FRANCO TANCREDI – Intervista gennaio 1980

L’allievo ha superato il maestro e adesso, il portierino di Giulianova è finalmente un uomo felice. Alla Roma lo invidiano persino i laziali e Nils Liedholm può dormire sonni tranquilli

Il successore di Zoff

ROMA. La memoria, corta o lunga che sia, non è un merito, scriveva Orio Vergani. E’ quanto ci viene portato in eredità dal fardello degli anni: noi siamo delle ostriche e la memoria è la nostra perla… Mi accosto a Franco Tancredi, detto il Jongbloed della Roma «zonarola» collocata al terzo posto, e scopro che forse Vergani sbagliava. Chi ricorda più con ammirazione e malinconia. Paolo Conti, in questa nostra nuova città stravolta dall’isolamento sospettoso e dall’angoscia del quotidiano, in questa capitale sfigurata che somiglia sempre più agli ultimi quartieri spaventosi di Milano o di Detroit, neppure ormai distinta dalle maniere della gente o dalla sua lingua, un neo-romanesco pretino con la desinenza finale in salita, come in un idioma di Buri? Solo Tancredi, inurbato di Giulianova, portiere dell’anno insieme a Corti e a Piotti, dopo aver creduto di morire calcisticamente da uomo-panchina, ha la certezza che ogni due domeniche si rinnovi all’Olimpico una grande festa popolare, simile ad un Carnevale di Via Condotti o ad un passaggio per Borgo Pio del Papa sulla sedia gestatoria. Piace all’aristocrazia e alla plebe, ai ceti medi e al contado; piace ai laziali che già cominciano ad avere dubbi su Cacciatori e vedendolo di straforo alla televisione sospirano: «Nonostante sia un giallorosso, quel Tancredi lì è un olandese, un “Mandrake” della porta. Andrà in Nazionale, sarà l’erede di Zoff. Liedholm ha visto giusto! Come mai nessuno si era accorto prima del fenomeno?».

VISIONE. Forse per questo, mentre racconta la sua favola, che racchiude stagioni di incubi e di silenzi, l’eversore di Paolo Conti indugia in una sola debolezza: «Mi piace soprattutto la partita in casa, a Roma, dopo la benedizione dalla finestra di San Pietro, a mezzogiorno, di Giovanni Paolo II … A Roma, la domenica, le campane suonano ancora, a tocchi, a tocchi… Non suonano più? Non è vero! Vogliamo scommettere… Io le sento e mi preparo al rito. Torno in campo e vedo gli striscioni, le bandiere. A me l’Olimpico sembra sempre stracolmo, entusiasta, indiavolato… Sono un visionario? C’è lo spaventoso calo degli spettatori in ogni stadio? A me non risulta. Mi sento beato, lasciatemi coi sogni e la beatitudine. E’ bello salutare la moglie e dire: vado a lavorare nella mia porta e stasera torno, andiamo a cena».

PREDIZIONE. Perdonatelo, ammiratelo con simpatia, come finalmente riesce anche a Paolo Conti. E’ venuto alla ribalta grazie al coraggio di Liedholm, deciso ad operare secondo giustizia, sopprimendo i tormenti che gli procurava l’idea di mettere da parte il vice Zoff riconosciuto e conclamato, il Paolo Conti con le mani come tenaglie e i baffoni alla Gengis Khan. Prima che l’evento si verificasse, raccontano che il mister della «zona» avesse perso il sonno, l’abituale «fair play» … Una volta, nel ritiro di Brunico, disse: «Se potessi, ricaverei il portiere ideale della Roma, dall’esperienza a grande livello di Paolo Conti e dall’acrobazia nonché dalle doti naturali del suo “secondo”… Non ho mai visto una riserva che para i rigori, che para tutto, come il mio Tancredi…».

