Gianni Minà intervista Michel Platini

  • di Gianni Minà – articolo apparso sul Guerin Sportivo – aprile 1986

Un campione che non è solo un calciatore. E che sono orgoglioso di essere riuscito a stanare dalla sua diffidenza. Nella sua confessione c’è anche un’analisi senza illusioni della stagione di vittorie con la Juventus

Saint-Cyprien è a qualche chilometro da Perpignan. Il confine con la Spagna è vicino: Barcellona dista due ore di auto. All’aeroporto di Perpignan, Michel Platini arriva con un aereo privato. Prima di mezzogiorno è nel centro sportivo che ha creato, sfruttando le facilitazioni governative riservate a chi costruisce un centro sociale o un bene per la comunità. Ha un appuntamento con la televisione, con una grande troupe televisiva, la sua troupe, per il film che sta producendo sulla sua vita, sulla sua vicenda di campione, leader e simbolo del calcio moderno. Ci sono anch’io, con Roberto Girometti, direttore di fotografia e Lello Rotolo, tecnico del suono, per completare la puntata della serie sui grandi calciatori di tutto il mondo che la Rai-1, in collaborazione col Guerin Sportivo, manderà in onda nel mese di maggio, a partire dal 19, due volte al giorno. La nostra è un’indagine psicologica, un viaggio dentro al campione; il film televisivo prodotto da Platini e dal suo manager Genestar è invece una vera e propria storia tecnica, una storia di imprese e di gol, dove l’uomo viene fuori più dai suoi successi che dal suo stesso racconto.


IL FILM

Michel dice subito che queste ore a Saint-Cyprien sono un modo non tanto per dimenticare, quanto per allentare la pressione, lo stress di un calcio che alla Juventus e a Platini riserva soltanto l’obbligo di vincere, sempre. E non è soltanto una prepotenza dei tifosi, ma anche una convinzione dell’ambiente e dello stesso Boniperti. Platini non vuol parlare al di fuori del suo lavoro televisivo. C’è un collega della «Gazzetta dello Sport» che non riesce a tirargli fuori una parola sul momento juventino. Michel inizia subito a lavorare nella sua veste di interprete di se stesso. Il centro è molto razionale e viene illustrato dalla telecamera che gira su una specie di reception-piattaforma che ha delle ampie vetrate dalle quali si possono seguire incontri di tennis e di squash nei campi sottostanti. Poi Michel va sui prati del calcio. Prima con i bambini di dieci anni, poi con quelli più grandicelli. Evita le domande facendosi coinvolgere negli entusiasmi, nelle urla, nella confusione dei piccoli ospiti della scuola. Corrono tutti dietro al pallone. E Michel gioca con l’impegno di uno che vuol vincere anche quando i suoi compagni di squadra potrebbero essere suoi figli.

«Questa è la mia mentalità riguardo al calcio. Io provo sempre a vincere, spero di vincere. Ma se perdo non penso a un dramma. Credo che questo sia anche il segreto della nazionale francese. Hidalgo ci ha regalato questa filosofia. Da un movimento di semi-dilettanti ha creato un movimento di professionisti che si divertono a giocare e anche a vincere. Una volta — forse ve lo ricordate — abbiamo giocato con quattro numeri dieci in campo. Cero io, c’era Giresse, c’era Tigana, c’era Genghini, ma forse eravamo addirittura sei dello stesso ruolo. Abbiamo vinto cinque a zero. Hidalgo ha sempre amato infrangere, mettere in discussione, frantumare i dogmi del calcio. Nell’Inter dicevano che Hansi Muller e Beccalossi non potevano giocare insieme. Noi francesi facevamo molto di più. Il segreto? Darsi una mano l’un l’altro, trovare in campo con intelligenza la propria posizione, capire quando bisognava correre in soccorso di un compagno. Poi è chiaro: chi ha più qualità, fa anche qualcosa di meglio. A me magari succede, ma quello è il talento naturale. Così io, dopo l’illusione di essere venuto in Italia a divertirmi oltre che a guadagnare, sono rimasto vittima di una mentalità mille volte opposta a quella che avevo imparato in Francia. Ma proprio in questa stagione ho ritrovato il dovuto distacco dal calcio. So non distruggermi più psicologicamente, anche se per fare il mio dovere sto ultimamente soffrendo e pagando un prezzo. Non sto bene, da qualche settimana. Ho la tendinite. Ho saltato l’amichevole Francia-Argentina per questo. Qualche volta gioco soltanto con un’iniezione antidolorifica. Ma non mi lamento, né cerco scuse. Voglio soltanto dire che non sempre le cose vanno come uno vorrebbe. Nel 1985 noi, la Juventus, abbiamo vinto tanto. Poi, nell’86, sembra che non ce la facciamo più, ma l’ambiente spesso non ce lo perdona, e questo è inaccettabile».


