1934 – Felice Borel: “E Meazza perse a poker il premio del Duce”

Uno splendido e commovente ricordo dei giorni “mondiali” del lontano 1934 raccontati da Felice Placido Borel nel 1986. Un testo pieno di sorprese e di rivelazioni anche sui rapporti con la nomenklatura fascista.

Felice Placido Borel II, detto Farfallino per quel suo singolare modo di ondeggiare le braccia, faceva parte di quel leggendario manipolo di calciatori che nel 1934 conquistò il titolo iridato.
A Palazzo Venezia ci venne incontro Starace. Ci disse ancora bravi, bravi ragazzi, siete stati grandi, avete onorato il nome dell’Italia, avete esaltato la Patria! Salimmo le scale, ci fecero entrare in un bellissimo salone. Adesso il Duce vi riceverà, ci disse ancora Starace. Il Duce vuole fare ad ognuno di voi personalmente un regalo. Esprimete un desiderio, il Duce vi accontenterà. Io vado di là, ritorno fra un quarto d’ora, intanto rischiaratevi le idee su ciò che desiderate. Starace sparì, restammo là a guardarci in faccia.
Che cosa potevamo chiedere? Io pensavo alla licenza della terza liceo che avevo mancato, Giampiero Combi fu più pratico: chiediamo la tessera ferroviaria a vita, così potremmo viaggiare senza pagare una lira. Ma non tutti erano d’accordo. Rimanemmo là a discutere sottovoce, perchè eravamo un po’ emozionati. Dopo venti minuti riapparve Starace. Il Duce non può venire, è impegnatissimo con l’ambasciatore di Gran Bretagna. Vi vedrà un’ altra volta. Però dovete ugualmente esternare il vostro desiderio che sarà esaudito. Allora, avete deciso? Ci fu un attimo di silenzio, poi dal fondo si levò la voce di Eraldo Monzeglio: vogliamo una foto del Duce con dedica! L’idea fu subito approvata. Io non vidi mai il Duce e nemmeno la sua foto con dedica. Ci arrivarono più tardi quelle di Starace e del generale Vaccaro. Avevo perso tutto, la tessera ferroviaria e la licenza della terza liceo. Ma eravamo campioni del mondo“.

Il mondiale cominciava alla fine di maggio. Pozzo aveva in mano la squadra, “ma chi comandava allora erano il generale Giorgio Vaccaro, astigiano, l’abbiamo seppellito qui, a Finale, anni fa, io e Ottorino Barassi. Pozzo tecnicamente non era un’aquila, ma sapeva fare con i calciatori, sapeva parlare e tenere unito il gruppo, sapeva infondere forza morale agli uomini. Andammo in ritiro a Roveta, sopra Firenze, una noia mortale, in attesa della prima partita, il 27 maggio con gli Stati Uniti a Roma. Uno scherzo, sette a uno. Il duro e le tensioni dovevano ancora arrivare. Noi si cercava qualche distrazione, così andavamo a mangiare nelle trattorie fiorentine, la terza sera andammo all’opera a sentire il Rigoletto con Toti dal Monte, ma la mattina dopo piombò Vaccaro a Roveta e ci fece un discorso rigido: non siete venuti qui per andare in trattoria, a teatro, per fare del turismo, ma per allenarvi a giocare e a vincere il campionato mondiale. Credo che ci siamo intesi! Era stato categorico. Ma ciò non spazzò via la noia. Io tentai una scorciatoia: una mattina dissi a Pozzo, commendatore vado fuori a farmi la barba. No, rispose lui, faremo venire qui il barbiere. E da quel giorno ci facevamo insaponare e radere sul campo. Quel ritiro a Roveta fu deprimente, non sapevamo che cosa fare, ma c’era chi, come Combi, Ferraris IV, Orsi, Schiavio, Meazza, passava ore e ore con il poker. Erano giocatori accaniti. Meazza ci rimise più di tutti“.

Quanto? “Almeno 25 mila lire, che sarebbero oggi oltre trenta milioni. Per fortuna che dopo si rifece“.

Come? “Col premio dei mondiali“.

Quanto? “Lui prese 25 mila lire, aveva sempre giocato. Io ne incassai solo 9“.

Un bel gruzzolo. Come nacque lo squadrone che macinò Austria e Cecoslovacchia nelle ultime due partite?
Pozzo sapeva scegliere, i giocatori gli credevano, anche se qualche volta si ribellavano. Combi, Monzeglio, Allemandi, Ferraris IV, Monti, Bertolini, Guaita, Meazza, Schiavio, Ferrari e Orsi, furono gli undici del successo. Ma prima avevano giocato anche Rosetta, Pizziolo, Demaria, Castellazzi, e contro la Grecia in marzo anche Ceresoli, Montesano, Fantoni II, Guarisi, Serantoni, Rocco. Fu il risultato di una scelta certosina, meditata, di sicurezza. I vecchi, Pozzo li preferiva, lasciò a terra solo Caligaris, e anche Rosetta“.

Dopo gli Stati Uniti giocammo con la Spagna il 31 maggio a Firenze. Una partita tremenda. La Spagna aveva il leggendario Zamora in porta, un terzino eccezionale come Quincoces, attaccanti formidabili come Regueiro e Langara. Ma noi avevamo Luisito Monti che fece fuori Zamora, su un corner, e un altro, forse Langara“.

