Gianni Rivera: intervista novembre 1972

Dalle pagine del quotidiano La Stampa, una bella intervista al Golden Boy: «Sono 15 anni che sostengo un esame ad ogni partita: ma non mi promuovono mai del tutto»


Milano, 21 novembre 1972.

«Non sono l’eroe del derby, nel calcio non esistono eroi. Se domenica prossima il Milan fa una figuraccia, diranno che è colpa mia: c’è tanta gente che forse non aspetta altro. Ogni partita per me è un esame, sono quindici anni che continuo a sostenere esami e sono piuttosto stufo: non mi promuovono mai del tutto, c’è sempre chi fa delle riserve. Non sono un eroe e nemmeno un idolo: gli idoli cadono presto, sono di cartapesta ed io mi sforzo di essere un uomo come tutti gli altri, in carne ed ossa. Ma è difficile, sa».

Sì, per Gianni Rivera è difficile, quasi impossibile, essere «uno come tutti gli altri». A vent’anni invidiava gli altri ragazzi della sua età, mentre gli altri ragazzi della sua età invidiavano lui: perché era il «bambino d’oro» del calcio, era già ricco e famoso, le ragazze gli svolazzavano intorno come mosche sul miele. Eppure lui disse:

«Mi piacerebbe cantare ad alta voce per strada, baciare una ragazza in una via del centro, stare in giro magari fino alle due del mattino. Insomma, mi piacerebbe fare qualche piccola, pazzia, come tutti. Si è pagati bene, ma si rischia di diventare quasi dei robot».

Una sera andò in un locale con i coniugi Altafini, c’era anche la suocera di José. Fecero un po’ tardi, il giorno dopo un giornale milanese riportò a caratteri vistosi che Rivera era stato in un night sino all’alba con una magnifica bionda, e che poi se l’era portata a casa.

E’ nato in una casa rustica a due piani, col ballatoio sul cortile; quando esordì nell’Alessandria guadagnava ancora trentamila lire al mese (che facevano comodo, perché in casa si viveva con lo stipendio del padre, che lavorava nelle Ferrovie). Adesso è vicino alla trentina, il Milan lo paga cento volte tanto, ha un conto in banca da nababbo.

Non è avaro, ma neppure prodigo: il denaro lo scialacqua solo chi se lo procura senza fatica e anche fare il calciatore può essere una fatica, con tutti i fucili sempre puntati contro, con i lampi dei fotografi pronti ad immortalare ogni passo falso. Parlando con lui, si ha l’impressione che se fosse un pugile non si riuscirebbe mai a metterlo alle corde: Gianni se ne starebbe piantato lì, proprio in mezzo al ring, e cercherebbe di vincere prima con lo sguardo e poi con i pugni. Perché ti piazza gli occhi nei tuoi e cerca di scavarti dentro, non subisce mai il dialogo, lo impone: se lo attacchi, non si difende, contrattacca.

La sua faccia sembra il muso di una volpe, e della volpe ha anche la furbizia; è spavaldo, sicuro di sé, nessuna domanda lo coglie impreparato, perché sa ragionare in fretta e bene. E se un argomento non gli piace, sguscia via come un’anguilla. E’ freddo come il ghiaccio, almeno così pare. Non sorride neppure quando scherza. Ad esempio dice:

«Sono sempre sincero, e sa perché? Perché raccontare bugie è faticoso, bisogna tenersele a mente tutte, avere una memoria di ferro; e se uno se le dimentica fa delle figuracce».

Oppure: «Sa perché sono più simpatico alle donne che agli uomini? Soltanto perché non sono sposato: le ragazze sono sempre alla ricerca di un buon partito, e la speranza è l’ultima a morire».

E ancora: «Ogni settimana mi affibbiano una fidanzata diversa, non riesco neppure più a tenere il conto, è impossibile essere sempre aggiornati. Ma i giornalisti non hanno paura che litighino fra di loro?».