POLEMICA

Michel posa per un fotografo venuto da Parigi. C’è un suo sponsor, un creatore di moda sportiva che presto farà concorrenza alle grandi ditte del made-in-Italy e ha preso in esclusiva Michel per costruirgli un’immagine che durerà anche nel futuro, quando il calcio sarà solo un ricordo nella sua vicenda. Filmo le fotografie serie di Platini e anche le smorfie che fa negli intervalli mentre cambia le sue T-shirt e il fotografo carica le macchine. Michel, all’ennesimo tentativo del collega giornalista per un’intervista, pare inquietarsi. Poi è dispiaciuto del suo rifiuto di parlare del campionato italiano, oggi, a Saint-Cyprien:

«In fondo il lunedì è l’unico giorno nel quale i giornali scrivono del calcio vero, del calcio che è cronaca, attualità. In verità, gli unici giorni in cui il calcio ha un suo diritto di essere sul giornale sono il sabato, la domenica e il lunedì. Negli altri giorni i giornali sono palestre per investigatori privati. Perché non succede niente e allora quello che non accade bisogna farlo succedere o addirittura inventarlo. Per questo, credo, noi calciatori siamo spesso nelle nostre dichiarazioni il trionfo del banale. È un modo per difenderci, anche se sembriamo più scemi di quel che siamo. Ricorderò sempre la prima polemica che mi ha riguardato, sulle pagine dei quotidiani. Dissi che si poteva giocare con una seconda punta, perché in questo modo avremmo attaccato meglio e, forse, segnato di più. Così, al martedì i titoli dicevano: “Platini attacca Trapattoni”. Io ero allibito: quando mai lo avevo attaccato? E tutti a dirmi: sì, l’hai fatto, hai detto che bisognava giocare con due punte. E io a bocca aperta, senza parola, perché mi sembrava una barzelletta. L’indomani, comunque, la mia sorpresa non era finita. Il titolo era: “Trapattoni replica a Platini”. Ma la commedia continuava: al giovedì ecco i pareri di Sonetti, di Bersellini e non ricordo più di chi altro: tutti a rispondere a Platini e Trapattoni. Insomma, una vera e propria farsa, creata sul niente. E stato normale che dopo qualche settimana io abbia capito che o dovevo essere banale, o dovevo essere ironico. Questa è diventata la mia difesa. Il calcio, in Italia, spesso è uno psicodramma e si parla sempre di più di chi perde, e meno di chi vince. E incongruente ma è così. Probabilmente perché chi vince non fa notizia per tanti giorni».


IL MAESTRO

Michel termina la sua giornata concedendosi alle nostre cineprese, mentre spiega ai bambini come si calcia una punizione ingannando barriera e portiere. Su cinque, tre punizioni finiscono in rete. Qualcuno dei ragazzini ci prova senza successo. Uno eguaglia la percentuale di Platini. Michel gli regala una carezza e un complimento.

«Se potessi ci verrei ogni lunedì, qui a Saint-Cyprien come faccio d’estate, in luglio e agosto. E un modo per recuperare ogni volta un rapporto possibile, corretto con la macchina calcistica di cui faccio parte. È strano che nessuno se ne sia accorto, ma il segreto della Francia, che da qualche anno gioca bene e vince e può addirittura aggiudicarsi il Mundial, non è soltanto una generazione di calciatori che vent’anni dopo rinverdisce la gloria dei Piantoni e dei Kopa, è anche la presenza di una felicità smarrita nel campionato italiano. Ripeto: sono uno nato per vincere, voglio vincere in ogni situazione, e con la Juventus mi sono tolto molte soddisfazioni e altre spero di conquistarne. Ma non mi piace sentire addosso sufficienza, ostilità, qualche volta soltanto perché non puoi vincere sempre».

