Stranieri d’Italia: G

GASCOIGNE – GERMANO – GHIGGIA – GREN – GRILLO – GUAITA – GUDMUNSSON – GULLIT


GASCOIGNE: follie e talento del re buffone

Quando arrivò a Roma, i tifosi della Lazio gli riservarono un’accoglienza degna del personaggio. Con uno striscione raffigurante un gigantesco boccale di birra e la frase “ready for you, Gazza!”. Celebre in patria e nel resto del mondo per le sue bravate e il suo costante atteg- giamento clownesco, Paul Gascoigne è in realtà il campione che all’Inghilterra mancava da tempo. Capace di giocate degne di Maradona (nonostante la pancia), risolutore di delicatissimi incontri, fantasma impalpabile per dieci giornate consecutive, ecco il Gazza che ha conosciuto il calcio italiano. Con contorno di risse con fotografi e giornalisti e liti con la fidanzata Sheryl. Troppo personaggio: debolezza o punto di forza? Difficile dirlo, il Paul Gascoigne calciatore non poteva sopravvivere senza il giullare ubriacone campione di gare all’ultima pinta. In Inghilterra, in compagnia del suo amicone Fivebellies (cinque pance), era stato uno dei bersagli favoriti dei paparazzi, fatale che un tipo del genere non potesse funzionare nel calcio italiano, in una squadra come la Lazio di Zeman, che certo non si poteva permettere di concedere un uomo in più agli avversari, nonostante nelle giornale di grazia la sua fantasia e i suoi giochi di prestigio mandassero in visibilio il pubblico. Impossibile dimenticare che al suo arrivo in Italia era convalescente da un terribile incidente ai legamenti del ginocchio destro. Se ne andò dopo l’ennesima disgrazia, una frattura a tibia e perone destri rimediata in allenamento: l’investimento multimiliardario del patron Cragnotti non poteva finire peggio. La conferma del suo talento però sta nella rinascita successiva: in Scozia, nel Glasgow Rangers si ritrova, riconquistando anche la Nazionale a suon di magie. Nel 1998 passa al Middlesborough dove ricade nei problemi di alcolismo. Gli ultimi anni li spende girovagando senza successo tra Everton, Burnely e inutili comparsate in Cina e Stati Uniti. Chiusa l’attività agonistica nel 2004, inizia la tragedia umana di Gascoigne. Ma questa è purtroppo tutta un’altra storia…

GERMANO: bomber da rotocalco

Che la sua avventura italiana avrebbe offerto materiale per i giornalisti in abbondanza, lo si era capito fin da principio. Il brasiliano José Germano de Sales giunse al Milan nel 1962, primo giocatore di colore della storia a vestire la maglia di una società italiana. Un evento storico, ritenendosi allora che esistesse un patto fra le maggiori squadre dello Stivale per non acquistare giocatori di pelle nera. Decisivo fu Altafini, che raccomandò Germano come un fuoriclasse. Reduce dal Mondiale in Cile (era nella rosa dei campioni del mondo), al suo esordio il colored brasiliano segnò una doppietta, ma le seguenti dodici apparizioni in casacca rosso-nera non confermarono l’iniziale buona impressione: a novembre fu ceduto al Genoa, con la cui maglia segnò due reti in dodici incontri. Nonostante il fallimento calcistico, Germano conquistò la fama grazie alla contrastata love-story con la contessina Giovanna Agusta, che per mesi riempì le cronache dei rotocalchi. Dopo una fuga d’amore in Belgio (Germano era stato rifilato al Liegi) e la dolce attesa di lei, le nozze, nel giugno 1967. La nascita della piccola Lulù, poi il naufragio del matrimonio e il ritorno in Brasile del giocatore, in una fattoria a Conselheiro Pena, dove è morto nel 1997.

GHIGGIA: fuoriclasse scorbutico

Eroe della finale del Mondiale 1950 (con il Brasile brutalmente sconfitto) assieme a Schiaffino, Alcides Ghiggia giunse in Italia, alla corte della Roma, nel 1953, per… causa di forza maggiore. Numero 7 per vocazione, fantasioso e lunatico, era dotato di un carattere alquanto suscettibile: nel Nacional venne squalificato per un anno, dopo aver colpito l’arbitro che gli aveva annullato una rete. Maturò cosi la sua avventura italiana. Ghiggia avrebbe voluto continuare a giocare nel suo Paese, ma preferi la Roma all’esilio forzato. Questa scelta, che avrebbe dovuto rappresentare una fase di transizione della carriera, si rivelò invece definitiva. Con la maglia giallorossa disputò otto campionati, alternando partite illuminate dal suo genio, che dispensava dribbling fulminanti e giocate ad alto tasso di fantasia, ad altre anonime, a conferma del suo difficile temperamento. Era in grado di vincere una partita da solo, ma se gli avversari riuscivano a innervosirlo pressandolo e marcando duro, la Roma si trovava a giocare in dieci. Nel 1961/62 passò al Milan, dove vinse (anche se con sole 4 presenze) lo scudetto. Al termine di quella stagione decise di ritornare a Montevideo giocando per il Danubio FC fino a 40 anni suonati.

