Una non piccola parte delle fondamenta del grande edificio del calcio italiano moderno si deve a un architetto venuto dalla terra d’Albione, la patria del calcio.
Il suo nome era William Garbutt, detto Willy o anche Billy, e sparse il seme del pallone in tutta l’Italia: al Nord, al Centro e al Sud, ovunque lasciando il segno della sua scienza. William Garbutt era stato giocatore di vaglia, attaccante prodigio sedicenne nel Blackburn Rovers, subito carpito dall’Arsenal, dove dopo nove stagioni un duro impatto con un avversario gli aveva guastato un ginocchio. Vedendolo giocare nel 1910, Ivan Sharpe, famoso e longevo giornalista sportivo britannico, scrisse: «Garbutt ha il calcio nel sangue; la sua classe e il suo stile sono davvero incomparabili».
Tramite un amico riuscì a entrare in contatto col Genoa, che in anticipo sui tempi cercava un allenatore per riorganizzarsi e ritrovare la superiorità in campo nazionale smarrita dopo lo scudetto del 1904. Correva dunque l’anno 1912 e Garbutt sbarcò a Genova. L’impatto fu sobrio ma senza equivoci: con linguaggio secco come i suoi lineamenti che parevano tagliati con l’accetta, il nuovo arrivato spiegò che era pronto ad affrontare con entusiasmo la nuova avventura, ma solo a patto che ne valesse economicamente la pena. Il proverbiale culto della lesina degli abitanti della città della Lanterna cedette il passo a un sano realismo. La prima cifra ufficiale conosciuta parla di 4.800 lire annue nel 1915, monetariamente corrispondenti a oltre 13mila euro di oggi, in realtà uno stipendio sontuoso in rapporto al costo della vita dell’epoca. Furono soldi spesi bene, Garbutt si rivelò subito l’uomo giusto al posto giusto.
Aveva il professionismo nel sangue, non solo nel portafoglio. Era maestro pignolo e assiduo, “lavorava” ogni giocatore ai fondamentali e introdusse tecniche di allenamento inedite. Chi calciava con un piede solo veniva costretto a scendere in campo col piede “buono” scalzo, così da dover calciare con l’altro, educandolo al tocco. Sul prato d’allenamento fissava una serie di pioli, sempre più ravvicinati, che gli allievi dovevano superare zigzagando palla al piede, così da migliorare il controllo della sfera nel dribbling. E per colpire bene di testa, i ragazzi dovevano saltare a impattare palloni sospesi in aria tramite una fune e sollevati sempre di più.
Un perfezionista, che impostò il suo primo Genoa secondo i migliori canoni del calcio inglese: potenza atletica, lanci lunghi, grande equilibrio tra i reparti. Vinse il titolo nel 1915 e dopo l’interruzione bellica fu di nuovo al suo posto. Conquistò altri due scudetti consecutivi. Nel 1924, all’altezza del secondo titolo, il suo stipendio era salito alle stelle: 15.000 lire annue. In quello stesso 1924 Vittorio Pozzo lo volle al proprio fianco, assieme all’altro inglese Herbert Burgess, nelle Olimpiadi di Parigi. Pozzo lo ricordava come «ottima persona, serio, lavoratore, competente, innamorato dell’Italia». E aggiungeva che, essendo l’Italia alloggiata in un piccolo albergo vicino a Place Pigalle, «i due inglesi furono da me comandati a dormire a turno sul pianerottolo che bloccava le vie di entrata e di uscita dell’albergo, per impedire eventuali scappatelle notturne dei giocatori».
Nel 1927, dopo una milizia record sotto la Lanterna, il grande Garbutt viene chiamato alla Roma. Due anni dopo chiude il suo giro d’Italia, ingaggiato da Giorgio Ascarelli per fare del Napoli una squadra di alto rango. Riuscì nell’impresa. Bandita la goliardia, impose un sistema rigido di allenamenti, anche se l’intelligenza gli consiglio di smussare certi angoli, venendo incontro al carattere tipico della gente partenopea. Variò gli allenamenti, camuffando i più duri sotto le gradevoli specie di giochi, allietati da scommesse: chi sbagliava di più pagava da bere agli altri.
La sua sensibilità di fine psicologo lo portò a seguire i giocatori fuori dal campo. Se li faceva amici, “confessandoli” da buon padre o consigliandoli come un fratello maggiore. La competenza faceva il resto. Alla vigilia di ogni gara spiegava ogni dettaglio, illustrando le caratteristiche tecniche di tutti gli avversari. Banalità, verrebbe da dire oggi, mentre allora, in assenza di televisione, si trattava di rivoluzione allo stato puro.
Dall’allegro dilettantismo la squadra passò ad una nuova dimensione, di cui furono testimonianza i due terzi posti consecutivi colti nel ’33 e nel ’34. Quando i rapporti si logorarono, gli capitò un’allettante offerta spagnola, dal Bilbao, per un’unica stagione lontano dall’Italia. Napoli gli era rimasta nel cuore, al punto da aggiungere al figlio che già aveva una sorellina adottiva, Concetta Ciletti, bimba di Bagnoli Irpino segnalatagli dal medico del Napoli Athos Zontini.
Chiusa la stagione nel Bilbao, tornò in Italia e si accasò al Milan, chiamatovi a sostituire dopo dieci giornate Adolfo Baloncieri: conquistò il quarto posto. Aveva lasciato profonde nostalgie soprattutto a Genova, dove l’era della gloria era tramontata da un pezzo e torno nel 1937 a guidare la squadra rossoblu. La sua mano pesava ancora e il Genoa tornò tra le big. Sempre aggiornatissimo, Garbutt fu il primo ad adottare il Sistema in Italia. Lo decise nell’estate del 1939 e dopo due giornate Renato Tosatti (il giornalista padre di Giorgio, atteso da un destino tragico nel rogo di Superga) scriveva: «Il Genova ha qualcosa di nuovo da raccontarci in fatto di tattica calcistica. La nostra curiosità di giornalisti ficcanaso è pari ali ‘inquietudine serpeggiante nelle squadre che al Genova, oggi o domani dovranno dare la replica».
Dopo oltre vent’anni, Garbutt era ancora al centro dell’attenzione. In quella stagione lo aveva affiancato Ottavio Barbieri, che poi avrebbe guidato i Vigili del Fuoco di La Spezia a vincere l’ufficioso campionato di guerra. E proprio l’approssimarsi della guerra fu il segno che la fortuna cominciava ad abbandonare il grande uomo di calcio. Come l’Italia entrò in guerra, nel 1940, Garbutt si ritrovò internato come cittadino di Paese nemico. Perse la moglie durante un bombardamento e quando riacquistò la libertà il fisico cominciava a declinare.
Nel 1946 il Genoa lo chiamò per la terza volta, ma dopo qualche tempo si ammalo e restò parzialmente paralizzato. Infine, cadde dal tram in una via di Genova subendo una grave frattura. Nel febbraio 1948 veniva sostituito sulla panchina rossoblu da Federico Allasio. La guerra e il ricorso alle cure mediche ne avevano prosciugato le sostanze. Napoli e Genoa organizzarono amichevoli per devolvergli gli incassi. Infine tornò in Inghilterra, nella casetta di Leamington assieme alla figlia che lo assistette fino alla morte, il 16 febbraio 1964.