SUCCESSIONE. Erano i primi segni premonitori, eppure i fans della Roma e di Paolo Conti pensavano non potesse accadere nulla, si ostinavano a ritenere il titolare un inamovibile. Dal «pasticcio», Nils Liedholm è riuscito ad emergere domenica 20 ottobre 1979, ad Udine, consumata una settimana di tormenti e polemiche, di piccole, grandi bugie. E’ stato in quella domenica che Tancredi, ventiquattrenne uomo-panchina, ha preso la maglia celebre di Paolo Conti e non l’ha mollata più. E adesso? Adesso, dopo aver incantato San Siro, dopo che i milanisti non hanno creduto ai loro occhi, Franco Tancredi si concede le prime debolezze, i racconti autobiografici, i primi sollievi da personaggio, confortato dal pubblico.

RICORDI. Vuole spiegare alla sua maniera che l’ambiente in cui si è immerso, in cui attualmente sogna, è una specie di luna-park e si va giù e su dalla giostra con crudele disinvoltura. Vuole non dimenticare la sua parabola di uomo-panchina, uscito dalla scatola a sorpresa delle decisioni dello scorso ottobre, al prezzo di accantonare il titolare famoso e già da molto nel giro della Nazionale. E’ stata dura? Ha sofferto pene indicibili e umiliazioni traumatizzanti, Franco Tancredi, prima di uscire dal tunnel, di vedere il sole? La domanda ottiene una risposta che è forse la chiave per capire il segreto della sua bravura, la cifra della sua saldezza morale, di quei nervi d’acciaio che lo privilegiano. «No, non ho sofferto mai… Ogni giorno per me era domenica, ogni allenamento era una partita. Solo così potevo resistere senza dover ricorrere allo psicanalista. Non ho mai dato i numeri, non ho mai perso la calma. Dal lunedì al sabato, m’inventavo le mie feste, le mie domeniche private. Ed ero sempre pronto ed effettuavo balzi a ripetizione, in tante prove senza applausi. Sono a Roma ormai da più di tre anni ed è stato sempre così… Ci vuole un po’ di fantasia e bisogna sapersi accontentare. Mi ha aiutato la tenacia del provinciale, una capacità di adattamento che mi porto dentro. A casa, ad esempio, io so fare di tutto. Aggiusto la televisione, riparo le guarnizioni del lavandino, sostituisco le lampadine fulminate… Specialmente prima, dovevamo essere oculati, dovevamo risparmiare, non potevamo buttar via i soldi… E per mia moglie sono sempre stato importante; sono quello di sempre, per lei…».

VOCAZIONE. Non si è mai sentito un martire, un derubato, uno che aveva urgente necessità di chiedere la grazia, di farsi benedire in qualche abbazia, di farsi togliere il malocchio. Parate e parate inutili: non un rigo sui giornali, non una fotografia a fissare attimi magici da kamikaze, colpi di reni assatanati, quella maniera specialissima che ha d’inarcarsi o di scattare davanti a chi arriva in solitudine per ipnotizzarlo, per fargli sparire lo specchio della porta. «Inutili? – si chiede. – Sarà, ma non ci ho mai pensato. Sono un innamorato del mestiere e le soddisfazioni le ho avute. Per me, non c’è differenza tra una grande parata in allenamento e una prodezza in partita. E’ la mia mentalità. Io non ho mai fatto nessun mestiere: solo il portiere. Ho studiato a Giulianova fino al quarto ragioneria, poi basta… Un giorno mi sono trovato a sostituire il portiere titolare di un torneo balneare, così, come mesi fa mi capitò di sostituire Paolo Conti… Avevo 14 anni e sono andato avanti… Io paro così da sempre, anche se l’esperienza mi è cresciuta dentro guardando due “super” come Albertosi e Conti. Stare dietro a loro, in epoche diverse, è stata la mia grande fortuna. Come potevo pensare di prendere a spallate la loro posizione, il prestigio che avevano giustamente conseguito?».

