Giovanni Arpino: Cronache Messicane

8 giugno: Azzurri nel limbo

Ho visto il calcio, quello vero. Sembra paradossale dirlo, soprattutto da parte di chi segue da tempo vicende e protagonisti del football, eppure è così. Ho visto il calcio di Pelé, di Rivelino, di Jairzinho, di Moore, di Charlton. Due tipi di football: quello giocolieristico, astuto, machiavellico dei brasiliani e quello atletico, orgoglioso, intelligente degli inglesi. E’ una prova del nove per chi vuole occuparsi con coscienza delle cose calcistiche. Non riconoscerlo costituirebbe colpa. Messico (per via della vittoria sul Salvador) e Guadalajara, invasa dai «carioca» brasiliani, sono in festa da due giorni. I monumenti sono stati occupati da torme di tifosi sbandieranti, urlanti, carichi di trombe e bandiere, nei caffè si vuotano barili di birra e migliaia di bottiglie di tequila. La sagoma del Milite Ignoto messicano, a Città del Messico, è letteralmente ricoperta, da domenica, da grappoli di «aficionados» che si danno il turno per festeggiare la loro squadra entrata nel quarti di finale. E a Guadalajara (un’ora di volo, ma proibitivo data la faciloneria delle aviolinee messicane) i brasiliani al seguito della squadra occupano ancora oggi le rotaie dei tram, straripano da alberghi e marciapiedi, brindando, ululando, facendo risuonare tamburi. Che cosa posso dire al povero italiano (povero in vari sensi) arrivato giorni fa in bicicletta dall’Uruguay per vedere all’opera i nostri azzurri? Ha impiegato tre me si e mezzo pedalando. E’ ripartito di qui con l’aiuto della Croce Rossa. Un fanatico? Certo, ma chi non lo è? Perché non esserlo? Inutile nasconderlo: abbiamo bisogno dei due «R» nostrani, avremmo avuto bisogno, perché forse è troppo tardi, oggi. I due «R» sono, indiscutibilmente, Nereo Rocco e Gianni Rivera. Il primo non riesce a spiegarsi le contorsioni dialettiche grazie alle quali Rivera non è messo in squadra. «Datemi Massola e Rivera nel Milan e vi laccio vedere se possono o no coesistere», giura Rocco con faccia feroce. Altrettanto dicono due elementi di primo piano della squadra brasiliana, Gerson e Rivelino. Dice Gerson: «Un uomo come Rivera avrebbe un posto fisso nella nostra nazionale». Dice Rivelino: «Ho imparato a giocare al calcio con Dino Sani, di ritorno dal Milan. E Dino Sani mi disse sempre: cerca di diventare come Rivera». Rivera non è un atleta completo, discutere sui suoi difetti è inutile. Sono visibili e, purtroppo, non pochi. Però, la sua classe avrebbe potuto squillare con alcuni tocchi magici in questo clima, a questa altitudine, in questo gioco rallentato. Non gli si è data (non gli si dà) fiducia. Giocherà — forse — solo per forza, per il cumulo di circostanze che lo impongono. Come sempre, ci tradiamo da noi. Il nostro calcio è lo specchio deformante e instantaneo dei difetti che ci travagliano. Non vogliamo, qui, criticare Mandelli o Valcareggi e dire che un Rocco (cioè un Ramsey) avrebbe tenuto in mano più salda e agevole la nostra squadra. Anche Mandelli e Valcareggi ci somigliano, e per costituire una Nazionale esemplare sarebbe necessario il comando di un uomo più categorico e meno oscillante nell’equilibrio nervoso. Il tifoso ha il diritto di domandarsi: azzurri, dove siete? Li adora, li culla, li predilige da sempre, ha diritto quindi a pretendere una pubblica soddisfazione sul campo. Soprattutto in questi difficilissimi mondiali, dove tutti ci hanno considerati a livello dei più grandi favoriti. Ma ho visto il Brasile vincere (per caso, abilità e fortuna) e l’Inghilterra perdere (per sfortuna, eccesso d’orgoglio e qualche sbaglio clamoroso), e devo ripetermi: il calcio è quello, cioè un gioco virile, intelligente, aperto. Gli inglesi, detestatissimi in Messico per l’assenza di diplomazia del loro allenatore e per il «fattaccio» di Moore, hanno fatto ringoiare ai tifosi brasiliani il loro grido fino al 15′ della ripresa. Meritavano, anzi, di trovarsi in vantaggio. Il più umile tifoso, il più diligente critico brasiliano non avrebbe avuto niente da ridire. E questo in uno stadio tutto carioca, a qua ranta gradi di temperatura, a circa duemila metri di altitudine. Il Brasile ha contenuto, reagito, vinto. E proprio vincendo ha saputo rimettersi allo stesso livello degli avversari battuti. Dove siamo, dunque, timidi azzurri, arroccati a ribattere palle in difesa, con due sole punte che si dannano in attacco, e tutti contenti di chiudere zero a zero con un Uruguay composto, tuttalpiù, da astute marmotte? Il torneo mondiale (compresa la derelitta ma fiera Israele o i cecoslovacchi, venuti meno a tutte le previsioni) è una lezione che va meditata, anche se arrivassimo alle semifinali. Una lezione di agilità dirigenziale, di virilità ; atletica, di dedizione al proprio lavoro, di mancanza di divismi stupidi e provinciali, che purtroppo permangono nel nostro ambiente. Bobby Charlton è, come Pelé, un «rey». Eppure, il suo allenatore lo ha ritirato dal campo appena l’ha visto troppo stanco. Nessuno s’è sognato di discuterne. Cosa sarebbe successo nel clan azzurro se avessero schierato e poi tolto un Rivera, un Mazzola? Il brasiliano Gerson ci dice, con faccia serissima: « Non capisco più che concetto abbiate voi in Italia del football ». La nazionale va ancora guardata con affetto e interesse. Ma al fondo del nostro esame c’è amarezza, incredulità, rabbia impotente, mentre guardiamo certi nostri atleti sprecarsi, mentre constatiamo perdute varie possibilità. Tra i provvisori vincitori e gli sconfitti di questi «ottavi», noi non ci siamo. Costituiamo una zona grigia di limbo. E solo per colpa nostra.