Giovanni Arpino: Cronache Messicane

22 giugno: Un trionfo che convince

«Quale dei due amanti soffre pene maggiori? – Quello che resta o quello che se ne va? – Chi rimane, rimane piangendo, chi se ne va, se ne va sospirando». Con questi versi il Messico ci dice addio dalla pagina di un quotidiano che mostra, sotto l’ingenua poesiola, due navi che si allontanano portando scritto sui fianchi l’uria «Olimpiade ’68» e l’altra «Football ’70». Una grande «fiesta» è finita, comincia la stagione delle piogge, tra calori fumosi e tropicali abbandoni. Se n’è andata anche la Coppa del Mondo, abbiamo dovuto dirle addio a denti stretti ma non senza accettare le ragioni imposte dal gioco. Il «rey» Pelé corona la sua carriera di santo protettore del football sudamericano con un trionfo che difficilmente si ripeterà nei prossimi vent’anni. La Coppa Rimet è brasiliana per sempre. Le ragioni della vittoria «carioca» sono molte e tutte grandiose: la forza e l’abilità giocolieristica e dirompente di uomini stilisticamente superdotati, giaguari sottili e abili fino alla recita. Quando Pelé e Tostao, Gerson o Jairzinho toccano il pallone, poche squadre possono opporvisi. Non c’è schema, non c’è barriera che tenga, non esistono filtri di centrocampo che durino novanta minuti, non sono sufficienti le botte, i colpi maligni, la opposizione puramente atletica, perché con un’invenzione geniale, un tocco fantasioso e volante, la liberazione di un compagno in velocità, un passaggio morbido ed astuto i brasiliani trovano sempre il modo di farsi largo, di andare in gol. Dei «cariocas» ci si può stupire solo quando perdono. Non dovrebbero perdere mai, infatti, hanno sprecato incontri e campionati mondiali con autentica sregolatezza, quest’anno si sono decisi con grande serietà. Hanno affrontato allenamenti duri, hanno esperimentato tecniche respiratorie derivate da quelle degli astronauti, hanno rinunciato alle trenta sigarette al giorno. Un brasiliano allenato non è più soltanto un giaguaro, ma un clown sublime. Di questi clowns i «cariocas» ne allineano quattro, e se gli altri compagni sono mediocri il risultato degli incontri non cambia. Pelé e tutti i suoi hanno sempre quei dieci minuti in cui. innestando una marcia superiore, sfasciano le difese avversarie. L’Italia ha sostenuto il peso di una lotta impari. I discorsi a posteriori su Rivera al posto di Mazzola nel secondo tempo sanno troppo del senno di poi. Rivera è un rifinitore che segna poi e non protegge difesa e centrocampo. Mazzola si è battuto al massimo. Tutti e due, secondo l’eterno dilemma della Nazionale di questi anni, si elidono a vicenda se entrano insieme in gara. A favore di Rivera parla però una statistica: ha giocato per complessivi 170 minuti in Messico, sui 480 sostenuti dagli azzurri. Senza di lui. Riva non ha mai segnato. Sono cifre che contano, ma non possono influire decisamente su un commento per Italia-Brasile Questo Brasile sa imporci tre gol di scarto, e forse avrebbe segnato di più se anche noi fossimo riusciti a mettere dentro qualche pallone. Sarebbe ingeneroso restituire oggi questi azzurri a polemiche stantie e interessate, ad umori isterici insomma alle diatribe di sempre. Siamo secondi, è il posto che ci spetta, lo si è conquistato lottando duramente in un torneo non perfettissimo perché viziato da un’altitudine di cui tutti hanno sofferto. Con questo Brasile potevamo vincere solo usufruendo di immensa fortuna. Una fortuna che avrebbe però defraudato i brasiliani, individualmente in grado di risolvere ogni questione calcistica se non intervengono altri fattori a inclinare la partita. Rivera è sceso in campo negli ultimi sei minuti, ha toccato due volte la palla, riuscendo a spartire con la squadra soltanto rabbiosa amarezza e indomabile orgoglio. La partita esigeva una scelta. Forse reggendo sul doppio binario dei «gemelli» interscambiabili, Mazzola-Rivera, sarebbe andata diversamente? C’è da dubitarne. I «numeri» sciorinati dai brasiliani hanno sottomesso compagini molto più robuste della nostra, compresa l’indomabile Inghilterra, partita in questi mondiali con «chanches» assai più notevoli di quelle azzurre. La favola della Coppa ci ha abbagliato per un momento. La realtà palpabile del nostro football difficilmente poteva esprimersi con un risultato maggiore. Forse il peso di un Riva perfettissimo (come due mesi fa nel Cagliari) avrebbe aumentato le nostre possibilità, avrebbe ridotto le distanze tra «cariocas» e azzurri. Ma difficilmente sarebbe riuscito ad annullarle. Era incantevole tentare ragionamenti sugli azzurri finalisti. Ogni alchimia dialettica, però, finiva per riserbarci poco spazio, e per lasciare larghissimo margine all’appoggio della sorte. Certo, se Riva infilava quel suo siluro nei primi minuti, se Domenghini all’inizio del secondo tempo non vedeva deviato sull’esterno della rete una sua sciabolata da venti metri, se e altri mille se… Ma questi modi di commentare sbriciolano il senso e il segreto di una partita. Il campionato del mondo impone una valutazione ad altezza diversa. Rivera sì o Rivera no, la nostra squadra si è comportata come poteva e doveva, talora mettendo persino in soggezione un complesso come quello brasiliano che si fida talmente di se stesso da squilibrarsi fino al rischio. Pelé ed i suoi colleghi campioni lasciano il Messico con un titolo che fa storia. Sono i primi del mondò, se si gioca a calcio. Sono battibili solo per caso, o per scarsezza di impegno, o perché logorati da troppa attività. Possono perdere qualche incontro, ma insegnano calcio a tutti, se appena glielo si consente e talvolta anche se gli si oppone tutta la rabbia e tutti gli stinchi ferrati possibili. Non è stata nostra, questa coppa. Ma gli azzurri erano calciatori, quindi gente soggetta ad errare, a inventare o sbagliare un gol, a subire e dominare emozioni. I brasiliani sono dei «toreri» che non sbagliano mossa in attacco, che con un temperino uccidono il toro più furente, facendolo morire poco a poco in un assiduo lavoro ai fianchi prima del tocco finale, che ti recide il midollo. Essere arrivati alle loro spalle è lusinghiero, costituisce un’impresa che trenta giorni fa tutti (e non solo in Italia) avrebbero sottoscritto Ciecamente. La vita può essere sogno, il football mai. Crudele spettacolo ad eliminazione, esige sempre un vincitore e una vittima. Riconosciamo ai nostri azzurri il merito di aver duramente combattuto, di non aver mai offerto il collo per il sacrificio. La partita è chiusa, il migliore ha vinto, ogni eccesso di critica o di rimpianto farebbe torto proprio a coloro che hanno dimostrato tanto animo, tanta lealtà.