EQUIVALENZA. Due anni al Giulianova eppoi il Milan, dal 1974 al 1976. Nel clan rossonero dovrebbe sentirsi inutile, non compare mai, non archivia una sola prestazione. Nella stagione successiva passa al Rimini e si sfoga a parare in provincia, e scopre che anche una piccola tribù può essere un universo per un uomo che ha famiglia, che deve guadagnare con le mani, coi riflessi, coi nervi d’acciaio. Sì, ma la gloria? «Io non so cosa sia la gloria e se esista. Per me è una finzione, una messinscena. E’ tutto relativo, su questa terra. E poi, come si può giudicare se una parata-miracolo effettuata nella Roma vale meno ed è di minore soddisfazione della medesima parata buttata lì nel Rimini o nel Siracusa, all’oratorio o in Sezie Z? Le parate sono parate e basta. Ad ogni latitudine: davanti a quattro gatti o a centomila persone. Così, le mie piccole soddisfazioni, le ho avute girovagando in Serie B e C, a parte le Nazionali minori».

SCELTA. Venne a Roma senza dare nell’occhio. I diaristi da allenamento lo giudicavano esile, timido, avvolto nella iella del predestinato, del perdente a vita… Adesso che il film della sua carriera ad impennate è in pieno svolgimento, riusciamo a capire che ad un tavolo di poker spennerebbe chiunque, perché ha la tranquillità e la freddezza del giocatore d’azzardo. Non si è seduto mai in panchina come sui carboni ardenti: per mesi e mesi ha memorizzato, ha annotato, ha calcolato, ha guardato… E se in queste settimane lo sollecitano, non riesce a cantare vittoria. Afferma: «Potrei tornare dietro le quinte da un momento all’altro. Ho solo piena coscienza dei miei mezzi, ma non giudico quasi mai la concorrenza. Il mio prossimo. Paolo Conti? E’ un grande del ruolo, merita una grande squadra. Penso che a fine annata, tra me e lui, la società debba scegliere. Penso solo questo. Certo, a me spiacerebbe andare via… Mi sento romano: Roma, di domenica, è piena di suggestioni, di emozioni, di profumi. A Roma, c’è un’aria di festa come da nessun’altra parte. La solidarietà e l’allegria dei romani, mi hanno arricchito…».

PRESENTIMENTO. Poi, i ringraziamenti al mister: è il passaggio obbligato di ogni intervista da portiere-copertina. «Prima che iniziasse il campionato mi aveva fatto capire, mi aveva raccomandato di restare concentrato, di non abbandonarmi mai. Capisco la situazione, ci mancherebbe altro… Però, sentivo dentro che qualcosa d’importante poteva verificarsi… Prima dell’arrivo di Liedholm, avevo chiesto d’ andarmene. Mi aveva richiesto qualche squadra di B; pensavo che la Serie B fosse il mio acquario, l’ambiente naturale. Invece…». Invece eccolo carico di onori. Giurano che finalmente la «zona» della Roma funzioni grazie a lui, l’«olandese» di Giulianova, il Jongbloed spericolato dì tante prestazioni. Di Paolo Conti, prega di voler credere «che è sempre stato un amico, mi ha dato spesso utili consigli». E aggiunge: «Gli auguro di riprendersi il posto importante che merita, qui o altrove…».

SEMPRE FESTA. Chi ricorda più Paolo Conti? I romanisti della Curva Sud, i signorini che vanno in Tribuna Monte Mario, hanno smesso perfino di commiserarlo, di intenerirsi per la sua vicenda di protagonista decaduto. E’ Franco Tancredi a tenere banco. Mi dice: «Non posso permettermi il lusso di avere rimorsi, anche se a volte vorrei averli. A Paolo auguro di riprendersi. Ha attraversato un brutto periodo sotto il profilo psicologico… Ma non ha chiuso col successo…».
E torna al campo, gatto magico che non smette mai di meravigliare Liedholm. «Non so quali siano i confini della bravura di Tancredi – ammette il Barone – Voi riuscite ad individuarli?…». No, nessuno si azzarda a specificare dove potrà arrivare, l’ex panchinaro di Giulianova. E lui spiega soltanto che adesso le settimane sono composte di sette domeniche. E’ mai esistito a Roma, un portiere così beato?