Rino Ferrario, soprannominato “mobilia” per la stazza notevole, collezionò solo 10 presenze in Nazionale. L’ultima proprio nella famigerata sfida a Belfast che costò il posto ai Mondiali del 1958
A Stoccolma doveva esplodere il fiabesco Brasile che con i suoi Pelè, Vavà, Didì più che una squadra di calcio rievocava i maliziosi appelli di Chevalier-Danilo nella “Vedova allegra” alle sue leggiadre e disponibili amichette. A Stoccolma non doveva mai approdare la rappresentativa d’Italia irrobustita, si fa per dire, da un nugolo di oriundi. Erano gli anni Cinquanta, la Penisola subiva un pò incantata, un pò sbalordita, un pò sconcertata l’invasione della legione straniera della pedata, le incursioni più o meno felici di probabili e improbabili oriundi che in massa venivano prelevati dagli alveari sudamericani.
Il calcio nostrano viveva un pigro e ammirato letargo: lo spettacolo era riservato agli assi che si calavano nella povera Italia, ancora faticosamente impegnata nella ricostruzione della propria economia.
Ma i quattrini per le scarpe bullonate non mancavano mai. Ci piombavano addosso stranieri e oriundi e nel contempo s’accendevano dispute furibonde sulle tattiche da applicare in campo, il “sistema” inglese stava traballando, Foni aveva vinto due scudetti con l’Inter nel ’53 e ’54 con il battitore libero. Prima ancora, nel ’50, Jesse Carver aveva dato l’ottavo scudetto alla Juve richiamando l’ala destra Muccinelli a protezione della retroguardia. A spintoni e gomitate il “catenaccio” si stava facendo strada nelle formazioni di club. Non nella nazionale, impegnata sino allo stremo a difendere le sacre tradizioni.
Scivolati malamente al primo impatto coi mondiali del ’50 in Brasile e del ’54 in Svizzera, gli azzurri, confortati dal supporto qualitativo degli oriundi (Ghiggia, Pesaola, Schiaffino, Montuori, Da Costa), affrontarono con notevole dose di buona volontà la nuova avventura iridata che si sarebbe concentrata in Svezia, sbrigate le formalità preliminari che li vedevano opposti al Portogallo e all’Irlanda del Nord. Due scoglietti, per il calcio milionario del Bel Paese. Lo chiamavano “Mobilia”, perchè aveva in campo l’ aspetto invalicabile di un enorme armadio di massello. Rinone Ferrario, simpatico personaggio del football irrequieto e confusionario di quei tempi, brianzolo trapiantato all’ombra della Mole, classe 1926, rivendica una lunga milizia juventina come poderoso, talvolta sgraziato, ma sempre deciso e minaccioso stopper di professione.
“Non era facile superarmi, perchè io ero velocissimo nonostante il fisico imponente. Col sistema bisognava essere veloci per fare il centrosostegno, altrimenti il centravanti ti andava via da tutte le parti. C’erano attaccanti come Vinicio, Jeppson, Da Costa in possesso di uno scatto bruciante. Se non eri veloce, ti saluto caro. E fu per questo che sostituii il grande Parola nella Juve. Lui non era adatto al sistema. Con l’immensa classe che aveva sarebbe potuto diventare il più grande libero del mondo, o mediano“.
Caro Ferrario, lei ha vissuto in prima persona quel disgraziato mondiale del ’58, quando per la prima, e ultima volta nella sua storia, il calcio italiano non ha potuto partecipare alla fase finale di un campionato del mondo. In Svezia noi non c’eravamo.
“Sì, il fango di Belfast fu il sepolcro di quella nazionale. Peccato, perchè non era male, anche se studiata in maniera un pò empirica, ma allora il calcio era diretto a quel modo.
Se qualcuno fosse andato a Belfast tre giorni prima di quella famigerata partita si sarebbe accorto che il che il campo era una laguna di fango e così si sarebbe regolato. Perchè in effetti, gli oriundi che avevamo con noi in quella circostanza, Ghiggia, Schiaffino, Montuori e Da Costa erano giocatori squisiti, Schiaffino è stato uno dei più bravi che ho mai visto nella mia vita, ma non erano tagliati per i campi pesanti, dove servivano randellatori, gente robusta, che martellava sul pallone“.
