Gianni Mura: intervista a Enzo Bearzot

La Repubblica, 26 settembre 2007

Enzo Bearzot festeggia oggi 80 anni. «Con mia moglie Luisa, una famiglia di amici e don Luigi, della chiesa del Paradiso qui a Milano, uno che era molto amico di padre Turoldo, furlano di quelli dritti». I festeggiamenti erano cominciati in anticipo, lunedì. «La Gazzetta mi ha fatto una bella sorpresa, un bel regalo anticipato. Mi sono un po’ commosso con gli azzurri del 1982, o meglio mi ha commosso il loro calore. Non è obbligatorio affezionarsi al nonno. Ho notato un cambiamento in Zoff: 25 anni fa mi dava del tu solo a quattr’occhi, quando parlavamo in friulano, adesso riesce a farlo anche in pubblico. Era ora».
E gli altri come li ha trovati?
«Un po’ invecchiati, naturale, e alcuni pieni di voglia di fare e con un’amarezza appena percettibile. Forse si sentono trascurati dal calcio. A me è spiaciuto molto per Claudio Gentile, un duro sul campo, un pezzo di pane fuori. Lo hanno silurato quand’era scaduto il tempo per trovarsi una sistemazione. Non m’aspettavo che a trattarlo così fosse un ex calciatore».
S’aspettava che Lippi vincesse i mondiali?
«Lo speravo, ho cercato di stargli vicino, s’è trovato in una situazione simile alla mia nell’82. E anche stavolta l’Italia, che pure non era la più forte del mazzo, ha trovato la forza del gruppo, l’unità vincente».
Chi era più forte?
«L’Argentina nettamente, e anche il Brasile. Ma i loro assi non hanno creato la squadra. E noi quando siamo punti sul vivo diamo il meglio».
C’è qualcuno di Berlino 2006 che avrebbe potuto giocare nell’82?
«Buffon no perché avrebbe tolto il posto a Zoff. Scherzo, a me piace molto Buffon che è diverso da Dino ma una cosa in comune ce l’ha: se prende gol per colpa di un compagno, non lo rimprovera, anzi cerca di tirarlo su. Solo i grandi giocatori hanno questa sensibilità. Le rispondo così: come regista avevo perso Capello, quindi Pirlo mi avrebbe fatto molto comodo. È bravissimo, sia sul tocco breve che sul lancio lungo, sa tirare in porta, è davvero un giocatore completo».
Totti no?
«Bravissimo, per come fa i gol e li fa fare, ultimo passaggio fulminante. Totti e Kakà rappresentano il meglio che si può vedere oggi in uno stadio italiano, ma come faccio a scartare uno dei miei vecchietti?»
Totti, Nesta, mettiamoci anche Maldini: lei avrebbe trovato le parole per farli restare in Nazionale?
«Dico solo il mio parere: un giocatore può essere un fenomeno nella Roma o nel Milan, ma il massimo, per me, è la Nazionale. Precludersela mi sembra autoriduttivo».
Riesce ancora a entusiasmarsi per questo calcio?
«Entusiasmo è una parola grossa. C’è troppa organizzazione e poca democrazia. Lo guardo meno, lo sento più estraneo. Calciopoli ha prodotti danni profondi, quasi quasi non si crede più al verdetto del campo, è come se qualcosa mi si fosse spento dentro. Riesco ancora a indignarmi, questo sì. Per i fischi di San Siro alla Marsigliese, così come nel ’90 a Roma mi ero indignato per i fischi all’inno argentino, con Maradona in campo che piangeva. E fischiavano i politici, in tribuna d’onore, gente che aveva studiato. Che vergogna. L’inno è sacro, cosa costa stare zitti per quei due-tre minuti? Poi ce ne sono novanta per fischiare i giocatori».

