Gianni Riotta: quando Omero componeva l’epopea di Italia-Germania

Articolo tratto dal Corriere della Sera, luglio 1990

«A intervalli gli eroi si riunivano, per qualche impresa comune: una caccia, una conquista, una guerra» scrive Roberto Calasso ne «Le nozze di Cadmo e Armonia». Nel mondo contemporaneo l’adunata degli eroi avviene ogni quattro anni, quando il mondo assiste, allegro, ingenuo e nervoso, alla Coppa del Mondo di football. Ma, come alcune imprese degli eroi antichi restano più memorabili, Giasone e gli Argonauti, Achei e Troiani sotto Ilio, le crociere di Odisseo nel Mediterraneo, Orlando a Roncisvalle, Astolfo sulla Luna, alcune partite continuano a eccitare la fantasia degli sportivi. L’Uruguay che batte il Brasile in casa, nel Maracanà dei suicidi cantato da Paolo Conte, «L’uomo che è venuto da lontano, ah, ha la genialità di uno Schiaffino», la Germania che batte l’Ungheria nella finale del 1954 e firma il reingresso nel mondo civile, la cui concitata radiocronaca fa da finale al film «Il matrimonio di Maria Braun» di Fassbinder.

Nessuna partita però, almeno per gli italiani, supera il ricordo di Italia-Germania 4-3 al mondiale del Messico, il 17 giugno del 1970, venti anni fa. Se un vecchio match resta nella fantasia della gente deve esserci un motivo: nel caso di Italia-Germania è la regia del caso, che ha fatto di un episodio sportivo la cassetta degli attrezzi del Mito.

Al centro del campo gli eroi, i bianchi di Germania già vendicati dalla caduta della guerra e gli azzurri d’Italia, reduci da continue umiliazioni mondiali. «Sono una grandiosa visione, gli eroi, quando si schierano disciplinati» osserva Calasso e il vero cantore epico offre la formazione: «Orfeo, Asterione, Polifemo, Micio, Admeto, Erito, Echione, Etalide...» sino a Giasone elenca al verso 23 Apollonio Rodio nelle «Argonauti-che». Noi ricordiamo «Maier, Vogts, Patzke (Held), Schnellinger, Schultz, Beckenbauer, Grabowsky, Overath, Miiller, Seeler, Lohr (Libuda)» e «Albertosi, Burgnich, Facchetti, Cera, Rosato (Poletti), Bertini, Domenghini, Mazzola (Rivera), Boninsegna, De Sisti, Riva».

L’Italia segna subito, all’ottavo, con Boninsegna: è un puro fendente di Excalibur che pare redimere gli italiani dalla fama rinascimentale di esser più bravi con la sica, il vile coltello degli assassini mercenari, che con le armi in campo aperto. Da allora in avanti i tedeschi attaccano, bianchi e poderosi come i cavalieri teutonici che cercano di travolgere i contadini russi di Alexander Nevslqj nel film classico di Eisenstein: anche loro finiranno ingoiati dal ghiaccio, ma nei tempi supplementari.

Componente essenziale della leggenda è la tradizione orale. Battute e frasi, forse mai pronunciate, vengono ripetute sino a diventare «vere». Pare allora che Schnellinger, terzino mercenario del Milan, abbia detto «Ero talmente stanco, che al 90’ decisi di avvicinarmi agli spogliatoi. Vidi il passaggio e lo misi in rete». È l’inganno di un «traditore» ad aprire le porte della rocca: il Cavallo di Troia, Gano di Magonza (detto Cane, nel teatro dei pupi siciliani). Già Machiavelli aveva messo i principi italiani in guardia contro la venalità delle armate mercenarie.

Siamo 1 a 1 nel primo tempo supplementare. Quattro minuti dopo segna Müller, un calciatore che ha con la palla lo stesso rapporto di Benvenuto Cellini con i propri piatti, alla fusione del Perseo: quando vide che il metallo non bastava e la statua rischiava di rovinarsi, prese le stoviglie di stagno «e a uno a uno drento».

L’Italia è finita, slamo tornati il paese dei «camerieri», di Mussolini, 1 Troiani sono alle navi Achee e stanno per bruciarle. Ma nella schiera mitica del 1970 c’è anche Tarcisio Burgnich, cui bene si adattano i versi che Cardarelli dedicò ad Aiace: «A te non fu dato/ compiere imprese stupende e gratuite,/ atterrar Marte od Ettore,/ o d’Afrodite il mignolo ferire, bensì il combattimento orrido, immane,/ fra soverchianti avversari/ in giorni che non s’ama ricordare/…Eri la gran riserva/ nel pericolo estremo/ la resistenza, il muro, la fortezza». Attoniti gli assi, Burgnich tira all’ottavo e pareggia. Due a due.

E’ notte, per i frisi orari, in Italia. Osserva Karoly Kerenyl che Zeus temeva una sola divinità, «Nox», la Notte, ed Hemingway ha tradotto il mito per noi dicendo che di notte ogni guaio sembra maggiore: lo pensano anche i tedeschi quando Gigi Riva, al 14’ del primo tempo supplementare, riporta gli azzurri in vantaggio. Potrebbe finire li, e Italia-Germania resterebbe una partita umana, perché Riva, come il «domatore di cavalli Ettore» è un eroe umano. A lui è concesso solo arrivare sin lì. Invece, al 5’ del secondo tempo supplementare, Müller-Cellini pareggia ancora.

La palla toma al centro e i tedeschi non la toccheranno sino al gol, Rivera solo al centro dell’area. «Accade sempre un incidente quando un dio vuol rendere immortale un bambino» ammonisce Calasso. Rivera, a 16 anni in A, è il bambino degli dei, e deve perciò soffrire la staffetta come Odisseo, di cui Atena vuol mettere alla «prova la forza e il coraggio».

L’Italia vince, ma le prove non sono finite e, in finale, perderà complice anche la Discordia. Dicono che una lapide ricordi gli eroi dello stadio Azteca. Ho letto varie versioni dell’epigrafe, ma non ne ho mai visto una foto. E voi, avete mai visto una foto d’Atena o il videotape con le gesta del Cid Campeador?