Ripenso a queste parole mentre su un pullmino accompagnamo Platini all’aeroporto. Su un’altra auto, se ne è andato Henry Michel, l’allenatore della nazionale francese, l’allievo che ha preso in mano la squadra dopo che Hidalgo si è ritirato e ha scelto il ruolo di padre nobile del nuovo calcio francese. Michel è stato avversario nel campionato francese di Platini e anche suo compagno ai mondiali del ’78. Sono amici e hanno un rapporto molto franco. Henry Michel non ha soggezione di Platini, che a sua volta non pretende di imporre la sua fama. L’allenatore è venuto per portare la sua testimonianza nel film che Platini produce sulla sua vita. All’aeroporto di Perpignan, i saluti: «Ci vediamo presto, spero in buone condizioni», sussurra Platini e se ne torna a Torino sul piccolo aereo che in mattinata lo ha fatto fuggire da una Juve che non sa più vincere.


VECCHIAIA

Domenica 9 marzo. Stadio Comunale di Torino. Spogliatoi alla fine della partita. C’è un’atmosfera di disappunto fra i giocatori della Juventus: hanno pareggiato con il Napoli. Se fossero riusciti a vincere, avrebbero chiuso il discorso dello scudetto perché la Roma, dopo essere stata in vantaggio a Verona, è stata punita da Briegel al novantesimo minuto con un gol che susciterà mille ingiuste proteste. Platini sta in un angolo, rivestendosi, con un’aria di distacco, ma è soltanto la maschera di un campione che non vuol farsi travolgere dallo stress, che è l’immagine ricorrente del nostro calcio pieno di pressioni.

Cerco di provocarlo: «Mi hai confessato poco fa che adesso andrai a casa e ti farai prestare un pallone da tuo figlio e giocherai un po’ per essere sicuro di averla almeno vista, toccata, la palla oggi». Mi guarda di traverso, con una smorfia ironica: «Ti ho detto questo, io, poco fa? Non ci credo, non ho mai pensato niente di simile», ma è chiaro che non è per niente di buon umore. «Quante volte ormai ti capita di essere di umore pessimo?», domando. Platini finalmente si apre: «Troppo spesso, sì, troppo spesso mi succede ormai di arrabbiarmi. Evidentemente sto diventando vecchio: sono rincoglionito. M’incazzo troppo, ormai m’incazzo troppo». Fa una pausa, poi prosegue: «Scusate le parolacce, ma sono ancora piuttosto arrabbiato per come sono andate le cose in campo». «Ma prima, una volta, non eri cosi…», lo interrompo. Michel scuote la testa:

«Una volta ero giovane, l’importante era solo giocare e divertirsi. Adesso, evidentemente, senza accorgermene sono cambiate le prospettive: vincere è diventato un obbligo. Non so, io intuisco per esempio parecchie cose in campo che magari i miei compagni non notano, e provo un grande disappunto a vedere sfuggire le occasioni. Ma forse sbaglio io. Mi sono fatto prendere da una macchina che non credevo mi condizionasse così. Questo è l’anno in cui la Juventus ha vinto tutto. Eppure, non si arriva mai alla fine. Hai l’impressione che il mondo che ti circonda non sia mai contento. Io vengo da una nazione, la Francia, dove dieci anni fa il calcio non era nemmeno una professione in modo definitivo. Giocare al calcio, per me significa innanzitutto divertirsi. Il problema di vincere non era e non doveva essere fondamentale. Ma evidentemente, pur essendo convinto che il calcio non è poi così importante, come d’altronde molte altre attività della vita, mi sono fatto prendere dalla macchina, da questa nevrosi che circonda l’ambiente in Italia».

Qualcuno vicino a noi commenta divertito di aver visto a un certo momento Maradona venire a marcare in area di rigore Platini e addirittura trattenerlo su una punizione. E un modo per disintossicare l’atmosfera, per far sorridere chi non ne ha voglia. Platini, infatti, accetta divertito la provocazione:

«A Maradona ho detto: guarda che se ti avvicini, mi butto per terra e mi faccio fischiare un rigore, stai attento. Il guaio è che lui è stato proprio attento e il rigore non l’ho potuto ottenere…».

