Stagione 1956-57. Campionato di calcio di serie A. Torino anni Cinquanta: una squadra in lenta risalita dopo l’immane tragedia di Superga.
Sono trascorsi sette anni da quel tragico 4 maggio 1949; il Grande Torino non c’è più. Il presidentissimo Novo aveva cercato di ricostruire quella mitica squadra con la solita proverbiale determinazione, ma anche con eccessiva foga. Tanti allenatori si sono avvicendati sulla panchina che fu del grande Erbstein. Tanti giocatori, tra cui molti stranieri, hanno cercato di imitare le gesta dei Campionissimi, andando a solcare il manto erboso del mitico stadio Filadelfia, la “Fossa dei Leoni” lo chiamano. Invano. Alla fine anche Novo ha dovuto abdicare.
Governato da caotiche e spesso impreparate dirigenze, ossessionato dallo spettro di una crisi economica, sfiduciato dalla sua tifoseria, il Torino si appresta a iniziare la stagione con una nuova dirigenza e con l’imperante obbligo di allestire una formazione in grado di navigare senza troppi affanni in un campionato dominato dall’affarismo e dalla potenza economica delle squadre milanesi.Partito Annibale Frossi, l’indimenticabile “Dottor Sottile”, così chiamato per le sue alchimie tattiche e per le sue tenaci convinzioni nel ritenere lo 0-0 la summa di ogni risultato, andato ad allenare l’Internazionale del petroliere Angelo Moratti, la società granata opta per una sua antica bandiera: Fioravante Baldi.
Quarantatreenne, Baldi, da giocatore, aveva vestito la maglia granata per nove stagioni e aveva vinto l’accoppiata scudetto e Coppa Italia nella stagione 1942-43.L’estate fila via portandosi dietro tragiche e dolorose notizie: la morte per infarto di Giampiero Combi, il mitico portiere campione del mondo con l’Italia di Vittorio Pozzo nel 1934, l’affondamento dell’Andrea Doria, il dramma dei minatori di Marcinelle.
Intanto, scelto l’allenatore, la dirigenza granata opera una campagna acquisti di grande prestigio: per primo, direttamente dalle terre argentine, arriva Juan Carlos Tacchi, un’ala sinistra veloce e pungente. Dal Milan viene acquistato l’oriundo Eduardo Ricagni, un autentico fuoriclasse, un artista del pallone con un passato in bianconero. Dal Novara giunge l’indio paraguaiano Dioniso Arce, un attaccante istintivo ed esplosivo e sin troppo rissoso. E poi altri nomi affermati: l’alessandrino Gino Armani, la prima vera ala tornante del calcio italiano, due scudetti con l’Internazionale di Foni nei primi anni Cinquanta, e il versatile difensore friulano Gianfranco Ganzer, acquistato ancora dal Milan.
Ottimi giocatori che vanno a integrare una rosa già forte e grintosa, capitanata dal trentatreenne Piero Grosso, un centromediano di antica forgia, lento nel passo, ma saggio nelle giocate.Infine, a campionato ormai iniziato, il fiore all’occhiello della squadra: con un contratto a gettoni, ecco lo svedese Hans “Hasse” Jeppson, centravanti aitante e opportunista, forte tecnicamente, che, scaricato dal Napoli, arriva a 32 anni sotto l’ombra della Mole in cerca di una personale rivincita.
Può bastare per battersi a forze pari con le squadre più titolate del campionato: la neo-scudettata Fiorentina di Julinho e Montuori, il Milan di Liedholm e Schiaffino, l’Inter di Skoglund e “Veleno” Lorenzi, la Roma di Nordhal e Ghiggia e la Juventus di Boniperti e Hamrin. Un torneo che si preannuncia ricco di interessi e assai spettacolare, nobilitato dalla presenza di gloriose stelle mondiali e di futuri campioni, a cui, però, non fa da contraltare la condotta della Nazionale italiana di Alfredo Foni, impostata sul blocco della Fiorentina e sul costante apporto degli oriundi. Il modulo tattico “catenacciaro” e alquanto cervellotico di Foni non riesce ad avere la meglio su formazioni internazionali meno dotate tecnicamente, ma più aggressive e spigliate nella manovra.
Nel maggio del 1957, a Zagabria, in un incontro valevole per la Coppa Internazionale, la nostra Nazionale viene umiliata dalla Jugoslava con un sonoro 1-6! E la Fiorentina, allenata da Fulvio Bernardini, nella finale di Coppa dei Campioni, viene nettamente superata per 0-2 dal Real Madrid del grande Alfredo Di Stefano, la “Saeta rubia”. In Italia, a quei tempi, il motto degli allenatori era: “Massimo risultato con minimo sforzo”. Ma non sempre, purtroppo, finiva così…
Coinvolto nei vari guazzabugli tattici del periodo (Metodo o Sistema? Catenaccio o Vianema? Terzino volante o no?) anche il tecnico granata Baldi non riesce a dare una identità di gioco alla sua squadra; nelle prime prestazioni Jeppson appare sempre sfiduciato e svogliato, quasi nostalgico del sole napoletano, e Ricagni e Tacchi non riescono a dare continuità alle loro giocate. Al termine del girone d’andata il Torino si trova miseramente sul fondo della classifica. L’inverno trascorre con le tragiche notizie provenienti dall’Ungheria dove il desiderio di libertà di un popolo viene represso nel sangue dall’intervento dei carri armati sovietici.