Come fuori? “Sì, li sistemò, tant’è vero che nella ripetizione della partita, il giorno dopo (non erano bastati i supplementari per andare oltre l’uno a uno) nè Zamora, nè Langara, il centravanti, scesero in campo. Vincemmo con un gol di Meazza, su corner di Orsi. Meazza era entrato di testa con violenza sulla palla, mentre Demaria si portava via il portiere Nogues, che tutti chiamavano “palla di gomma”. Demaria ed io avevamo giocato al posto di Ferrari e Schiavio. Anche in difesa c’erano stati cambiamenti, Allemandi continuava a lamentarsi per la stanchezza, ma giocò. Era la terza partita in sei giorni. Io conoscevo bene Pozzo, la vigilia gli avevo detto: commendatore mi dica se gioco, perchè se so di giocare dormo tranquillo, se invece sono in dubbio non dormo tutta la notte. No, no, mi aveva risposto, vada a dormire che lei gioca. Caligaris era convinto di sostituire Allemandi. Negli spogliatoi, lui si svestì per primo. Entrò Pozzo e gli disse: ma che cosa fa? Lei non gioca. Caligaris, che aveva 33 anni, si mise a piangere“.

Per la semifinale con l’Austria, tradizionale bestia nera degli azzurri, Pozzo fece ricorso agli uomini che in quel momento gli offrivano maggiore affidamento come potenza, abilità di gioco e resistenza. L’Italia era una specie di squadrone corazzato. Ferraris IV aveva fatto un’ottima partita con la Spagna e Pozzo non rinunciò a lui. Rientrarono fra i rincalzi Demaria e Borel II, rispuntarono Schiavio e Giovanni Ferrari. L’ Austria incuteva rìspetto, qualche mese prima ci aveva rifilato un rotondo 4-2 a Torino, con sette juventini in campo, Combì, Rosetta, Caligaris, Monti, Bertolini, Cesarini e Ferrari.

Si è sempre detto che in quei mondiali gli arbitri ci hanno dato una mano. “La squadra di casa ha questo vantaggio innegabile. Lo svizzero Mercet ci arbitrò tre volte, e due lo svedese Eklind. Lo trovammo in semifinale: gli avevano detto: se arbitri bene fai anche la finale. Così fu. L’Austria dei Platzer, dei Sesta, degli Smistik, dei Sindelar, degli Zischek, dei Viertl fu messa in ginocchio da un gol un po’ fasullo di Guaita, qualcuno, forse Meazza portò via la palla dalle mani di Platzer in un’azione confusa, ne approfittò Guaita. Uno a zero dopo 19 minuti e non cambiò più.
L’Italia aveva fatto una grossa partita. Era il 3 giugno, avevamo giocato a Milano, dove Viri Rosetta era convinto di rientrare, di riprendersi il posto che Monzeglio gli aveva soffiato per ordine di Pozzo. Eliminata la Spagna a Firenze andammo a Milano il sabato, la vigilia del match con l’Austria. Ricordo che Pozzo era con gli osservatori, Burlando, De Vecchi e qualche altro quando chiamò Rosetta: venga qui che loro le diranno qualcosa dei nostri avversari di domani. Rosetta rispose: ma no, non ho bisogno di prediche, ho giocato venti volte contro gli austriaci, li conosco bene, che barba. Pozzo era buono, paterno con tutti, ma un po’ subiva le alte sfere. Il giorno dopo nella hall del Principe & Savoia arriva il generale Vaccaro, presidente della Federazione, e subito dopo Bruno e Vittorio Mussolini, che prendono da parte Vaccaro e Pozzo e si mettono a discutere.
Noi ci mettemmo a ridere e qualcuno disse: questi qui sono venuti a spingere per Monzeglio. A pranzo, alcune ore prima della partita, si sapeva subito chi avrebbe giocato. Pozzo aveva l’abitudine di schierare da un lato della lunga tavola gli undici che sarebbero scesi in campo, ognuno a suo posto col biglietto sul tavolo. Quel giorno erano in dodici, c’era anche Rosetta. Ma quando Viri si alzò per salire nella sua stanza per riposare brevemente e mettersi in tuta per andare allo stadio, Pozzo lo fermò: e lei dove va? Vado su a cambiarmi. No, lei non gioca mica. Rosetta non disse niente. Andò ugualmente nella sua stanza, fece la valigia e poche ore dopo era a Torino. Adesso che lo sa Starace succede la fine del mondo, disse qualcuno. Ma non successe nulla, semplicemente Rosetta non giocò più in nazionale“.

Dopo l’Austria trasferimento a Roma, grande paura e grande vittoria, la Cecoslovacchia, che aveva eliminato la Germania per 3-1, segnò con Puc al 71′.
Per noi fu un brutto momento, ma la squadra, sospinta da almeno 50 mila persone che affollavano lo Stadio del Partito, reagì splendidamente, anche se fu percossa da un brivido quando Sobotka, sull’uno a zero, prese in pieno un palo. Il pareggio venne da Orsi all’81’, un tiro incredibile, spettacoloso per forza e precisione, di destro. Andammo ai supplementari, dopo cinque minuti Guaita indovinò un suggerimento per Schiavio e non perse l’ occasione. Lo stupendo Planicka non ce la fece“.
L’Italia era campione del mondo.

Fonte: testo raccolto da Aldo Pacor, 1986