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Bearzot non ama le celebrazioni, l’aveva già detto a caldo, a Madrid, quella sera di luglio. «La melassa soffoca». Dopo la sorpresa in chiave azzurra della Gazzetta, ieri ha parlato ai microfoni di Radio 24, col suo vecchio amico e agiografo Gigi Garanzini, e non ha saputo dire di no a una chiacchierata con altri due giornalisti che lo chiamavano, con rispetto, vecio già nell’82.
A un certo punto suona il cellulare, è Platini dalla Turchia. Una chiamata che a Bearzot fa piacere. «Come devo chiamarti, Michel o presidente? Grazie del pensiero. Ti ricordi di quando ti ho convocato nel Resto del Mondo per giocare contro l’Argentina nel ’79? Sì, eri già in vacanza, ho corso un rischio. E la cosa che ricordo, oltre alla nostra vittoria, è la faccia depressa del generale Videla al momento della premiazione. Credevano che fossimo lì a fare i turisti. Si erano sbagliati. Oh, Michel, hai visto che Henry è arrivato a un gol da te?» Segue gran risata. Gliene chiediamo conto. «Platini è sempre il solito. Ha detto: è vero, ma solo perché Domenech non mi convoca. Gli ho detto di avere un occhio di riguardo per gli italiani, anche se non tutti lo meritano. Eh, Michel, il più bel destro visto in 50 anni».
I più grandi in assoluto?
«Di Stefano sapeva coprire tutti i ruoli, Maradona era il calcio. Non dimentico l’intelligenza tattica di Schiaffino. A Pelè è mancata l’Europa, giudizio sospeso».
Qual è il profilo del ct ideale?
«Per me, dev’essere stato allevato dentro la federazione. Com’è stato per me, ma anche per Vicini, Zoff, Maldini. Dalle giovanili alla A si ha più visione d’assieme. Scusate, ma di me si parla sempre e solo come ct. Vorrei dire che tra A e B ha giocato 422 partite per intero, perché non c’erano le sostituzioni, non come oggi che vale la presenza anche se giochi tre minuti. Ero il classico mediano, con qualche licenza di scorreria sulle fasce, come Ciccio Sentimenti. Ho cominciato marcando Piola, ho finito contro Mazzola e Jair. Con Piola avrei volentieri scambiato la maglia, ma non usava. Ne avevamo una e ce la cambiavano quando stava in piedi da sola. Tra le mie medagliette c’è che Sivori non mi ha mai fatto un tunnel».
Mai avuto come ct offerte dall’estero?
“Lo dico adesso per la prima volta. La più allettante era dell’Arsenal, dopo che avevamo lasciato a casa gli inglesi nel ’78».
Platini ha fatto carriera come dirigente. Perché alcuni dei nostri, tipo Rivera e Zoff, non sono entrati nelle alte sfere del calcio?
«E chi li propone? L’uomo di Bari? Matarrese, per chiarezza?»
Senta, è vero che quando Matarrese entrò nei vostri spogliatoi per complimentarsi dopo la vittoria sul Brasile, Tardelli gli tirò uno zoccolo?
«Se ricordo bene gli zoccoli in volo erano più numerosi. Finché il gioco al massacro lo fanno i giornali, passi, ma se partecipa uno che dovrebbe stare dalla tua parte la squadra non dimentica. Dopo un esordio discreto, la seconda e la terza partita erano roba da spararsi, ma non potevo spararmi, dovevo andare avanti. Finché è venuta fuori la squadra del 78, la mia vera squadra del cuore».
Vede qualcosa di nuovo sotto il profilo tattico?
«No, nemmeno in Spagna dove si riempiono tanto la bocca ma con la Nazionale non combinano granché. In Italia tutti dicono di aver rinnegato il difensivismo e poi giocano con una punta sola, ma non si può pretendere che faccia tutto il povero Inzaghi. Poi si tratta sempre di barriere. Rocco le faceva a 20 metri dalla porta, la sua famosa Maginot, oggi si fanno a centrocampo».
Almeno in tv il calcio lo guarda? C’è qualche tecnico che le piace?
«Mi piace Ranieri, è una persona esperta e pacata, seria e civile. L’uomo giusto per la Juve. Non conosco personalmente Spalletti, ma mi piace il gioco della Roma, anche se è molto dispendioso con tutte quelle volate senza palla. Se ha riserve all’altezza, può essere l’anno buono, altrimenti resta una questione milanese. Col Milan più esperto, che ha problemi ma cerca di risolverli, mentre l’Inter i problemi è specializzata nel crearseli da sé. Quanto alla tv, è troppo piena di risse, di volgarità volute, mi crea meno arrabbiature quando è spenta. Posso dire una cosa che non sopporto? Life is now. Ma quale now? La vita è oggi se c’è il meglio di ieri e un progetto di domani».
Il suo ieri comincia da una foto di Campatelli sotto il cuscino.
«E ho esordito in A al suo fianco. Salendo la scaletta mi ha toccato la spalla: guarda che hai il 5 sul petto. Per l’emozione avevo messo la maglia a rovescio. Il mio ieri è la radiocronaca di Carosio nel ’38, io sulla piazza di Gradisca, i gol di Colaussi, uno del paese, come la riserva Castellani. Alla fine non c’era più una goccia di vino nelle cantine, ho bevuto anch’io che avevo 11 anni, ma poco, e ho pensato che volevo fare il calciatore perché il calcio dà felicità alla gente».
Ed è vero, valutando oggi?
«La felicità è come un’arietta che ogni tanto accarezza il volto. Ma le ferite, anche morali, non passano mai, ti segnano una vita. Non le dimentico. E nemmeno le emozioni: l’Inter resterà il primo amore della mia vita e il Torino il più forte. Ci sono arrivato dopo Superga, facevano fatica a pagarci lo stipendio, le docce al Filadelfia erano gelate, ma quando vedevi la scritta “Ex igne fax ardet nova” ti sentivi dentro un orgoglio, un senso di appartenenza, una cosa da brividi. I brividi che ho quando ripenso agli anni che ho addosso, a chi ho perso per strada: mio padre quand’ero in Sicilia, mia madre quand’ero in Olanda, Scirea che è morto a 35 anni, Ferrini a 37, Baretti a 50, e poi Brera e Arpino, che avevano litigato in un certo senso per colpa mia, una convocazione di Bettega che Brera non condivideva, e ho il rimorso di non essere riuscito a mettere pace, prima che morisse Arpino».
Che regalo s’aspetta per oggi?
«Niente, mi basta la presenza dei presenti. Di Luisa, che ho conosciuto nel ’48 sul tram numero 3, in corso Italia. Il mio amore di una vita, la mia allenatrice, da un po’ la mia badante, cioè da quando in casa non abbiamo figli e nipoti. E pazienza se non mi lascia più fumare».
Come le piacerebbe essere ricordato, fra un po’ d’anni?
«Come una persona perbene».

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