GIANFRANCO CASARSA – Intervista novembre 1978

A Firenze era considerato un «oggetto misterioso», a Perugia è diventato il punto-chiave nella manovra della squadra umbra. Si è imposto all’attenzione della critica, grazie alla quale Gianfranco è arrivato ai vertici della classifica speciale del «Guerin d’Oro»

L’Antognoni perugino

PERUGIA. Gianfranco Casarsa, genio incompreso a Firenze, idolo a Perugia. Dalla polvere, sull’altare: non più fischi, ma solo applausi. Come si spiega questa metamorfosi?
«Perché a Perugia ho trovato l’ambiente adatto».
— Che differenza c’è tra Firenze e Perugia?
«A Perugia si vive tranquilli, si può giocare in pace».
— A Firenze cosa succedeva?
«Firenze è una città di provincia come Perugia. Solo che i Fiorentini sono convinti di vivere nella capitale d’Italia, perché hanno tanti tesori d’arte».
— Indubbiamente Giotto, il Brunelleschi, padre Dante…
«Ma il campionato di calcio non lo puoi mica vincere con la Galleria degli Uffizi o la Divina Commedia».
— A onor del vero puntano soprattutto su Antognoni…
«Ma si respira in tutta la città questo complesso di superiorità che deriva dal David di Michelangelo e dal Campanile di Giotto».
— A essere sinceri ci sono anche le glorie calcistiche. Due scudetti che non risalgono al Medio Evo e tanto meno al calcio in costume che si gioca in Piazza della Signoria. Li hanno firmati Bernardini e Pesaola.
«Ma il pubblico è esigente, appunto perché i fiorentini calcisticamente sono rimasti ai tempi del grande Julinho, e non vogliono adeguarsi alla realtà di oggi. A noi giovani non hanno dato il tempo di maturare».
— Vi hanno definito subito «i ragazzi bruciati verdi»…
«Ma falliti tanto non direi. Perché se un giocatore resta in serie A, non si può considerare un fallito».
— Però la Fiorentina «ye-ye» che aveva fatto sognare il terzo scudetto, si è sfasciata. E al Chioschetto si dice che è colpa della dolce vita e delle madonne fiorentine.
«Se è per questo ci siamo tutti sposati. Segno che eravamo ragazzi seri e non dei dongiovanni».
casarsa-intervista7-novembre-1978 — A Firenze dicono che sei maturato da quando hai condotto all’altare Rossella Salvatore, terzo anno di lettere antiche.
«Indubbiamente il matrimonio mi ha giovato. Mi sono persino tagliato i capelli».
— In effetti a Firenze eri diventato famoso più per i capelli che per i gol…
«Ma dal barbiere ci sono andato prima ancora di venire a Perugia. I capelli lunghi non mi piacevano più e così prima di andare in villeggiatura, me li sono tagliati».
— Cos’altro ai fatto per rompere i ponti con il passato?
«Ho cambiato la Porsche con la BMW».
— La «famigerata» Porsche era il simbolo di una certa Fiorentina.
«Se è per questo io la Porsche me l’ero comprata al terzo campionato. Sono stato l’ultimo dei “giovani leoni” viola a farmela».
— A Firenze ti avevano definito giocatore atipico: centravanti no, mezzala nemmeno.
«Sono un rifinitore, cioè ho un ruolo ben preciso. A Firenze avevano parlato pure di una mia incompatibilità tattica con Speggiorin. Invece a Perugia abbiamo dimostrato che possiamo coesistere benissimo».
— E con Antognoni come andavi?
«Ottimamente anche fuori del campo. Perché sua moglie è amica della mia».
— A Perugia ti fai apprezzare anche per i calci di punizione.
«A Firenze non me li lasciavano battere. Prima c’era Guerini, poi tutti gli allenatori avevano dato ordine che le punizioni doveva batterle Antognoni».
— E quindi tu…
«Se per caso ne battevo qualcuna dovevo limitarmi a toccare il pallone ad Antognoni».
— A Firenze hai avuto Rocco, Mazzone e Chiappella. Come ricordi questi allenatori?
«Rocco cercava di spronarci con le sue battute in dialetto triestino. Io sono friulano e le apprezzavo. Ma bisognava prenderle per quello che erano, cioè delle battute di spirito. Guai ad arrabbiarsi. Erano sfottò a fin di bene».
— E Mazzone?
«Un ottimo preparatore. Ma anche lui ha trovato un ambiente ostile, che non lo ha capito».
— Chiappella?
«Non ho avuto modo di conoscerlo a fondo. Un volpone arrivato al momento giusto. Ci ha salvati dalla serie B».