E aggiunge: «Sono sempre gentile: così, per educazione. Anche quando mando qualcuno a quel paese, lo faccio con calma, con gentilezza. Non costa nulla e lascia un buon ricordo».

Sembra un Rivera frivolo e un po’ snob: ma forse è solo una maschera, che si è appiccicato sul viso con le sue stesse mani. Perché a Rivera i discorsi che riescono meglio sono proprio quelli seri. I suoi nemici dicono che ha il pallone al piede ed il cervello solo nelle scarpe, lo accusano di essere soltanto un damerino, un «dandy»: ma hanno torto.

Aiutato da un giornalista, Rivera ha scritto due libri: «Un tocco in più» e «Dalla Corea al Quirinale» e i suoi amici ribattono che non esiste un attaccante in Italia che sappia scrivere come lui, né uno scrittore che abbia un tocco di palla come il suo. Ma hanno torto anche loro, perché Gianni si affretta a precisare:

«No, io non so tenere la penna in mano, forse un giorno proverò, chissà. Ma il merito è tutto di Del Buono, tutto suo: io gli raccontavo i fatti come mi venivano in mente, in modo confusionario. Non datemi meriti che non ho».

E lo dice convinto, senza falsa modestia, con gli occhi piantati nei tuoi. Lo hanno accusato anche di aver fatto polemiche inutili, di essersi voluto mettere in evidenza a tutti i costi, di aver attaccato gli arbitri senza avere prove in mano, cioè sapendo a priori di aver torto. Gianni replica, facendosi ancora più serio:

«Chi dice che parlo a vanvera si sbaglia, non sono un istintivo: parlo sempre dopo aver riflettuto, e bene. E non mi pento mai di ciò che ho detto, quando si prende una decisione tornare indietro è assurdo. Ciò non significa che ho sempre ragione: significa soltanto che sono convinto di averla, che parlo in buona fede. Ogni tanto arriva una goccia che fa traboccare il vaso, e allora esce anche tutta l’acqua che c’era dentro. Ma non dico certe cose per capriccio, il vaso era già pieno».

Rivera è l’eroe del derby, eppure aver battuto l’Inter per lui significa soprattutto «poter trascorrere una settimana in pace senza polemiche». E aggiunge che il calcio occupa soltanto una piccola fetta del suo cervello:

«Vi stupite? Eppure significa il dieci per cento della mia vita, o poco più. Ciascuno di noi cerca un angolo di libertà. Libertà assoluta, libertà totale, mi capite? Ciascuno di noi la cerca e pochi la trovano. Perché si è condizionati dalla società, in fondo siamo tutti un po’ schiavi. Ebbene, io nel calcio trovo questo tipo di libertà: in campo faccio ciò che voglio, sono realmente me stesso. Per questo amo giocare. Ma fuori, nella vita di tutti i giorni non ho ancora realizzato i miei obiettivi. Strano, vero? Sono ricco e famoso, non sono brutto, eppure in un certo senso la mia vita deve ancora cominciare. Eppure ho quasi trent’anni e sono sempre stato più maturo della mia età, il successo forse è arrivato troppo presto: a 16 anni ero già quello che guadagnava di più in famiglia».

Ma quali sono, allora gli obiettivi di Rivera? Per la prima volta Gianni non risponde con la consueta prontezza: cerca di fare l’anguilla, di sviare il discorso. Poi cede:

«Ecco, non so neppure io che cosa rispondere. Io sono religioso a modo mio, l’indirizzo della Chiesa non mi convince completamente; tutti dicono che dovrebbe seguire schemi nuovi, il che significa che quelli vecchi non funzionano, che c’è qualcosa che stona. Il discorso sarebbe lungo: vorrei la serenità spirituale, vorrei capire cos’è realmente Dio. Non ci riuscirò mai, forse: però è già importante tentare. A Mondo X ho trovato degli amici veri, gente che mi capisce. Il calcio è un gioco, ma non deve essere soltanto un gioco anche la vita».

  • Maurizio Caravella – La Stampa 22 novembre 1972