GIGI RIVA – LA STORIA DI ROMBO DI TUONO

Capitolo Sedicesimo

Già alle prese con l’angoscia di andare in Germania in precarie condizioni fisiche, Riva smarrisce la tranquillità. Al «Prater» — dove quattro anni prima aveva rischiato di chiudere con il calcio agonistico — fa lo spettatore in panchina. Gli azzurri pareggiano (0-0). Né Chinaglia, né Boninsegna, né Anastasi riescono, a sopperire all’assenza di Riva. La squadra denuncia preoccupanti carenze sul piano atletico. Molti giocatori sono «scarichi» fisicamente e psicologicamente. Si diffonde l’allarme e si paventa una «magra» In Coppa del Mondo.
Riva viene rimesso in sesto anche se le iniezioni miorilassanti gli fanno uno «strano effetto». Il 15 giugno, va in campo a Monaco contro HaitL Per lui è una partita di rodaggio. Molti, fra gli stessi giocatori, la considerano un allenamento. Valcareggi schiera: ZofI; Spinosi, Facchetti; Benetti, Morini, Burgnich; Mazzola, Capello, Chinaglia, Rivera; Riva. Haiti: Francillon; Bayonne, Jean Joseph; Auguste, Nazaire, Francois; Vorbe, Antoine, Desir, Sanon, Saint-Ville. Gli haitiani giocano al massimo delle loro possibilità. I nostri, vuoi per la sufficienza, vuoi per l’emozione del debutto iridato, stentano. Gigi s’impegna a fondo, sfiora il gol in due o tre occasioni ma il portiere haitiano sfodera parate strepitose. Nella ripresa Sanon, bruciando sullo scatto Spinosi, viola l’imbattibilità di Zoff (la resa avviene dopo 1143 minuti). Il fantasma della Corea aleggia sinistramente sull’Olympiastadion. Gli haitiani sembrano impazziti per la gioia ma la «danza negra» è di breve durata. Gli azzurri reagiscono, pareggiano con Rivera e passano in vantaggio per un autogol di Auguste, su tiro di Benetti.
A questo punto Valcareggi fa entrare Anastasi al posto di Chinaglia. Il laziale, passando accanto alla panchina, ha un gesto di rabbia e di spregio verso Valcareggi e manda il ct. a quel paese. La tv lo inquadra e milioni di italiani s’indignano. L’episodio avrà penosi strascichi. Anastasi segna il terzo gol della nostra sudatissima vittoria (3-1) e conquista il posto di titolare a scapito di Chinaglia che, negli spogliatoi, in preda all’ira, frantuma sei bottiglie d’acqua minerale: un paio di giorni dopo entra in polemica con tutti; gli fanno un processo-farsa in cui prima viene condannato a rientrare in Italia e poi, dopo aver fatto autocritica, è assolto grazie anche all’intervento del trainer laziale Maestrelli precipitatosi a Ludwigsburg su un aereo noleggiato appositamente. I critici non infieriscono contro i deludenti azzurri. Riva viene giudicato con qualche attenuante. Sono valutazioni benigne, incoraggianti.
Da Monaco a Stoccarda, quattri giorni dopo. Al Neckarstadion, di fronte a 50 mila italiani, incontriamo l’Argentina. I «gauchos» vivono in un clima caotico, devastato dalle polemiche, tra scandali. Isterismi, allegria e musica. Edmondo Fabbri, che segue i «mondiali» sul posto, pronostica un facile successo degli azzurri. Anche noi abbiamo i nostri guai. Il «caso» Chinaglia ha lasciato il segno. Valcareggi esclude il laziale e conferma la squadra che ha giocato a Monaco, con Anastasi centravanti. Eccola: Zoff; Spinosi, Facchetti; Benetti, Morini, Burgnich; Mazzola, Capello, Anastasi, Rivera, Riva. L’Argentina, che deve fare il risultato a tutti i costi, schiera un undici con un attacco con quattro punte: Carnevali; Wolff, Perfumo; Heredia, Sa, Telch; Houseman, Babington, Ayala, Kempes, Yazalde.
