qualificazione dell’Italia, difficile ma non proibitivo (ne facevano parte Svezia, Romania, Cecoslovacchia e Cipro) risultò un lungo calvario.

Gli azzurri iniziarono con tre pareggi consecutivi, in casa con cechi e romeni, poi addirittura a Cipro, dove soltanto un autogol evitò all’ultimo la sconfitta. Poi persero in Romania e due volte con la Svezia, 0-2 a Goteborg, 0-3 a Napoli, dove furoreggiò il capellone Stromberg. Caddero anche a Praga e soltanto nell’ultima gara, a Perugia con Cipro, riuscirono a ottenere la loro prima e unica vittoria nel girone, il cui effetto fu quello di evitare l’ultimo posto. Prima, e qualificata per Parigi, la Romania di Mircea Lucescu, poi Svezia, Cecoslovacchia e infine noi, appena davanti a Cipro. In otto partite, quattro soli gol segnati, tutti nella porta cipriota. Una Waterloo. Bearzot aveva imboccato la fase discendente della sua parabola, che si sarebbe conclusa due anni dopo, ai mondiali messicani.

Settembre 1983: la storica vittoria della Danimarca a Wembley

Altre bocciate eccellenti nelle qualificazioni, furono la Polonia, che era stata terza a Espana 82, l’Olanda, fatta fuori per differenza reti dalla Spagna in virtù di un truffaldino 12-1 a Malta nell’ultima partita, e l’Inghilterra, vittima di una squadra emergente e spettacolare, la Danimarca di Elkjaer, Simonsen e Laudrup, capace di violare lo stadio imperiale di Wembley. I due gironi finali videro così da una parte Francia, Danimarca, Belgio e Jugoslavia; dall’altra Spagna, Portogallo, Romania e la detentrice Germania Ovest.

Il motivo tattico era identificabile nel confronto tra il calcio latino, tecnica e fantasia, superbamente rappresentato (anche in assenza dell’Italia) da Francia, Spagna e Portogallo e il gioco atletico di Germania, Danimarca e Belgio. Quattro anni prima, in Italia, il podio era stato monopolizzato dal calcio fisico di tedeschi, belgi, cechi. Ora si stava preparando una fragorosa e totale rivincita.

I terribili danesi misero subito alla frusta la Francia, nel galà d’apertura del 12 giugno a Parigi. L’inedita marcatura di Platini ad opera di Berggreen limitò l’apporto del fuoriclasse, che risultò ugualmente decisivo. A dieci minuti dal termine, col punteggio inchiodato apparentemente sullo 0-0, una saetta di Michel, in mischia, si infranse sul testone di Busk e di lì carambolò nella rete danese. Ufficialmente etichettato come autorete, fu l’avvio della grandinata.

Platini segnò una tripletta al Belgio, schiantato per 5-0 a Nantes, e tutti i tre gol del 3-2 sulla Jugoslavia, a Saint Etienne. Rispetto a Roma 80, una variazione di formula, sempre nell’ottica di moltiplicare le partite e gli incassi, prevedeva le semifinali incrociate fra le prime due classificate di ogni girone. La Francia chiuse prima a pieno punteggio, seguita dalla Danimarca, che a sua volta aveva sepolto di gol Jugoslavia e Belgio, quest’ultimo rimontato dopo l’iniziale 2-0.

Pfaff battuto da Platini in Francia-Belgio 5-0

L’altro girone fu assai meno prolifico, di reti e di spettacolo, e si giocò nel segno di un diffuso equilibrio e di un esasperato tatticismo. Alla fine la spuntò la coppia iberica, Spagna e Portogallo, con quattro punti a testa, frutto di una vittoria e due pareggi. La grande sconfitta risultò la Germania, soltanto terza, malgrado ripresentasse a grandi linee la formazione vittoriosa nell’ultima edizione, con l’aggiunta di un altro giovane talento, Lothar Matthaus. I tedeschi pagarono a carissimo prezzo l’unica sconfitta, con la Spagna, decisa al novantesimo da un gol del difensore Maceda. Sulle “Furie rosse” continuava a brillare la stella della buona sorte: si sarebbe offuscata solo all’ultimo atto. Le semifinali erano dunque Francia-Portogallo e Spagna-Danimarca.

I portoghesi avevano un’impeccabile organizzazione difensiva e conoscevano l’arte di tener basso il ritmo, grazie ai loro collaudati palleggiatori, fra tutti il finissimo Chalana. In avanti non è che pungessero troppo, a parte il centravanti Jordao. La Francia, che chiedeva spazio e alte cadenze per esprimersi al meglio, rimase a lungo soffocata nella ragnatela lusitana. I francesi avevano il loro cronico tallone d’Achille nella mancanza di uno sfondatore: tecniche e mobili, le due punte, Lacombe e Six, non erano fenomeni in zona gol.

Fu il terzino Domergue a portare avanti la squadra di casa, ma Jordao pareggiò nell’ultimo quarto d’ora. Nei supplementari, altro guizzo vincente di Jordao e sul Velodrome di Marsiglia calò il gelo. Ma era la giornata di Domergue, che si ritagliò un altro spicchio di gloria con il gol del 2-2, sin quando, giusto al 119 minuto, mentre pubblico, atleti e l’arbitro italiano Bergamo già si preparavano allo stress dei rigori, entrò in scena ancora lui, il Divino, e firmò il 3-2 conclusivo. Platini era al settimo gol personale, più un autogol procurato, in quattro partite. Niente male, per un trequartista.

Re Michel ancora decisivo nella semifinale contro la rivelazione Portogallo

Ai rigori arrivarono invece Spagna e Danimarca, a Lione. Lerby portò in vantaggio i danesi, ancora Maceda, l’uomo della provvidenza, rimise in corsa le furie rosse. La Danimarca aveva giocato meglio, un calcio aggressivo e cadenzato, di costante iniziativa. Ma la Spagna fu più precisa dal dischetto. Dopo quattro penalty a segno per ciascuno, toccò proprio ad Elkjaer fallire quello decisivo. La Danimarca si piazzò così terza a pari merito con il Portogallo (era stata abolita l’inutile finale di consolazione), Francia e Spagna si portarono a Parigi per la finalissima.

La Francia era stanca. Aveva dovuto spendere molto: con le punte di ruolo allergiche al gol, o quasi, la finalizzazione della manovra richiedeva una fase di approccio assai impegnativa. La Spagna, euforica per l’obiettivo inatteso, aveva speso indubbiamente di meno, con un calcio molto tattico, fatto di possesso palla e di difesa superprotetta. Per arrivare in finale, la Francia aveva dovuto segnare dodici gol, alla Spagna ne erano stati sufficienti quattro.

La tremenda papera di Arkonada nella finale

Giocava con Santillana punta più avanzata, due esterni che si inserivano e coprivano, una fitta diga davanti ad Arkonada, il suo magico portiere. Proprio Arkonada la tradì in vista del traguardo. Primo tempo in bianco, e piuttosto noioso, poi Platini raggirò la barriera con una punizione rasoterra, Arkonada l’afferrò, ma se la fece scivolare via dalle mani, sino a vederla rotolare in porta.

Rapido mutò il copione. Gli spagnoli si buttarono avanti, i francesi arroccarono a salvaguardia di quel colpo di fortuna. L’arbitro cacciò Le Roux, undici contro dieci le “Furie rosse” assediarono Bats, sin quando, agli sgoccioli del match, Bellone siglò il due a zero in contropiede. Sipario. Otto gol (e mezzo) per Platini, il trionfatore. Il suo Europeo.