Ma l’atmosfera di scontentezza che aleggia nello spogliatoio non viene ancora dimenticata. Michel riprende il discorso interrotto poco prima, come se volesse essere più preciso:

«Sai, il fatto è che io penso a un calcio fatto per avvicinare, per aggregare la gente. Invece, dopo poco tempo, qui in Italia mi sono reso conto che è come se il calcio esistesse per disunire, per allontanare. Per questo, credo, ora mi arrabbio così tanto. Nel primo anno in Italia, anche se ho avuto tanti problemi, non ero così stressato. Poi mi sono fatto travolgere dalla mentalità che circonda il calcio italiano, dove tutto è importante: una dichiarazione, una battuta di spirito, un atteggiamento, un piccolo infortunio, un cambio di umore. Ma adesso, in quest’ultimo anno, forse per le vittorie ottenute, credo di aver recuperato il mio distacco dal calcio almeno al lunedì. Ecco, adesso mi vedi: sono fuori di me. Ringraziando Dio, da stasera a martedì mattina tutto cambierà: vado a casa e me ne frego. Vivo la mia vita insieme alla mia famiglia. Da martedì tenterò nuovamente di essere il migliore, il più bravo, ma per trentasei ore riuscirò a staccare la spina, a non lasciarmi stritolare dalle trite parole del giorno dopo. È l’unica salvezza che ho».

C’è chi gli chiede cosa farà questa sera:

«Bah, non lo so. Forse andrò a mangiare con alcuni amici francesi. Sono venuti qui per Juve-Napoli: ho dovuto spendere un sacco di soldi per comprare loro i biglietti. Pensa un po’ ho dovuto svenarmi per far contenti alcuni amici francesi che volevano vedere Maradona: il mondo è proprio strano».

E finalmente accenna un sorriso.


ROMA

Domenica 16 marzo. Nel lungo corridoio che dallo spogliatoio dello stadio Olimpico porta allo spiazzo dove attendono gli autobus delle due squadre, sto intervistando Scirea. La Juve, completamente «in bambola», è stata maltrattata, schiaffeggiata e sconfitta 3-0 da una Roma scatenata. È parso un fulmine di guerra anche Graziani, per il quale il tempo sembrava essersi fermato. Scirea sta commentando mestamente il momento contraddittorio della Juve, quando passa Platini e mi urla: «Com’era la mia faccia oggi, vista dalla tua cinepresa? Sempre cattiva, sempre arrabbiata, sempre tesa?». Gli faccio segno che sto per terminare il dialogo con Scirea, poi lo blocco prima che salga sul pullman. Gli dico che i nostri teleobiettivi lo hanno immortalato ancora una volta di cattivissimo umore:

«Non ero il solo. Tutti quanti, oggi, ci saremmo voluti sparare. Solo che i tuoi obiettivi erano puntati su di me. Cosa vuoi che ti dica? La Roma ha giocato molto meglio di noi. Il calcio è fatto così. Potrei tranquillamente dirti: abbiamo sbagliato. Ma nell’industria-calcio italiana non si può nemmeno dire questo. Eppure, nella vita capita che un giorno uno sia più bravo e un altro invece non funzioni. Qui adesso sarà già molto se non ci faranno il processo…».

C’è una chiara preoccupazione nell’aria. La esprimo: «Riuscirete voi della Juve a dimenticare in soli due giorni questa brutta figura e presentarvi in condizione degna per capovolgere il risultato dei quarti di finale di Coppa dei Campioni con il Barcellona?». Platini ha una smorfia di superiorità:

«Il nostro è un lavoro come un altro. Se dovessimo stare male tanto tempo soltanto per una sconfitta, anche se clamorosa, ci dovremmo ammazzare: saremmo già morti tutti da quindici, vent’anni. Giocare al calcio significa vincere, ma anche perdere».

Lo guardo con una certa sorpresa: «Ma quando giochi con la nazionale francese, sono uguali i tuoi sentimenti?». Michel non ha dubbi:

«Quando gioco con i francesi sono molto più disteso. Ci sono molti meno obblighi: verso i compagni, i dirigenti, i tifosi. È diverso il modo di vivere il calcio. Per esempio, poco fa qualcuno mi chiedeva se è vero che fra due anni mi ritirerò. La mia risposta è: dipende da come gira…».

È inevitabile che io lo provochi: «E adesso come gira? Se tu dovessi decidere adesso, come decideresti?». Ma Michel non accetta la provocazione:

«Ho ancora molti traguardi, o forse dovrei dire: avrei molti traguardi. Però oggi è difficile non tanto vincere, quanto vivere nel calcio. Voglio dire nel calcio italiano. Non si può piangere sulla propria sorte, dimenticando che soltanto qualche settimana fa hai conseguito l’ennesima, grande vittoria. No, non si può. In questo modo si diventa dei robot e si scorda che comunque domani è un altro giorno e che il calcio non è tutto nella vita, nemmeno per uno come me che col pallone ha fatto la sua ricchezza e il suo successo. Che ti posso dire? Non mi piace piangere sul latte versato. Ci vediamo nei prossimi giorni».