Con gli irlandesi l’Italia giocò tre volte. Fu determinante, paradossalmente, la seconda partita, che fu un’amichevole, ma che doveva essere quella buona. Andò così: l’Italia aveva vinto nell’aprile del ’57 con l’Irlanda del Nord uno a zero a Roma, gol di Cervato, il ritorno era fissato per il 4 dicembre dello stesso anno al Windsor Park di Belfast. La squadra azzurra vi giunse regolarmente, ma la nebbia bloccò a Londra l’arbitro ungherese Zsolt. Crisi. Che cosa si fa? Gli irlandesi proposero un loro arbitro internazionale, Mitchell.
“I nostri dirigenti – osserva Ferrario – commisero un grosso errore, accettarono Mitchell, ma a patto che il match fosse considerato amichevole. C’erano oltre cinquantamila spettatori che fremevano sulle gradinate. Per me si doveva giocare ugualmente, anche con un arbitro irlandese. Ci bastava il pareggio e infatti terminò 2-2, dopo essere stati due volte in vantaggio con Ghiggia e Montuori. Fu un incontro inutile che si concluse con le scene più allucinanti che io abbia visto su un campo di calcio alla fine di una partita. Una rissa gigantesca, anzi più che rissa una caccia all’uomo pazzesca nel caos più totale“.
Ma perchè?
“Non l’ho mai capito. A distanza di tempo posso pensare che vi siano intervenuti fattori religiosi, noi cattolici loro in gran parte protestanti, noi papisti loro antipapisti, che ne so. Eppure in campo le cose erano andate abbastanza liscie. Io marcavo il centravanti McAdams, ma senza cattiveria. Nella mia carriera non sono mai stato espulso dal campo per scorrettezze, anche se le mie entrate qualche volta erano scoordinate, ma non entravo mai per far male. Ero focoso, pesante qualche volta, ma onesto. Non lo so che cosa volevano, fatto sta che me li sono visti arrivare addosso. Finita la partita ci trovammo in una marea di folla, non era stata un’invasione vera e propria, ma quelli ci stavano picchiando. I miei compagni fuggirono per primi. Io stavo andando verso lo spogliatoio a fianco di Danny Blanchflower, grandissimo giocatore, mediano delizioso, persona civile. All’improvviso mi vedo addosso prima uno, poi due, tre, quattro, cinque energumeni. Era un’aggressione in piena regola, intrisa di animosità, di odio, non lo so perchè. Mi ritrovo nel mucchio, vedo un poliziotto e lo abbraccio per sottrarmi alla furia di quegli indemoniati. Macchè, naturalmente le prendo, ma le restituisco. Anch’io meno botte da orbi. Non so dove andare, dove correre, in quell’ inferno perdo anche il senso dell’ orientamento, non so dove sia l’ingresso dello spogliatoio. Una cosa che non ho mai provato in vita mia, sì anche paura“.
E la seconda partita?
“Giocammo il 15 gennaio sempre al Windsor Park. Ancora fango, come la prima volta, tanto fango. Ricordo che entrando in campo feci un giro e per caso vidi qualcosa luccicare sul terreno. Mi chinai. Era la medaglietta d’ oro che il presidente Moratti mi aveva regalato nel ’56 per la nascita del mio primo figlio. Mi aveva donato catenina e medaglietta. La portavo al collo nella prima partita, quella amichevole. In una delle tante mischie, catenina e medaglietta sparirono. Ritrovai la medaglietta con la madonna. Questo mi mise subito di buonumore“.
Un segno del destino, un buon auspicio?
“Non lo so, ma in quel senso fui fortunato“. Slaccia un bottone della camicia: “Eccola, uguale, identica a questa“. Non è bastata. “Dovevamo come minimo pareggiare, abbiamo dominato gran parte dell’ incontro, anche se Ghiggia fu espulso a una ventina di minuti dalla fine dall’ arbitro Zsolt che quella volta era arrivato per precauzione qualche giorno prima a Belfast. Anche se avevamo dentro quattro oriundi. La formazione era questa: Bugatti, Vincenzi, Corradi, Invernizzi, Ferrario, Segato, Ghiggia, Schiaffino, Pivatelli, Montuori e Da Costa. Avremmo dovuto giocare col libero, quattro oriundi erano troppi. Ma Foni, che era una persona di un’onestà cristallina, non ebbe coraggio di andare controcorrente“.
E la folla di nuovo contro?
“Macchè, tutto perfetto, partita magnifica, il terrore dimenticato. Prendemmo due gol balordi. Dovevamo vincere, Ghiggia aveva anche preso un palo. Niente. Ritrovai la medaglietta con la Madonna, ma smarrimmo definitivamente la speranza di andare in Svezia“.