Gli argentini partono a razzo, ci mettono alle corde, favoriti anche da una mossa tattica (Houseman avanzato) a cui Valcareggi rimedia in ritardo. Segna infatti Houseman, un piccoletto in serata di grazia. Un’autorete di Perfumo, su tiro di Benetti, porta gli azzurri in parità. L’1-1 è un premio per noi anche se, nel finale, Mazzola fallisce, per un ciuffo d’erba, la palla vincente. La nostra squadra non gira. Rivera tocca il fondo al culmine di ima prestazione disastrosa. Sembra svuotato, inciampa sul pallone in modo grottesco e viene sostituito durante la ripresa con Causio. Wilson subentra all’infortunato Morini. Riva, mal servito, è inconcludente: le sue gambe sono appesantite dalla carenza di preparazione e dallo sforzo compiuto a Monaco. Rivera e Riva vengono additati come i principali responsabili dell’infelice esibizione azzurra. I critici sparano a zero. Molti chiedono la loro esclusione nella gara decisiva con la Polonia. I giornali tedeschi sono durissimi. Il «BZ» scrive: «Rivera sembrava un monumento, Riva sembrava Incatenato ». La «Bild Zeitung»: «Il signor Rivera, vecchio e grassottello, vale la metà di prima; il signor Riva, cacciatore di gol, è stato bravo e innocuo come il leone Clarence dei film».
A furor di popolo Rivera esce di squadra. Accetta le critiche: «Non esistevo». Riva, invece, tenta una timida difesa; Dice: «Non è colpa mia. Noi attaccanti siamo condizionati dal gioco della squadra. I centrocampisti hanno sempre dovuto rincorrere, gli argentini, senza poter mai assumere l’iniziativa e quando manca l’iniziativa mancano i suggerimenti per le punte. E mancando i passaggi, che razza di partita volete che facessimo? Non crediate che la situazione migliorerebbe con un altro al posto mio». Si parla di un progetto clamoroso: ripescare Chinaglia. La situazione si è fatta drammatica perché dobbiamo incontrare la fortissima Polonia. Anche se ci basta il pareggio per passare il turno, l’atmosfera è impregnata di pessimismo. Gli azzurri non godono di alcuna fiducia. L’ambiente è diviso da profonde ed insanabili crepe, non c’è unità di squadra. Allodi si è ormai messo da parte dopo che Carraro ha invaso il territorio di sua competenza. Valcareggi prende una decisione coraggiosa: esclude Riva, dopo Rivera. Quando glielo comunicano, Riva ha un’orgogliosa impennata: «Sembra di essere all’asilo, qui stiamo diventando tutti bambini. Neppure in Inghilterra, all’epoca della Corea, c’era una situazione simile». Tocca a Chinaglia «salvare la patria calcistica», con Anastasi all’ala sinistra.
Il 23 giugno, a Stoccarda, affrontiamo la Polonia. Lo stadio è innondato di sole e di bandiere tricolori. Gli italiani sperano ancora. Rivera è in tribuna, Riva è in panchina, in borghese. L’avvio è promettente (l’arbitro ci nega un rigore) ma i polacchi sono superiori: senza forzare ci mettono in ginocchio con due stoccate di Deyna e Szarmach. Nel finale spasmodico segna Capello ma è il gol della bandiera. Perdiamo 1-2. La Coppa del Mondo è finita per l’Italia. I nostri connazionali, inferociti, insultano gli azzurri al grido di «buffoni, buffoni» e «Corea, Corea». E’ il fiasco, umiliante quasi quanto quello del 1966. «Non eravamo noi i nemici della Patria», sbotta Rivera. E Riva di rimando: «Ho visto tanta gente più sotto tono di me anche se riconosco che era giusto io riposassi. Purtroppo non giocherò un’altra partita. Ci sentiamo umiliati. Tutti abbiamo commesso errori. Cercheremo di rimediare. Non si può dire con certezza se è tutto da rifare. Secondo me basterebbe qualche ritocco. Del resto abbiamo subito dalla Polonia due gol che si potevano evitare». Di se stesso, Gigi riconosce che gli era mancata la spinta in area e che dopo un allungo si sentiva stanco. «Se avessi segnato un gol contro Haiti — recrimina — ne avrei beneficiato moralmente e contro l’Argentina avrei giocato con un altro spirito».
Un imponente schieramento di forza pubblica impedisce a tremila tifosi di lanciare pomodori e uova marce sui reduci da Stoccarda all’aeroporto della Malpensa. Il «rompete le righe» avviene senza incidenti. Cominciano i processi. Riva è tra i maggiori imputati del disastro azzurro. Ha fallito il suo secondo «mondiale» ma questa volta non ha responsabilità dirette: non era — né poteva essere — il «vero» Riva, il Riva che ci avrebbe probabilmente tolto dai guai.