LA COPPA

Mercoledì 19. Juve-Barcellona è appena finita. Gli spalti dello stadio Comunale di Torino sfollano quasi silenziosamente. Qualcuno ha urlato invettive contro Trapattoni. Gli imbecilli, purtroppo, sono sempre più numerosi negli stadi italiani. Si dimentica in fretta: con Trapattoni, la Juventus ha vinto tutto e più di tutti, ma evidentemente non conta. Nel calcio, come invece in qualsiasi altro lavoro, non è possibile cambiare azienda. Se si cambia, immediatamente si diventa traditori. La colpa probabilmente è anche nostra, di noi operatori dei mezzi d’informazione. Favoriamo consciamente o inconsciamente certe esagerazioni, certe interpretazioni. Nello spogliatoio della Juventus non si respira comunque aria di tragedia. C’è soltanto l’amarezza di un’occasione perduta. Platini non accetta recriminazioni:

«Fa parte del nostro mestiere anche perdere: dopo tre anni di finale, dopo tanti successi, usciamo dalla Coppa dei Campioni. Certo, non s’era mai vista una squadra mangiarsi tutte le occasioni che la Juventus ha perso oggi. Ma anche questo fa parte del gioco. Soltanto i cretini possono prendersela con Pacione. Quando un giocatore si mangia un gol, vuol dire anche che si è trovato nell’occasione di farlo. Quindi ha avuto intuito, senso del gioco, intelligenza tattica e tecnica. Ma vallo a raccontare a certa gente…».

Qualcuno chiede a Platini, fedele all’interpretazione esasperata del calcio che fa parte del nostro tempo, se questa sconfitta si ripercuoterà sulla sua prestazione in campionato la domenica successiva, e poi tra una settimana, nell’amichevole con l’Argentina. Platini s’inalbera:

«Intanto la partita con l’Argentina è un’amichevole, non conta niente. Per noi adesso conta il prossimo incontro con l’Inter, domenica. E importante vincere e vinceremo, ma voi chiedereste mai a un altro professionista se un’amarezza o una delusione occasionale nel proprio lavoro inciderà sul suo lavoro futuro? Ma perché il calcio deve essere considerato più importante di qualunque altra attività umana? Se si è uomini, si affrontano le avversità con coraggio in qualunque frangente. E questo vale per mestieri molto più importanti che non pigliare a calci un pallone. Perché non dovrebbe essere così anche nel nostro lavoro?».

Poi Michel quasi tra sé si mette a fare il conto del cammino recente compiuto con la Juventus:

«Una finale di Coppa persa ad Atene con l’Amburgo, ma sempre una finale di Coppa… poi la vittoria in Coppa delle Coppe contro il Porto, poi ancora la vittoria contro il Liverpool nella tragica partita di Bruxelles, e quest’anno, i quarti di finale. Ma cosa potevamo fare di più in quattro anni? E abbiamo ancora tre punti di vantaggio in campionato. No, mi convinco proprio… ah, dimenticavo una Supercoppa: la Coppa dei Cinque Continenti, a Tokio. È possibile che tutto questo già non significhi più niente? No, credo proprio che quello che è mancato questa sera sia — come dite voi? — un po’ di culo. Scusa l’espressione, ma mi pare che renda bene l’idea. Eppoi, non sono nell’umore per cercare di essere diplomatico. Non voglio assolutamente accettare una logica del calcio che fino all’inizio di questa stagione mi stava stressando e che ora sono riuscito a rifiutare. Non solo per il mio bene, forse anche per quello della Juventus, della nazionale francese, dell’ambiente dove vivo e dove svolgo il mio mestiere».


