Giovanni Arpino: Cronache tedesche

25 giugno 1974: La lezione di Stoccarda

logo74-bar3-address-wp La malinconica eliminazione dai campionati mondiali di calcio, subita domenica scorsa al Neckarstadion di Stoccarda dai giocatori azzurri, si può legare in qualche modo alla crisi che il nostro Paese attraversa, alle sue difficoltà di recuperare un’autentica forza reattiva? E’ un interrogativo difficile, per chi non intende dilatare un fatto sportivo, benché importante, o approfittare di questo fatto sportivo, sia vittoria sia sconfitta, per facili appendici sociologiche. E’ tuttavia evidente che in anni ormai lontani, quando un club calcistico italiano si imponeva sui campi stranieri, l’attenzione del mondo non solo sportivo sottolineava l’avvenimento dicendo: questi italiani sono proprio vivi, il «miracolo» lo stanno compiendo in tante direzioni. I gol di Mazzola nei famosi contropiedi interisti equivalevano ad altri prodotti nostrani, che si facevano largo sui mercati mondiali. Da allora, e come procedendo su due scivoli paralleli, anche le «soddisfazioni» sportive sono diminuite, così come si son fatti precari e arrischiami i nostri traffici, i nostri scambi. L’impennata del ’70 in Messico illuse troppo, quel secondo posto fornì cuscini di allori su cui subito posarono il capo tanti «governanti» del sistema pallonaro italiano. Giustamente oggi si chiede una critica verso la gestione del potere sportivo, che ha amministrato caoticamente e con abili giochi di parole una piramide fin troppo macchinosa. La vittoria dei «rossi» polacchi sui nostri azzurri è l’ultimo vino che esce dalla bottiglia: un vino torbido, malgrado la disperata resistenza che gli anziani Facchetti o Mazzola o Boninsegna hanno opposto alla freschezza della squadra diretta dal signor Gorski. Per trent’anni l’assenza di una politica sportiva ha sfavorito un’educazione scolastica; malgrado gli appelli e le numerose «carte» del Coni, per trent’anni il «fenomeno football» ha mascherato gli acciacchi di un meccanismo organizzativo antiquato e paradossale. Nelle scuole mancano le palestre, il verde praticabile è lontanissimo dagli agglomerati urbani: in Italia è fatale diventar tifosi seduti mentre è arduo e costoso inserirsi in un’attività sportiva. Se non si gioca, se non si impara a giocare, anche il concetto di sport diventa intraducibile. La gente che assiste ad una partita crede miticamente nelle possibilità di un Anastasi, di un Chinaglia, ma non sa valutare il «gesto» atletico, perché mai ha potuto esperimentarlo, assimilarlo, conoscerlo nella sua difficoltà intrinseca. E così i nostri «eroi» diventano robot deputati al circense, depositari di un atteggiamento ludico che inutilmente la critica cerca di spiegare nelle sue minuzie domenicali. Trovatisi tra le mani una formula di gioco efficace, basato sul controllo della manovra altrui e sulla tattica del contropiede, i calciatori italiani hanno speculato per anni risultati utili, beffando compagini più solide, raccogliendo titoli continentali ed intercontinentali. Era questa una «lezione» che gli stranieri subivano, accettavano a denti stretti, riconoscendo che il piccolo «miracolo all’italiana» funzionava anche con il pallone. Ma naturalmente facevano tesoro di certi «catenacci», di certe «chiusure» tipiche. E proprio dall’Est la lezione viene restituita con abbondanza d’interessi. Nel giro di un anno, due grandi club italiani sono estromessi dalle coppe grazie alle imprese del Magdeburgo e del Dresda, è di ieri la terza sconfitta inflittaci dai polacchi, che hanno dominato la nostra Nazionale sul piano atletico e si sono dimostrati i nuovi maestri d’un gioco avvampante, fondato sulla prestanza atletica, sulle doti di recupero, sullo sfruttamento di quei «corridoi» che una volta i nostri tecnici di football sapevano inchiavardare di fronte a qualsiasi avversario. Ci tocca, dunque, accettare questa «risposta», che denuncia come i limiti d’una formula di gioco possano venir migliorati da gente più preparata, più speculativa, più combattente. I figli del nostro ormai logoro contropiede portano nomi polacchi e faranno sicuramente strada nel decimo campionato del mondo. Dietro a questa sconfitta sul piano tattico e atletico vi sono però infinite sfasature da esaminare. La spinta tifosa ha creato aloni protettivi incredibili intorno ai Rivera, ai Riva, ai Mazzola, considerati «numi» intoccabili, finché non perdono e quasi «tradiscono» le attese nazionali. In realtà si tratta di uomini giunti all’apice dell’usura agonistica, e che nessuna protezione tattica, nessun medicamento miracoloso potrebbe restituire alla loro giovinezza. Per obbedire ai miti dei tifosi, il «governo» della Nazionale si è sempre opposto a salutari rinnovamenti, e questo equivoco ha prodotto illusioni a catena, sia all’interno della stessa squadra (pur spaccata in mille rivalità personali), sia presso tutti coloro che amano il calcio, ma ne scelgono solo l’aspetto fenomenale, esteriore e non frugano tra le sue riposte ragioni. Ma sarebbe errato volere a lutti i costi sposare la causa di una critica acerba sia al Paese sia al football affratellati: perché un solo esempio, quello dello sci, disciplina difficile, ha dimostrato proprio in questa stagione cosa valgano programmazione, sistemi moderni di allenamento, fermo sguardo verso gli obbiettivi da raggiungere. Quando l’ambiente dello sci mette in vetrina un Thoeni, un Pierino Gros, è perché lo studio di questa specialità ha raggiunto la perfezione, naturalmente dopo anni di ricerca tecnica e scientifica. Il «sistema» in cui vive il calcio è invece, e paradossalmente, artigiano, anche se intorno al pallone si è creata una serie di «ditte» e gira un volume d’affari che sono allineati tra le prime quindici industrie in Italia. Ma antichi pregiudizi, la sicumera di vecchi «soloni», la rarefazione dei talenti da schierare in campo ha fatto pencolare tutte le nostre strategie fino alla domenica nera di Stoccarda. E non è forse indicativo che certi uomini, davvero moderni e intelligenti, siano periodicamente stritolati dalla «macchina» del football? Accadde nel 70 a Walter Mandelli in Messico, accade oggi ad Italo Allodi nel Baden Wurttemberg. Dalla crisi sportiva e manageriale il calcio italiano può e deve uscire in fretta, abbandonando le manovre e i sotterfugi del sue sclerotico sottogoverno. Con o senza Mazzola si può perdere una partita, ma il «disegno» del futuro, la qualità di questo futuro vanno reinventati. E’ solo questione di chiarezza, di buona volontà, di fiducia nel proprio e nell’altrui lavoro.