Ezio Pascutti sta dentro un’ iconografia arcinota: un nugolo di gol dentro una nuvola d’ira. Ma quella nuvola, con la sua aneddotica gonfia di giornate e giacchette nere, pesa bassa sulle sue imprese e smarrisce i contorni di cifre che sono da capogiro. Perchè quella “chierica” impertinente che protestava con gli arbitri e gli avversari, che il pubblico beccava con l’acrimonia che solo una massa anonima sa avere, ha segnato in campionato 130 reti senza rigori.
Il gol nel sangue. Ezio Pascutti ce l’aveva, ma non gli è bastato, non gli è bastato per farsi ricordare come lui desiderava, come ogni calciatore sogna. Un attaccante efficace come pochi altri sotto rete, coraggioso, combattivo, sgusciante al quale è stato disegnato addosso un vestito brutto e stretto, con su scritto: “cattivo”. Sarà stato per quel pugno minacciato a Dubinski in Nazionale, espulsione e ludibrio pubblico, sarà stato per quel suo modo di giocare aggressivo e rabbioso, quando la critica lo voleva leggiadro ed etereo, ma alla fine Ezio è diventato il “cattivo”, un marchio di fabbrica, la fabbrica calcio, che l’ha accompagnato ingiustamente per tanti, troppi anni.
Nato a Mortegliano, provincia di Udine, l’1-6-1937, si fa notare nella Snia Torviscosa per la corrente elettrica che l’attraversa appena scende in campo e per quel suo continuo correre e segnare.
È Gipo Viani che lo porta sotto le Due Torri per tre milioni e mezzo dell’epoca, era il 1954 ed Ezio Pascutti sbarca a Bologna insieme al compagno di squadra Leskovic, anche lui friulano, prematuramente scomparso. Sarà un caso, ma Leskovic è la prima etichetta che viene affibbiata al bomber rossoblù: “Chi? Pascutti? Sì, quello che stava insieme al povero Leskovic”. Come se essere compagni di squadra e d’avventura fosse un reato. Tant’è…
L’esordio in Serie A Pascutti lo fa a diciotto anni, il primo giorno dell’anno ’56, Vicenza-Bologna 2-3. Rossoblu in vantaggio di un gol, tiro di Pivatelli deviato sul palo da Sentimenti IV, pallone che ritorna verso il centro raccolto di testa da Pascutti. Gol del raddoppio. Il primo d’una lunghissima, strepitosa serie. Viani aveva visto lungo. Ezio a fine stagione colleziona 18 presenze e 11 gol, niente male per un ragazzino al primo campionato. Gipo lascia, ma il “monello” di Mortegliano (altra etichetta), pronto, secondo Civolani, a far baruffa e a prendersela col mondo intero, resta. Sbaglia gol fatti, e viene criticato per le scarse doti tecniche, però capisce al volo dove andrà a cadere il pallone e lo capisce prima degli altri, prima dei difensori. “E vero – ricorda – sbagliavo i gol facili. Una volta con l’Udinese, in Coppa Italia, stavamo 2-2 e mancavano tre minuti alla fine. Vinicio va sul fondo e mette in mezzo. Colpisco sicuro da tre metri e mando alto. Quante me ne disse Vinicio. Supplementari e io fremevo perchè alle 5 avevo il battesimo di mia figlia. Rigori. Dico: “Tiro io il primo, così vado subito sotto la doccia”. Rincorsa, sbagliato, eliminati. Capitavano anche giornate così“.
Gioca d’intuito, d’anticipo e la mette dentro con regolarità impressionante. Segna gol bellissimi in acrobazia, non si risparmia e si butta nelle mischie con coraggio leonino. Non basta. Non basta a una parte della tifoseria e della critica che continuano a tartassarlo con quel vezzo ipocrita di chi vuole vedere il bel gioco, costi quel che costi, bel gioco e giocatori straripanti classe senza i quali non si può vivere a Bologna, salvo poi vincere grazie a quelli come Pascutti che la buttano nel sacco. È così che, con “Fuffo” Bernardini in panchina, il Bologna vince la Mitropa Cup nel ’62 e lo scudetto nel ’64, allo spareggio con l’Inter.