La Coppa del Mondo continua anche senza di noi. Trionfa la Germania Ovest, battendo a sorpresa nella finalissima la favorita Olanda. I tedeschi vincono giocando all’«italiana», quel gioco che da noi viene ormai considerato stantio. L’Italia deve invece ripartire da zero. Lo staff azzurro si scioglie. Carraro si dimette — com’era nei programmi — da presidente del settore tecnico e conserva la carica di presidente della Lega, con la prospettiva di diventare presidente della Figc. Valcareggi paga per tutti e, dopo nove anni, è costretto a tirarsi da parte: la sua Nazionale, pur tenendo conto delle disfatte di Bruxelles (1972) e di Stoccarda (1974) è seconda, come risultati, solo a quella leggendaria di Vittorio Pozzo. Allodi, emarginato durante la fase cruciale dei «mondiali», ottiene pieni poteri per la ristrutturazione dei quadri azzurri. Il presidente Franchi gli dà carta bianca ma Allodi, dopo lunghe riflessioni, preferisce declinare l’offerta. E così, Franchi affida la Nazionale al dottor Fulvio Bernardini, 68 anni, tecnico dall’illustre passato che era ormai in pensione. Bernardini, personaggio eccentrico, accetta con entusiasmo. «Mi sento ringiovanito di vent’anni», dice il neo responsabile azzurro che svolge anche attività giornalistica. E con i fatti cerca di dimostrarlo, per smentire coloro che, pur riconoscendogli una vasta esperienza, non lo considerano all’altezza dei tempi.
«I gol di Riva hanno risolto tanti problemi, perché Gigi non dovrebbe risolvere anche i miei?», si chiede Fulvio Bernardini. Il «dottore» non avrà questa soddisfazione. Una serie di contrattempi impediscono a Riva di tornare a giocare in Nazionale. Qualcosa è profondamente mutato nei rapporti tra Riva e il Cagliari: i dirigenti sono decisi a fargli pagare il rifiuto a trasferirsi al Milan riducendogli notevolmente il premio d’ingaggio: cinquanta milioni l’anno più premi speciali! Il «bomber» capisce le esigenze del club ed è disposto a subire un lieve ritocco. Mentre gli azzurri si allenano a Coverciano, Riva si allena da solo nello stadio Sant’Elia, costruito quattro anni prima come un monumento alla sua bravura. Continua a ribellarsi ad un sistema che gli chiede di segnale gol e obbedire, che gli impone di pagare il «conto» per non aver voluto cambiare società: lui dice che non si può seppellire un uomo sotto il denaro e pretendere sia solo un calciatore.
« Piuttosto chiudo con il calcio oppure gioco gratis», afferma. I tifosi, di fronte ai risultati negativi della squadra, fanno pressioni perché la vertenza si risolva: sono persino disposti a fare una colletta. Gigi si commuove ma li invita a desistere. E decide di giocare, senza contratto, contro il Como in una gara di Coppa Italia che non fa più classifica perché il Cagliari è già eliminato. Segna un gol e i rossoblu pareggiano (2-2). Qualche tempo dopo Riva riesce a far valere le sue ragioni e si accorda. Con rinnovato entusiasmo, si rimette al lavoro per tornare ad essere la forza trainante di una squadra parzialmente rinnovata e ‘ringiovanita, destinata, sulla carta, a disputare una stagione tranquilla.
Alla vigilia del campionato, il 3 ottobre, durante un allenamento, Gigi si produce una profonda lesione ai gemelli del polpaccio sinistro. Un altro infortunio, uno dei più gravi. Sembra una maledizione. Si sottopone a una lunga terapia. Dopo un mese sembra guarito, prova ma la cicatrice si riapre. Senza di lui il Cagliari stenta, va in crisi. Il licenziamento di Chiappella è inevitabile. Arriva Radice, un tecnico della «nouvelle vague», lombardo come Riva. I loro caratteri hanno certe affinità: si intendono a meraviglia. Radice non mette fretta a Riva: conta sui suoi gol per raggiungere la salvezza ma vuole che il suo recupero fisico sia totale, che non si registrino altre ricadute che possano compromettere definitivamente l’integrità del cannoniere.
Altre cure, cauta ripresa, poi il debutto, con la Fiorentina. Vince il Cagliari (2-1) e Riva apre le marcature su rigore. Disputa quattro partite consecutive, con un rendimento modesto ma basta la sua presenza per restituire fiducia ai compagni. Riposa un turno poi rientra a Varese ed è il matchwinner con uno strepitoso gol di destro. La domenica seguente, con il Bologna, il vecchio infortunio si riacutizza e, dopo mezz’ora, cede il posto a Virdis. Il campionato, per lui, è finito con dieci giornate d’anticipo. Anche senza Riva il Cagliari riesce a condurre in porto la salvezza, grazie ai dieci gol di Bobo Gori. Per Gigi è la stagione più magra: otto presente, due reti.