IL DIVERTIMENTO

Giovedì 20. Agli studi della Rai di Torino, Platini ha appena finito di registrare l’ennesima puntata di «Numero 10», il programma che ogni settimana, qualunque sia la sorte della sua Juventus, Michel registra con Gianfranco De Laurentis. È l’indomani dell’uscita della Juve dalla Coppa dei Campioni, eliminata da un non entusiasmante Barcellona. Platini adesso appare disteso, ma la nostra conversazione, ennesimo atto di un viaggio dentro il personaggio che stiamo compiendo ormai da settimane, comincia con la denuncia che abbiamo citato all’inizio del nostro reportage: una specie di atto d’accusa e di dolore, di fronte ad un calcio che, cosi com’è adesso nella società italiana, Platini non riesce più ad accettare. Poi acconsente ad una specie di intervista che vuol tentare di essere anche un’interpretazione del suo carattere più nascosto:

«Io ero un appassionato del calcio. Io sono stato preso dal calcio, non ho scelto il calcio. Giocavo sempre. Nella sala da pranzo di casa, sotto al tavolo. Praticamente quando non giocavo andavo a scuola. Ma anche se sembra una battuta, era la scuola a dover dividere il mio tempo con il calcio. Così ho sempre pensato che il calcio fosse uno spettacolo, almeno finché sono stato nel Nancy. Ho cominciato a sentire il dovere di vincere quando sono passato al St. Etienne. Ma io, fino a diciassette anni, non sapevo nemmeno che il calcio potesse essere una professione. Mi ricordo che una volta sono stato a chiedere un certificato, forse di stato civile, non ricordo e mi hanno domandato che professione facevo. Io ho detto: il calciatore. E l’impiegato mi ha redarguito: scusi, ma io le ho chiesto la professione vera… Non è una battuta: così era la condizione del calcio dieci, quindici anni fa in Francia. Poi le cose sono cambiate anche là. Non so dire se in meglio o in peggio. Però devi capire la mia educazione sentimentale a questo gioco. Io mi sono esibito per anni solo pensando allo spettacolo. La gente veniva a vedere, ma non con l’atteggiamento che hanno i tifosi in Italia. La gente veniva a vedere noi, come poteva andare al cinema o ad un concerto o a qualunque altro tipo di rappresentazione. Capisco ora che il football mi ha conquistato perché l’atmosfera con la quale la gente va allo stadio in Francia, l’atteggiamento verso le partite di pallone, è in sintonia con il mio modo di essere, di vivere, con i valori che ho nella vita. E poi, un giorno, sono passato al St. Etienne: i famosi verdi di Herbin: abbiamo vinto il campionato, siamo arrivati quasi in finale nella Coppa dei Campioni. Ho capito che non ci si poteva più limitare a essere contenti di aver giocato bene. La successiva stagione della mia vita è stata con la Juve: qui l’obbligo di vincere è diventato quotidianità. All’inizio non l’ho capito bene e mi sono salvato».


LA CONFESSIONE

Platini si confessa per la prima volta senza quel pudore nel rivelare se stesso che fa parte probabilmente del suo carattere, del suo modo di proporsi al mondo. Io faccio delle domande, le più dirette possibili, e lui risponde. «Sei dovuto andare dallo psicanalista per ritrovare te stesso?», chiedo con voluta malizia. Platini accetta solo in parte la provocazione:

«No, solo quando subisci alcune provocazioni e capisci che oltre un determinato limite non puoi accettarle più, da un giorno all’altro cambi atteggiamento. Io ricordo che in quella prima stagione con la Juventus avevo la pubalgia. Andavo in campo ma stavo male, non riuscivo a rendere. Poi, anche giocando, non tutto era chiaro: io e Boniek dovevamo fare i gol, lanciati da Furino. Tutto giusto, tutto possibile, ma forse non era proprio la scelta tattica più conveniente. Ricordo però che uscendo dallo stadio — poco dopo Natale — io e Boniek eravamo contestati, persino insultati. Al termine di una partita a Genova, nella quale non avevo praticamente visto la palla, mi ricordo che tornai a casa e dissi a mia moglie: “No, io me ne vado”. Ma anche per l’affetto di mia moglie, la solidarietà di Zibì, decisi di tentare nuovamente. Un amico mi suggerì di curare la pubalgia con la medicina omeopatica e ce l’ho fatta. Prima stavo malissimo: non potevo scattare, non potevo scartare, saltare, non potevo fare gol. Era un disastro: non potevo correre, non potevo allenarmi. Eppure giocavo lo stesso, pur essendo convinto di non riuscire a un granché. E questa è una situazione tremenda perché, oltre ai guai fisici, è brutto giocare con la convinzione di non arrivare a più di tanto. La Juventus aveva vinto il Campionato, la nazionale Italiana — con molti giocatori bianconeri — il titolo mondiale. Quindi, se le cose non andavano bene, la colpa non poteva che essere di Boniek e di Platini. Beh, fu veramente un momentaccio e quando sono guarito e ridiventato nuovamente Platini, è stata veramente una rivincita. Non tanto sui tecnici, ma su un modo di vivere il calcio, di interpretarlo, di essere vittime o eroi di questa macchina. Erano ancora da superare i condizionamenti di chi ti vuole sempre vincitore. Per questo ho impiegato più tempo, ma adesso ci sono riuscito. Faccio sempre il mio dovere, più che posso. Ma finita la partita me ne frego, come chiunque nella sua attività di tutti i giorni. La vita è tante cose. Non solo un pallone».