In Nazionale Fabbri stravede per lui e per fargli posto fa fuori gente come Corso e Riva. Il destino, proprio un infortunio di Ezio Pascutti spalancherà a “Rombo di tuono” le porte della maglia azzurra. Prende parte alle sfortunate spedizioni mondiali del 1962 in Cile e del 1966 in Inghilterra. Lo spartiacque ha una data ben precisa: 13 ottobre 1963. L’Italia gioca a Mosca gli ottavi di finale degli Europei. Pascutti viene sgambettato da Dubinski, si alza e gli mostra il pugno, sceneggiata, espulsione. L’Italia intera ce l’ha con lui, l’Urss vince 2-0, di Roma ci condanna.
Questo il suo, appassionato, racconto: “Urss Italia, sto andando in gol, Dubinski da dietro mi colpisce alla gamba operata, io mi alzo, gli metto le mani al collo e gli do una spinta. Espulso. All’inizio fu quasi una comica. L’ arbitro polacco mostrava due dita, come a dire: l’11 deve uscire. Maldini, che era il capitano, aveva perso la testa e fraintese: “Vedi il segno che fa? Ti ha espulso solo per due minuti”. Io ero conciato talmente male, quasi in trance, che davvero aspettai due minuti a fianco del c.t. prima di fare il giro dello stadio mentre in centomila fischiavano. Entrai da solo negli spogliatoi, mi misi a piangere cosi’ forte che cadevo sotto la doccia. Avevo intuito il seguito. Perchè quella non era solo una partita. Era la prima sfida Urss Italia, con noi erano venuti dieci parlamentari. La stampa mi inchiodò : “Vergogna”. Anche Brera, che dopo i due gol di Vienna all’Austria aveva scritto che ero l’ala sinistra più forte del mondo, chiese una punizione. Sul volo di ritorno mi misero in prima classe coi parlamentari, per evitare contatti coi giornalisti: nessuno mi rivolse la parola, solo un senatore comunista di Reggio mi fece coraggio, mi pare si chiamasse Ferioli. L’Uefa non mi squalificò, la federazione invece, pressata da politici e giornalisti, mi inflisse tre mesi di sospensione. A me non dissero nulla, ma a casa trovai mia moglie che piangeva, aveva sentito la notizia alla Tv“
Forse in pochi pensarono che i sovietici erano campioni in carica e pochi ricordano che arrivarono in finale, perdendo 2-1 contro la Spagna di Luis Suarez. Il dato è tratto. Quel suo modo rabbioso di giocare, per tirare fuori dalle viscere una forza sconosciuta che gli permetteva d’essere il migliore sotto porta, quel cazzotto finto (o vero, ancora oggi non si sa con certezza) l’hanno marchiato a fuoco come “cattivo”, marchio che da allora non si è più scrollato di dosso. In Nazionale è tornato, rimettendoci gambe e menischi, i suoi anni migliori, ma alla fine saranno solamente 17 le presenze e 8 i gol. Sono tante le botte che prende in campo per essere sempre lì, per fare gol, per prendere la palla prima degli avversari, botte che lo segnano e lo costringono a girare col gambone rigido. Come in Nazionale, anche nel Bologna deve smettere presto, il fisico a forza di scontri è logoro e appena trentenne deve lasciare, schiumante rabbia, quella vera e quella agonistica. Lui che avrebbe potuto, altrimenti, e voluto giocare ancora, a quei tempi chi era integro e forte poteva farlo.
Resta a Bologna e inizia subito ad allenare: a Pesaro, a Lugo, a Sassuolo, a Russi, ancora a Sassuolo dove nell’80 salva la squadra andando a vincere contro l’Ospitaletto di Maifredi. Tante partite e tante squalifiche per i suoi battibecchi con gli arbitri. Torna in rossoblù nell’85, fa l’osservatore ma per poco. Ritorna nel 1996 e porta a Bologna Binotto, Rinaldi, Ingesson, Ventola. Quando il ginocchio non gli da fastidio lo si vede ancora girare per le vie del centro, lui, buono come il pane, avvelenato da quel marchio: cattivo. Lui che nel ’62-63 fece impazzire Bologna segnando 12 gol in 10 domeniche consecutive (record poi battuto da Batistuta), ancora schiuma rabbia per un’etichetta ingiusta, lui bomber operaio che è assurto al paradiso del calcio grazie a quella foto che lo immortala in tuffo, mentre supera Burgnich e tutte le maldicenze.