Giovanni Arpino: Cronache Messicane

10 giugno: La babele in Nazionale

Guardo l’acqua immobile della piscina e mi stupisco di non veder galleggiare un cadavere come nella famosa scena di Viale del tramonto. Ecco il Parco dei Principi, hotel dei giocatori azzurri, sorvegliato da guardie con elmetto e mitragliatore. Ecco qualche giocatore con aria ancora assonnata che in tuta e ciabatte attraversa il giardino per il primo caffè: sempre identici i saluti, le strette di mano, i sorrisi autentici o di circostanza. Eppure c’è un cadavere sotto il pelo dell’acqua. Non è facile vederlo, forse non lo si vuole vedere, ma esiste. Un cadavere con nome umilissimo. Si chiama concordia, e forse, come cognome, buona fede. Gli altri nomi li conosciamo tutti a memoria, i volti sono quelli che abbiamo visto e rivisto inquadrati da centinaia di fotografie. Quindi l’interpretazione è facile. Siamo arrivati a questi «mondiali» con una squadra discretamente forte, ben allenata, con uomini convinti di dover dare il massimo. Ma questo non è sufficiente nel calcio nostrano (quel calcio che un grande giocatore brasiliano confessa «di non capire più»). Questo è solo un trampolino di lancio per una infinità di manovre, di sotterfugi, di giri di giostra. Potremmo arrivare a buon punto in questa Coppa Rimet (forse ci arriveremo o forse no, la fortuna deve anche lei dettare le sue leggi), ma certo abbiamo fatto di tutto per creare un’atmosfera di crisi, di incertezza dovuta a malignità, astuzie diplomatiche giocate e rientrate, dissidi e manovre al di là del lecito. Ci si scaglia su Rivera come su un osso da incenerire, dimenticando che, dopotutto, è soltanto un giocatore di calcio. Si fa una squadra su Riva, ma poi nessuno osa dire a Riva cosa deve fare, e come. Quasi che Riva fosse un idolo misterioso, da circondare con sacrosanto silenzio. I dirigenti o non si parlano o fingono di parlarsi. Telefonate notturne tra un clan e l’altro spargono notizie false, pettegolezzi veri. Si parla di un nastro registrato su cui Riva avrebbe detto cose tremende. Il nastro non esiste, ma il nostro goleador è irritatissimo e minaccia di spaccare il muso a vari critici sportivi. Astio, invidia, piccole «scalate» a piccole poltrone, sotterranee battaglie per poltrone più grandi e più comode, hanno finito per creare al Parco dei Principi un clima adatto a ridicoli Borgia del «football all’italiana». Siamo stati bravissimi a lusingare i messicani, a tener vive le pubbliche relazioni, a mandare capitan Facchetti in visita per gli ospedali. Ma ancora più bravi siamo stati nel dilaniarci tra di noi, tutti quanti: dirigenti, medici, esperti di ogni risma, firme illustri di fogli sportivi e giovani cronisti addetti alla caccia delle notizie. La guerra fratricida, anche nel calcio, è la preferita dagli italiani. I meno colpevoli sono proprio loro, i giocatori. Ci tengono a battersi, non ne vogliono sapere di nuove pomodorate al ritorno a casa, sanno di dover difendere una qualifica professionale, un guadagno più che sensibile, un avvenire. Ma non portano la « greca » sul braccio, loro, devono stare agli ordini, spesso contraddittori, spesso oscuri, spesso privi di senso. Si è rispedito a casa un Lodetti per tenere tre stopper, a Rivera non si dice se gioca o non gioca come se fosse l’ultimo arrivato. Se poi sbaglia si rimanda la punizione, a Riva chiuso come un eremita nella sua stanza non si dà una mano sul piano psicologico. Le conferenze stampa di ogni mattino, tenute da Mandelli e Valcareggi, sono giri di valzer (talora prefabbricati) che non si enucleano mai attorno a un quesito preciso. Le domande serie vengono invariabilmente eluse. A un azzurro che esordisce in campo internazionale, dopo la partita non si dice un «bene » oppure «male». Il bussolotto è pieno, ma come lo rovesci vedi che le combinazioni negative sono infinite. Abbiamo sempre detto che il calcio, come fenomeno, come spettacolo, come organizzazione, riflette la nostra società. Quindi questo specchio «azzurro» ci rimanda negli occhi tutte le antiche beghe, i complotti, la tensione, l’isteria, la ricerca di alibi, le contorsioni di corridoio che contraddistinguono tante fasi e tanti settori della nostra vita. Una pena. E tuttavia si potrebbe anche andare avanti e salvare la faccia. Proprio qui sta l’assurdo. Proprio questa è l’ipotesi che sembra stridere con la realtà di fondo e invece ne fa parte, la condiziona di giorno in giorno. E c’è chi spera in una seconda Corea. Proprio. Perché farebbe notizia, creerebbe quell’atmosfera di livido scandalo in cui a taluni piace crogiolarsi. E più o meno chiunque approfitta del suo pulpito critico per lanciare altro olio sul fuoco, per stabilire altri invisibili legami con questa o quella corrente dirigenziale, ispirarla, venirne ispirato. E tutto per qualche titolo a sensazione, per rendere più allucinanti le riflessioni del povero ignaro tifoso costretto a subire mille levate di scudi e quindi squallidi spettacoli davanti al video. In troppi esplode, di colpo o premeditatamente, la voglia moralistica, la tendenza ad astratti e professorali «J’accuse», cubitali negli aggettivi ma che tradiscono l’ambizione personalistica. La nostra parte, alla Coppa Rimet, rischia d’essere quella di un Pulcinella che per la fame si mangia le proprie dita. Oppure quella di un Balanzone, che tiene i suoi pochi soldi in una tasca bucata pur sapendo benissimo che è bucata. La parola «nazionale» è, come diceva un saggista politico anni fa, «aria fritta». Le lotte intestine, tra l’hotel degli azzurri e i vari alberghi dove sono sparsi dirigenti, incaricati varii e critici sportivi, prevalgono sull’ interesse collettivo creando una babele di interpre-tazioni e tendenze. No, non è il pallone in gioco, e neppure l’interesse di tanti appassionati italiani, ma uno stipendio, un’«escalation», l’esibizionismo, l’attacco e la difesa del tizio e del caio. Questo è il momento per augurare buona fortuna ai nostri azzurri. Ne hanno veramente bisogno. Se ottengono qualche vittoria (che subito tutti faranno propria, perché siamo fenomenali quando scatta il minuto in cui «accorrere in soccorso del vincitore») vorrà dire che questi ragazzi sono abbastanza forti. Se non i migliori del mondo, certamente migliori di chi li amministra, di chi li manovra, di chi li giudica.