Molti giocatori della gloriosa squadra dell’Honved di Budapest, tra i quali anche Ferenc Puskas, il giocatore più forte al mondo, fuggono all’estero e chiedono asilo politico. E a Porto Said, in Egitto, si respira aria di guerra: le truppe anglo-francesi intervengono per occupare militarmente il canale di Suez che gli egiziani vogliono nazionalizzare, scatenando la reazione dell’Unione Sovietica. Si rischia un’altra guerra mondiale, proprio quando a Melbourne si stanno svolgendo con grande successo di pubblico i Giochi olimpici nel nome della fratellanza fra i vari popoli. Il portiere russo Lev Jascin, il “Ragno nero” lo chiamano per le sue lunghe estremità, è fra i protagonisti della manifestazione.
Intanto, esonerato Baldi, il timone della squadra granata passa a Blagoje Mosè Marjanovic, professore di calcio dell’università di Belgrado, ex tecnico della Nazionale jugoslava, appartenente all’antica e prestigiosa scuola danubiana, allora imperante. Personaggio schivo, ma determinato questo Marjanovic. Sempre con la sigaretta tra le labbra, munito dell’inseparabile basco, seguito come da un’ombra dal suo traduttore, Marjanovic organizza la squadra secondo il suo credo calcistico: modulo a Sistema con pochi e semplici schemi tattici che il giocatore deve conoscere a memoria eseguendoli ripetutamente in allenamento e sempre a grande velocità.
Il tecnico slavo conferma la fiducia ai campioni della squadra e affida la regia a un giovane talento proveniente dalle giovanili granata: quel Romano Fogli (il “Bocia”, il “Ragazzo” in piemontese, per l’appunto) mediano di tecnica e fosforo che con le sue giocate eleganti e lineari, nonostante i 18 anni da poco compiuti, sa dare un gioco e un’identità a tutto il centrocampo granata. Scrive di lui Ilo Bianchi su Tuttosport: “Fogli è uno di quei ragazzi che ha il calcio nel sangue, così istintivo è il suo intervento, così chiara la sua visione di gioco…”
Come per magia, la squadra si compatta, ritrova carattere e serenità e risale rapidamente la china. Jeppson ritorna a essere lo spietato realizzatore tanto ammirato in passato, così come Ricagni e Tacchi concretizzano finalmente la loro classe. Ma sono anche tutti gli altri giocatori del Toro, i veri “operai” della squadra, coloro che incarnano il vero “Cuore granata”, a rianimare l’ambiente: il portiere Rigamonti, i terzini Cuscela, Grava e Brancaleone, i mediani Rimbaldo e Bodi, l’ala Bertoloni, la mezz’ala Pellis, il centravanti Bacci… Come per incanto, vengono inanellate quattro vittorie di seguito, tra cui il derby di ritorno per 4-1, vengono fermati sul pareggio Milan e Napoli e, all’ultima giornata, viene superata l’Udinese per 3-1.
Il campionato, dominato da un Milan giovane e frizzante, è concluso al quinto posto, davanti ai cugini bianconeri. Era da quel lontano 1949 che non capitava. Il “Bocia” Fogli entra definitivamente nel firmamento calcistico, iniziando una prestigiosa carriera che lo porterà, in seguito, a vestire la maglia della Nazionale e a conquistare scudetti e coppe internazionali con Bologna e Milan, le sue future squadre di appartenenza.
In questo libro, tutte le passioni sportive, non solo calcistiche, di quella magica stagione: i Giochi olimpici di Melbourne, la bagarre ciclistica con gli italiani Defilippis, Nencini e Baldini come protagonisti e con il declino di Fausto Coppi, la tragedia della Mille Miglia con il terribile incidente del pilota spagnolo De Portago, i grandi pugili americani dell’epoca, il duello in Formula 1 tra l’argentino Manuel Fangio e l’inglese Stirling Moss. E poi tante altre curiosità: l’affermarsi della televisione, l’inizio del boom economico, i successi della Fiat 600 e della Vespa, gli albori della beat generation, i nuovi miti dello spettacolo, le mode artistiche del momento. Il tutto per dare un panorama completo di quell’indimenticabile stagione a tinte granata, nella quale i vecchi tifosi del Filadelfia possono rivivere nuovamente le antiche sensazioni provate con il Grande Torino.
Paolo Ferrero
Un bòcia tra le stelle. Quel Toro del ’57
Bradipolibri, 2007
pp. 128