GREN: le magie del professore

È stato uno dei più grandi artisti della storia del calcio. Aveva la magia nei piedi, colpi di tacco, passaggi liftati, dribbling al veleno, il tiro proibito dell’attaccante. Lo chiamavano “il Professore”, un soprannome che diceva tutto del suo calcio, fatto di raffinata classe ma soprattutto di magistero di alta scuola. Gunnar Gren non “scendeva in campo”; saliva in cattedra, a insegnare l’onor dell’arte di cui i suoi piedi e il suo cervello di grande regista conoscevano ogni segreto. Era cresciuto nel Goteborg, arrivò al Milan sulla scia di Nordahl e Liedholm, con cui formò il celebre Gre-No-Li. Con il suo micidiale trio, il Milan si piazzò secondo alle spalle della Juventus (superata nei gol realizzati: 118 in 38 incontri, di cui 71 a opera degli svedesi inarrestabili!) e l’anno successivo conquistò lo scudetto e la Coppa Latina, il più importante torneo internazionale dell’epoca, progenitore della Coppa dei Campioni. Un secondo e un terzo posto e poi la cessione alla Fiorentina, per (presunti) raggiunti limiti di età. Qualche insigne critico milanese non gradiva la sua lentezza, le trentatrè primavere sembravano sinonimo di declino, nessuno poteva immaginare che il Professore sarebbe stato tra i grandi campioni di ogni epoca anche in fatto di longevità. Lui la prese male, il distacco fu segnato da una freddezza che stonava col carattere gioviale del campione. passò alla Fiorentina del dottor Bernardini nell’estate del 1953. Nelle due stagioni viola preparò il terreno alla grande Fiorentina di Montuori che poi avrebbe vinto il titolo da lì a poco. Dopo una comparsata con il Genoa, tornò in patria dove chise nel 1959 con l’Örgryte.

GRILLO: un calcio alla nostalgia

Difficile ambientarsi, nell’aria fredda degli inverni milanesi. Difficile, per uno che arriva da Buenos Aires, trovarsi in mezzo alla neve e alla nebbia senza averle mai viste prima. Così, anche per Ernesto Grillo, come per tanti giocatori sudamericani, l’inizio dell’ avventura italiana, negli ultimi mesi del 1957, fu una salita dura: nostalgia di casa, un rendimento non troppo convincente nelle prime partite con la maglia del Milan, il difficile feeling con i tifosi. Solo che Ernesto Grillo, mezz’ala sinistra che aveva fatto sognare le platee argentine fino a conquistare un posto in Nazionale, aveva una parola, una soltanto.
Quando la voglia di fare le valigie e andarsene colpì forte i sudamericani di Milano, Cucchiaroni e Angelillo su tutti, lui ricordò a se stesso e agli altri che c’era un contratto da rispettare, un’immagine da non tradire.
E li convinse a stringere i denti. Così, superati certi affanni iniziali, Ernesto Grillo fece innamorare anche i tifosi della Milano rossonera grazie alle raffinatezze del suo gioco fantasioso e allo stesso tempo potente, con l’inimitabile capacità di dare un’identità al gioco d’attacco della squadra. Nel ’58-59, alla seconda stagione italiana, fu uno degli uomini-chiave del Milan di Viani e Bonizzoni che conquistò lo scudetto, segnalandosi come fantasista e goleador. Lasciò l’Italia dopo tre stagioni, quando nasceva il genio di Gianni Rivera, per fare ritorno in Argentina e chiudere, a tardissima età, la carriera nel Boca Juniors.