Faccio notare a Platini che sembra uno che si analizzi molto. Michel sorride: «Ma cosa dici? Io sono un istintivo…». Non mi dò per vinto: «Però in questo ragionamento che hai fatto ti dimostri una persona molto razionale, che sa valutare e giudicare quello che le succede». Il francese ha deciso di sorprendermi: «Mi è successo di farlo adesso, perché tu me lo hai chiesto». Il nostro è diventato una specie di match: «Senti, Michel, ma tu andresti da uno psicanalista?». «No». «Hai paura di scoprire i meccanismi che regolano la tua intelligenza?». «No, quando ho accettato di condurre questa trasmissione per la Rai, non ho mai voluto una volta riguardare le cassette: perché non voglio migliorarmi, voglio essere quello che sono, anche sbagliando. Ma almeno so ogni giorno quello che posso fare: insomma, sono io».


DOMANI

Adesso il discorso si sposta sul giorno in cui tutto questo castello finirà, sul giorno in cui Platini tornerà a essere un uomo comune, non più un eroe dello stadio.

«Trapattoni insiste sempre: quando non sarai più famoso ti sentirai triste. Io non so se il nostro allenatore abbia ragione. Certo fa piacere essere un uomo pubblico, essere un uomo riconosciuto, amato. Ma so una cosa: ho sempre avuto paura della gente. Da quando, a ventidue-ventitré anni, cominciai ad essere qualcuno nel Nancy, ho sentito sottopelle questo timore. Là, come ho detto, il calcio è molto meno esasperato. Il pullman che ci portava allo stadio, si fermava a cento metri dall’ingresso e noi compivamo questo tragitto a piedi, in mezzo agli appassionati, ai tifosi. Bene, non so perché ma ho sempre pensato che quello era un momento pericoloso. Non si può essere simpatici a tutti. E assurdamente avvertivo ogni volta uno strano timore, mentre scendevo dal pullman con i miei compagni. Pensavo che se ci fosse stato un matto che avesse avuto voglia di farsi notare, il primo calciatore accoltellato in Francia potevo essere io, quando compivo quei cento metri che mi separavano dall’ingresso dello stadio. Da quel momento in poi, ho sempre avuto paura della folla. È per questo che non vado quasi mai dove si raduna gente ai grandi teatri, ai mega-concerti. Mi piacerebbe, ma mi fa paura».

E inevitabile che io chieda a Michel se c’è una spiegazione a tutto questo. La sua risposta è beffarda: «No, ma tu sei uno psicanalista?». Scuoto la testa e cerco di spiegarmi: «È il mestiere del buon giornalista scandagliare la persona che ha di fronte, cercare di farle dire più verità possibili…». Platini m’interrompe: «Tu pensi che io dica la verità?». Il match riprende: «Non so, io provo a fartela dire. Tu sei sincero?». «No, davanti alla televisione uno dice parte della verità, davanti alla televisione non si può essere nudi». La lunga confessione è arrivata ai ricordi dell’infanzia e c’è una battuta dedicata al padre:

«Mio padre, figlio di un novarese emigrato per lavorare in miniera e poi diventato padrone di un bar, mio padre dicevo credo sia fiero di me, ma non gliel’ho mai chiesto. Unica cosa che posso dirti è che lui sa di calcio più di tutti, ed è sicuramente quello che mi conosce, in campo e fuori, meglio di chiunque altro. C’è una cosa che tengo sempre presente e che lui mi ha consigliato, riguardo al mio lavoro: sul campo cerca sempre di stare in mezzo e tutto passerà dai tuoi piedi. Quando riesco a farlo, gioco delle belle partite. Il calcio, mio padre lo conosce molto di più di quelli che lo scrivono».