Su un punto sono tutti d’accordo: senza Radice il Cagliari sarebbe retrocesso. Gori, con i suoi gol, è stato il braccio ma la mente era in panchina. Il successo di Radice, che un anno prima la Fiorentina aveva inspiegabilmente costretto a rassegnare le dimissioni, non passa inosservato: il Torino, dopo che Fabbri si è dimesso a furor di popolo, assume il tecnico brianzolo. Riva non può far nulla per opporsi alla partenza dell’amico Radice: «Speravo restasse ancora un anno — puntualizza Riva —: sarebbe rimasto anche lui vittima del “mal di Sardegna” e non avrebbe più lasciato l’isola. Invece è arrivata l’offerta del Torino… Con lui, il Cagliari poteva tentare la ricostruzione».
La Juventus ha vinto il suo terzo scudetto e riprova a bussare al Cagliari, disposta a prendere Riva — sempre appiedato dal maligno infortunio — anche se sulla validità dell’attaccante pesa un’incognita. Il Cagliari è in difficoltà finanziarie e acconsente a cedere Gori in cambio di Longobucco, della comproprietà di Viola e di un forte conguaglio in milioni. Riva resta: non vuole «divorziare» e i dirigenti non s’azzardano più a proporgli il trasferimento. Ha un contratto biennale. Senza un indirizzo unitario nè una atmosfera concorde, i nodi del Cagliari vengono al pettine.
Privato della «spalla» ideale di Riva, il Cagliari comincia un campionato che risulterà «nero». Il gioco d’attacco non è più attendibile mentre, a metà campo, manca una valida organizzazione: tutto questo senza il conforto di una difesa registrata che possa almeno garantire un’impostazione da 0-0. I dirigenti pensando di aver venduto bene e comprato meglio, s’illudono di avere una squadra ideale per un campionato di transizione. Invece, ad errori antichi (politica di « svendita » dei vari Albertosi, Cera e Domenghini) si sono aggiunti errori contingenti. E il Cagliari, quel bel giocattolo che tutti i sardi avevano amato, s’è rotto definitivamente. La parabola discendente è inarrestabile.
«La delusione più grossa — commenta Riva dopo una sconfitta — è di dover rimanere sempre fermo in area di rigore, vedere la squadra sfasciarsi e non poter fare altro che guardare. Devo segnare, è vero, ma tocco tre palloni a partita. In queste condizioni sarebbe molto meglio giocare in difesa, almeno sarei nel vivo del gioco, mi sentirei più utile. E’ la maniera con cui si perde che mi demoralizza. Dopo dieci partite abbiamo tre punti, continuiamo a perdere. Aver fiducia è difficile».
A chi lo conforta dicendo che è tornato quello dei vecchi tempi, che la Nazionale (guidata ora da Beazort e Bernardini) vuole riaffidargli la maglia n. 11, per le gare decisive per la qualificazione alla Coppa del Mondo ’78, lui risponde: «I vecchi tempi, già, Sono davvero vecchi quei tempi…». Ha ormai la sensazione che sarà l’anno del ritorno in purgatorio, di ricadere in B dopo dodici anni, dopo aver vinto uno scudetto ed aver onorato il gioco. E’ la nemesi di un ciclo eccezionale. Riva spera di cadere con dignità e promette che giocherà anche in B se la società sarà disposta a varare un valido programma per rinascere, per tentare una risalita immediata. E’ disposto anche a diventare giocatore-dirigente mentre il presidente Artica sta per dare le dimissioni senza lasciare troppi rimpianti.
Ma per Riva c’è un’altra tappa del suo lungo calvario. Il 1° febbraio 1976, al 37′ del secondo tempo di Cagliari-Milan, la sfortuna vigliacca lo colpisce a tradimento: il campione si lascia scivolare sull’erba, una smorfia dolorosa, la mano sinistra sull’inguine lacerato da uno strappo all’adduttore destro. Gigi impreca, vive un altro dramma mentre il pubblico sgomento capisce e, in silenzio, gli rende omaggio: al «re» che abdica, alla vittima predestinata. Pochi giorni dopo si ritrova in un lettino della stanza n. 120, nella clinica ortopedica dell’Università di Roma. Lo operano, lo chiudono in un busto di gesso. Nel suo sguardo un vago sorriso. Riaffiora la speranza. L’eroe è già risorto tre volte dopo indicibili sofferenze. Risorgerà ancora? Fausta, sua sorella, dice che Gigi è soprattutto un «campione di uomo». L’uomo Riva resta un esempio, come la sua inimitabile carriera leggendaria.