FLAVIO COSTA: Travolto al Maracanà da un crudele destino

Flávio Rodrigues da Costa, detto Flávio Costa, morì alla fine del 1999, all’età di 93 anni, con una bella vita e una bella carriera alle spalle ma con un enorme, incancellabile rimpianto, lo stesso del suo portiere Barbosa: quella maledetta sfida decisiva (non era la finale) per il titolo mondiale del 1950 persa al Maracanà 2-1 con l’Uruguay. Non volle parlarne per anni, e quando lo fece dedicò a quella pagina nerissima nella storia di tutto il Brasile solo poche parole cariche di amarezza: «Foi o imponderavel que liquidou todas as nossas pretenções», (è stato l’imponderabile che ha liquidato tutte le nostre ambizioni).

Si poteva fare qualcosa per evitare quella sconfitta, anzi quella tragedia nazionale? Deve esserselo chiesto mille volte senza trovare una risposta. In panchina c’era lui, avrebbe dovuto governare la situazione con freddezza c maturità, invece… Ma era scritto nel suo DNA calcistico che il Brasile dovesse attaccare, tutti avanti a cercare il successo prestigioso una goleada, per accelerare ì tempi della festa, di un Carnevale fuori stagione che Rio de Janeiro aveva già preparato e che non ammetteva rinvii nè cancellazioni

Ricordate la formula? Quel Mondiale non era stato concepito con l’eliminazione diretta, ma con un girone finale a quattro. Nelle prime due partite il Brasile aveva fatto a pezzi la Svezia (7-1) e la Spagna (6-1), mentre l’Uruguay aveva acciuffato per i capelli un 2-2 con gli spagnoli e vinto fortunosamente con gli svedesi, che lo superavano per 2-1 a una dozzina di minuti dalla fine ed erano finiti beffati per 3-2 da una doppietta di Miguez.

Dunque, all’ultima giornata, le sirene del Maracanà erano pronte cantare: ai brasiliani (4 punti contro 3) bastava perfino il pareggio per portarsi a casa la coppa Rimet. Si poteva gestire la partita, si poteva… Ma figurati: il Brasile segnò all’inizio della ripresa con Friaca, poi fu raggiunto e superato da Schiaffino e Ghiggia. Fino a dodici minuti dalla fine il titolo mondiale era ancora suo, poi solo lacrime, disperazione, suicidi.

E l’impotenza di Flavio Costa, il generale solo in panchina che non era riuscito ad evitare la catastrofe. Quella finale segnò l’inizio della fine nella carriera di Flavio Costa, che sarebbe tornato ad allenare anche la Nazionale – nel ’55 -, ma sempre portandosi dietro il peso di quella disfatta.

Eppure da tecnico aveva bruciato le tappe, trasformandosi subito nel simbolo del successo: aveva iniziato ad allenare nel 1934, a ventotto anni, e nel 1944 era già il responsabile della Nazionale in cui avrebbe resistito per ben sei anni: un record già allora per il calcio brasiliano, abituato da sempre a bruciare i responsabili della Seleção come fiammiferi. Costa era arrivato a dirigere il Brasile a furor di popolo, spinto dalle grandi imprese compiute col Flamengo (4 titoli statali, di cui 3 consecutivi) e dal suo formidabile intuito. Era uno studioso, ed è ricordato ancora oggi come un rivoluzionario: istituì per la prima volta il “Departamento de futebol“, con un organigramma teso a studiare tutte le esigenze di una squadra di calcio.

Cominciò come assistente di Dori Kreuschner, che dall’Europa aveva portato in Brasile il modulo tattico WM (il Sistema ideato da Chapman in Inghilterra), e si applicò a fondo per superare il maestro e perfezionarne gli schemi. Le sue squadre si sono sempre basate sull’attacco: dovevano sempre segnare un gol in più degli avversari. Secondo alcuni fu questa la concezione che portò alla malora il Brasile contro l’Uruguay, ma oggi non è più tempo per le recriminazioni, e del resto il Brasile (vedi Sarrià 1982) ha pagato mille altri pesanti tributi alla sua scanzonata vocazione al suicidio tattico.

Costa aveva una personalità forte, si faceva rispettare dai giocatori con le buone o con le cattive, ma in generale imponeva rispetto e ammirazione, non aveva bisogno di alzare la voce per imporre le sue idee perchè molti lo consideravano uno stratega astuto, geniale. Conquistò il “tricampeonato”, 3 titoli consecutivi dello stato di Rio dal ’42 al ’44, dopo aver perso la stella Leonidas passata al San Paolo. Il suo Flamengo (con cui aveva vinto un campionato da giocatore nel ’27) poteva anche essere un po’ distratto in difesa, ma demoliva gli avversari a suon di gol: 87 in 27 partite nel ’42, con una media impressionante di 3,22 reti a partita; 51 nel ’43; 50 nel ’44, quando la stagione si era aperta con la partenza di un altro asso, Domingos da Guia, ceduto al Corinthians.

Flavio Costa continuò a vincere anche quando passò al Vasco da Gama. Con lui crebbe e acquistò dimensione internazionale l'”Espresso della Vittoria”, come veniva chiamato in quegli anni il Vasco: ancora oggi la sede ospita il modello di una locomotiva che veniva esposto insieme alle coppe e ai trofei. Si aggiudicò il primo campionato sudamericano per club (organizzato nel 1948 in Cile) superando il favoloso River Plate di Di Stefano e Labruna, e in patria si specializzò nel vincere campionati imbattuto.

Costa aveva i giocatori, ma anche l’intelligenza superiore del tecnico che vedeva e capiva prima degli altri. Come nella super-sfida del campionato carioca 1949 contro il Flamengo, una classica chiamata “il derby dei milioni” per la presenza di tanti super-calciatori. Dal quartier generale del Flamengo avevano annunciato una marcatura speciale per Ademir, l’attaccante più pericoloso del Vasco. Costa non ci pensò due volte: piazzò il trequartista Maneca a fare la prima punta arretrando la posizione di Ademir a centrocampo. Nessuno se l’aspettava, nessuno riuscì a preparare adeguate contromisure. Il Vasco – in svantaggio per 2-0 – ostentò la calma olimpica del suo allenatore e stravinse per 5-2 volando verso il titolo. Un’altra impresa magica di Flavio Costa. Era il 21 agosto 1949: poco meno di un anno dopo gli sarebbe piovuta tra capo e collo la sventura del Maracanà…