Chiedo ancora di sapere l’opinione che su Platini si è fatta la moglie. Michel si sorprende: «Quello che aveva da dirmi me lo ha detto quando eravamo fidanzati. Può essere che mi abbia ingannato, ma adesso è tardi per recriminare». Vorrei insistere ancora sui giudizi di sua moglie, sull’opinione che di lui hanno i figli. Michel taglia corto: «Come ti sono sembrato? E positiva la tua valutazione sulla mia psicologia, dopo questa seduta? Che cosa devo fare adesso? Che pastiglie mi prescrivi?». È chiaro che per oggi non riuscirò a strappargli più nulla. L’appuntamento è comunque rinviato.


LA FRANCIA

Lunedi 24. Platini per la tendinite ha dovuto rinunciare all’amichevole Francia-Argentina. Faccio colazione con lui in collina, in un ristorante vicino a casa sua. Al tavolo c’è anche la moglie, i suoi due bambini e un amico. Le nostre cineprese filmeranno la parte più inedita del nostro programma. Questa è un’anteprima. «Michel, ma tu Cosa pensi veramente del calcio?». «In generale è un gioco, uno spettacolo, un divertimento». «Ma l’involucro che avviluppa questo spettacolo, che cos’è?»

«Mi è difficile definire questo involucro. Io sono nato in Francia, ho vissuto nel calcio francese, ho mentalità francese, sia per quanto riguarda la mia quotidianità, sia per quanto riguarda il calcio. Io penso che il calcio appartenga ai calciatori, che si affrontano, poi c’è il pubblico che viene a vedere, sperando di assistere ad uno spettacolo degno. Qui in Italia, invece, ho scoperto che il calcio appartiene ai tifosi, alla stampa, e che i calciatori al massimo stanno nel mezzo e in definitiva lavorano per la stampa e per i tifosi. Per me è una cosa strana, assurda, sbagliata. Ti dirò di più, anche se so che questo concetto suonerà contro corrente, addirittura come una bestemmia: io sono convinto che questa realtà sia stonata, ambigua, al limite del ricatto. Qui si fa tutto per i tifosi, per arruffianarsi i club, perché sono quelli che vanno allo stadio, sono quelli che comprano i giornali, insomma sono quelli che tengono in piedi la macchina. Ma io invece ho giocato sempre per me, sì per me, per lo spettacolo se vuoi. Certo, quando sono arrivato a Nancy sono stato felice di scoprire che c’era tanta gente a vedere le mie gesta. O meglio, a vedere lo spettacolo che eravamo in grado di offrire. Chi l’ha detto che un campione del calcio deve essere uno schiavo nelle mani di un tifoso o della stampa? Perché un altro lavoratore che riceve gli stessi soldi, ha lo stesso successo, la stessa ricchezza di un campione di calcio, non ha però gli stessi doveri, o meglio non viene obbligato ad avere lo stesso tipo di dipendenza dalla gente? La società dove viviamo è una realtà dove tutti danno e tutti prendono. Certo ci sono i più fortunati e i meno fortunati. Ma la macchina che crea i fortunati come me o altri colleghi, non l’abbiamo inventata noi: ho netta l’impressione che si tratti di un grande equivoco, in cui alla fine il tifoso, più che protagonista, è Senza saperlo lo strumento di interessi maggiori, gestiti da alcuni furbi. E tutto questo che non mi piace e che mi fa vivere per conto mio. Io voglio essere il primo, voglio giocare, voglio vincere per la mia squadra, ma non voglio essere schiavo di tutto questo. Se mai un giorno me lo imporranno, me ne andrò».

Un campione che non è solo un calciatore e che sono orgoglioso di essere riuscito a stanare in parte dalla sua diffidenza. Nella sua confessione di quel giorno c’è anche un’analisi senza illusioni della sua stagione di vittorie con la Juventus:

«E’ il mio destino di calciatore cosiddetto “di talento” arrivare nelle squadre vincenti nel momento più alto. Mi è successo col St. Etienne e poi anche con la Juve. Soltanto che ogni ciclo ha una sua alba e un suo tramonto. Della Juve che ha vinto tutto, sono rimasti in quest’ultimo stagione — oltre a me, solo Cabrini e Scirea. Forse in questo dato c’è la spiegazione di tutto, sia se vinceremo lo scudetto a denti stretti, sia se perderemo all’ultimo istante».

  • di Gianni Minà – articolo apparso sul Guerin Sportivo – aprile 1986