GUAITA: ascesa e caduta del Corsaro Nero

Quando se ne andò da questo mondo, in un pomeriggio di tarda primavera a Buenos Aires, Enrico Guaita era da tempo un dimenticato. Solo e abbandonato a se stesso, in quel maggio del 1959, viveva di ricordi confusi e sovrapposti. Ricordava di sicuro l’Italia, ricordava di essere stato un “eroe” da queste parti. Ricordava quel titolo mondiale conquistato venticinque anni prima con la maglia azzurra sulle spalle. I due gol con cui l’Italia battè in finale la Cecoslovacchia, a Roma, non li firmò personalmente. Ma su entrambi, quello di Orsi e quello di Schiavio, Guaita lasciò la sua impronta indelebile: quella dell’ultimo passaggio, dell’illuminazione. A Roma, dove si giocò la finale, il talento argentino era un idolo da tempo. Era arrivato in Italia nel 1933, in compagnia di Scopelli e Stagnaro, per giocare nella Roma. E sull’erba del Testaccio aveva conquistato in un amen il cuore dei tifosi. Perché Guaita era un misto di coraggio e forza della natura. Era proiettato nel futuro, aveva un senso dell’azione in profondità che anticipava i tempi, sapeva crearsi con naturalezza spazi nell’area avversaria e seminava il panico nelle difese, mescolando le doti tecniche a una potenza atletica inusuale per i tempi.
In Nazionale giocò dieci volte e segnò cinque reti: in tutto, l’avventura azzurra durò sedici mesi. Alla Roma regalò una cascata di gol, poi, nel 1935, un addio col sapore della fuga. Obbligata, perché in Italia si cominciava a respirare un minaccioso clima di guerra. Lo accusarono di traffici illeciti, costruendo un giallo fittizio su un abbandono clamoroso. Ma nel cuore dei tifosi del Testaccio restò per sempre il “Corsaro Nero”, quello che non aveva paura e si tuffava nelle difese avversarie come se si trattasse di una sfida personale, di un combattimento all’arma bianca.

GUDMUNSSON: lo zingaro d'Islanda

Albert Gudmundsson è stato il primo calciatore islandese nel nostro campionato. Proveniente dal Nancy, aveva in precedenza giocato in Scozia (Glasgow Rangers) e in Inghilterra (Arsenal). Qui era diventato amico di Paddy Sloan e si era laureato in Economia e Commercio. Fu proprio l’amicizia con l’inglese a condurlo a Milano. Quando il club rossonero decise di ingaggiare Sloan, questi caldeggiò l’acquisto dell’amicone.
Il giorno della convocazione, gli uscieri di Via Lauro non riconobbero il pallido trequartista e lo misero alla porta. Soltanto quando il timido islandese, piuttosto perplesso, si scusò con un “sorry”, gli impiegati si resero conto dell’errore e lo fecero accedere alla sede. Per “Gud” i primi tempi non furono facili: scontento per il trattamento, fu sul punto di fuggire, ma la società evitò in extremis la sua partenza. Giocatore di raffinata tecnica ma fragile fisicamente, non riuscì a sfondare. Tornò in Francia, al Racing Parigi, e chiuse la carriera nel Nizza nel 1956. Dopo il calcio, si tuffò in politica arrivando a ricoprire l’incarico di Ministro dell’Industria del governo islandese negli anni Ottanta.

GULLIT: la leggenda della Treccia nera

Il suo arrivo in Italia, nel 1987, fu caratterizzato da gaffe e polemiche coi giornalisti. Forse il suo aspetto, con i lunghi capelli intrecciati alla maniera rasta, non era sufficientemente rassicurante. E poi in conferenza stampa nella sede del Milan non riconobbe Rivera in una foto col Pallone d’Oro e definì la stampa italiana rubbish, spazzatura. Pareva che le premesse per un fiasco ci fossero tutte, ma i profeti di sventura furono prontamente smentiti. A dicembre di quello stesso anno sarebbe stato proprio Gullit a sollevare il trofeo che già era stato, appunto, di Rivera. La sua potenza fisica e la sua genialità lo imposero come leader naturale del reparto avanzato dell’armata di Sacchi, che in quella stagione avrebbe vinto il campionato sciorinando un travolgente calcio offensivo.
Fisicamente straripante, tecnica- mente abile, capace sia di aprire varchi che di concludere direttamente, non fece sentire la lunga assenza del connazionale Van Basten e i paragoni con l’altro grande numero 10 del nostro campionato, Diego Maradona. si sprecarono. Scoppiò la “Gullit-mania”, con la fioritura di un florido commercio di gadget in onore del calciatore-musicista impegnato contro l’apartheid e conteso in ogni programma televisivo, anche non calcistico. Poi, la lunga serie degli interventi alle ginocchia, da cui risorgeva ogni volta con intatta forza. In maglia rossonera giocò sei stagioni, anche se la terza la passò quasi tutta tra ospedale e rieducazione, e vinse tutto, in Italia e nel mondo. Poi, una breve avventura alla Sampdoria, inframezzata da un ritorno negativo al Milan e le ultime tre stagioni con il Chelsea con cui chiude nel 1998. Successivamente affronta con alterne fortune la carriera di allenatore sia in Inghilterra che in Olanda e Stati Uniti.