— A Perugia sei finalmente esploso. E davvero tutto merito del matrimonio?
«Io direi che è anche merito dell’allenatore. Castagner mi impiega nel modo giusto. Eppoi è uno che cerca il dialogo con i giocatori. Si comporta da fratello maggiore».
— Di solito i calciatori cercano la moglie bambolona, tu hai preferito sposare una studentessa universitaria, cioè un’intellettuale. Perché anche come calciatore ti consideri diverso dagli altri?
«In amore, si prende quello che capita, non si può programmare. Ti innamori di una ragazza e la sposi. A me è capitato con Rossella. Ma i tempi sono cambiati, oggi anche i calciatori hanno mogli preparatissime. Ho avuto modo di conoscere Elena Bordon, la moglie del portiere dell’Inter, è una donna formidabile».
— In casa ti comporti da femminista o da dittatore?
«Faccio finta di lasciar comandare Rossella, ma in realtà comando io. Diciamo che ci consigliamo a vicenda».
— Qual è stato il tuo primo allenatore?
«II povero Bacchetti, quello che è poi finito in galera, perché ha tirato fuori la pistola per liberarsi di un certo racket calcistico che impera nel Friuli. So che ora è all’ospedale molto malato, povero Bacchetti».
casarsa-intervista-novembre-1978 — Ti portò alla Spal, ma il «drago di Ferrara» Paolo Mazza non ti seppe apprezzare e quindi non fiutò l’affare…
«Perché anche Mazza spesso era mal consigliato. Per 27 milioni ci aveva acquistati in cinque nel Friuli: Di Benedetto, Moro, Volazzo, Nobili e il sottoscritto».
— Poi cosa successe?
«Per raccontare la mia storia Ferrarese ci vorrebbe la penna di Giorgio Bassani».
— Si tratta di un romanzo?
«Per me c’è stato anche il lieto fine, però Mazza mi aveva già sbolognato al Bellaria, in serie D. Dissero che mi avevano mandato via per il carattere. Ma una scusa dovevano pure trovarla. Avevo solo 16 anni, ero ancora un ragazzino da formare».
— A Ferrara cos’è successo, esattamente?
«Ebbi come allenatori Tito Corsi, che oggi fa il DS a Vicenza e Milani, che allena la Rondinella di Firenze. Avevo esordito in prima squadra il giorno di Pasqua, contro l’Ascoli. Vincemmo uno a zero, ma la settimana dopo mi lasciarono fuori. Mi ributtarono dentro l’ultima giornata, a Prato e gli ultimi venti minuti. Stavamo perdendo, ti puoi immaginare, ventidue uomini in area di rigore, cosa potevo fare? Non fummo promossi, in serie B ci andò il Genoa e io per punizione finii al Bellaria».
— Forse perché a Bellaria ci sono tante tedesche e ti eri già fatto la fama del latin-lover…
«Ma per fortuna trovai Bean e Barison che fecero di tutto per tirarmi su il morale…».
— Regalia avrebbe voluto portarti al Cesena…
«Invece mi portò al Bari. Regalia era il ” secondo ” di Radice e volle farmi fare un provino a Cesena. Ma non venni acquistato, mi preferirono Carnevali».
— Nel frattempo Regalia era passato al Bari…
«E a novembre mi chiamò in Puglia. Mi presero in prestito, pagarono semplicemente una polizza assicurativa. A Bari rimasi due anni. Conobbi Rossella, mi misi in luce e poi venni acquistato dalla Fiorentina. La mia storia è tutta qui».
— Ora a Perugia sei considerato l’erede di Novellino.
«Ma lui è il grande Novellino e gioca nel grande Milan. Io sono solo Casarsa».
— Ricevi applausi a scena aperta tutte le domeniche, i giornali sono pieni di elogi. Hai già fatto un pensierino alla Nazionale?
«La maglia azzurra è il sogno di tutti i giocatori. E io a Firenze ero già arrivato alla ” Under 23 “. Logico quindi che faccia un pensierino anche alla Nazionale, ma se non mi chiameranno non ne farò un dramma».
— Perché salti così bene di testa?
«Perché da ragazzo ho fatto anche atletica leggera (oltre che al nuoto). A sedici anni già saltavo 1,65. Adesso mi limito a fare il tifo per Sara Simeoni».
— Chi vincerà lo scudetto?
«La lotta è molto incerta. Io vedo bene anche il Torino, che ha già superato il momento critico».
— E il Perugia?
«Il Perugia vive alla giornata, come il sottoscritto».

Un bluff, Gianfranco Casarsa, era considerato a Firenze. A Perugia è già un idolo. Ha fatto dimenticare perfino Novellino.