Giovannino va alla guerra

L’impegno sociale, lo scontro con Buticchi, la crociata contro gli arbitri: tutte le battaglie di Gianni Rivera.


E’ sempre stato rispettoso con tutti: quando cominciò a giocare nel Milan, nel 60, anche in campo dava del “lei” a Liedholm che frequentava l’ultima stagione agonistica. E’ sempre stato sincero, e questa dote da alcuni fu scambiata per sicumera: come quando già nel ’62 diceva di aspirare a diventare un altro Di Stefano e di voler vincere il Pallone d’Oro.

Era anche generoso d’animo: fu tra i promotori dell’Associazione Calciatori, fin da giovane si impegnò nel volontariato rispondendo da anonimo ai disperati che chiamavano “Telefono amico” o passando ore nella sede di “Mondo X”, comunità di recupero degli sbandati. Questo ragazzo così perbene aveva assimilato il meglio da alcuni maestri: «Pedroni nell’Alessandria, mi ha insegnato ad aver carattere, Liedholm ad essere calmo. Schiaffino mi è stato maestro di stile, Rocco mi ha dato forza e coraggio».

Di quale pasta fosse davvero fatto, Rivera lo mostrò subito il giorno di primavera del 1960 quando con suo padre andò dal vicepresidente del Milan Spadaccini e da Viani a discutere le condizioni del contratto. Viani tirava sul prezzo e la menava per le lunghe. Sicché quel ragazzino sbottò che se loro avevano tempo da perdere, suo padre invece no, che aveva da lavorare. Viani fece l’errore di zittirlo, sei un ragazzo, parla quando sei interrogato! Gianni si alzò e tirò il padre per la giacca: «Andiamo via, qui non abbiamo altro da fare». Viani il duro, Viani lo sceriffo, confessò che per lui quella era stata una lezione e profetizzò: «Rivera è nato per essere grande in qualsiasi campo».

Fu così infatti. Convinto da Vittorino Colombo a mettersi in politica, sarebbe stato eletto deputato nelle liste della De. «Pensavano di potermi accontentare facendomi fare l’uomo immagine» avrebbe ricordato «Io invece non ho mai fatto niente senza una partecipazione diretta». E l’onorevole Rivera è diventato sottosegretario alla Difesa.

Divenne deputato quando capì che nel Milan di Berlusconi non c’era spazio per lui. «Ero vicepresidente del Milan ma dovevo essere solo la bandiera, non avevo poteri decisionali. È durata poco…». Fu eletto deputato il 16 giugno 1987, il “rivale” Mazzola aveva invitato la gente a votare per lui e a Montecitorio andò a occupare il banco che era stato di Concetto Lo Bello, il suo “nemico”, ritiratosi a vita privata. «Continuerò la sua lotta in favore dello sport», promise: c’era un progetto di legge per inserire l’illecito sportivo nel codice penale.

Ha vinto tutte le sue battaglie, quel fragile, esile, inconsistente “abatino”. Voleva diventare un grande e lo diventò, stupendosi poi sinceramente che altri non fossero d’accordo. Al famoso Mondiale del 70, quando si accorse che Valcareggi pensava alla staffetta con Mazzola, sbottò: «La mia esclusione non si giustifica né per motivi tecnici né per motivi tattici (…). Mi sono stufato: o servo alla Nazionale o non servo». Insomma, non si sentiva riserva di nessuno e lo disse a chiare lettere. Dovettero accorrere dall’Italia Rocco e Artemio Franchi per comporre la faccenda, il Paron riuscì a convincere il suo giocatore ad accettare la panchina.

Non amava imposizioni e odiava l’autoritarismo. Si ritenne offeso a morte quando un giorno del 1975 il suo presidente Albino Buticchi su consiglio del tecnico Gustavo Giagnoni lo tolse dalla lista degli incedibili del Milan e al Torino propose uno scambio alla pari col “poeta” Claudio Sala. Orfeo Pianelli, presidente granata, se ne uscì dicendo che non aveva bisogno di ferri vecchi.

Sdegnato, Rivera scappò per due giorni e quando tornò Giagnoni lo mise in punizione, fuori per due domeniche. Rivera non ci pensò su molto e dichiarò guerra ai Milan: fece rilevare il pacchetto di maggioranza della società, eliminò Buticchi e Giagnoni, fece richiamare Rocco e mise Trapattoni in panchina. Questo era l’abatino che, a chi lo dava per finito anche fisicamente, rispose restando in campo per altre tre stagioni fino a trascinare il Milan nel 1979 allo scudetto della stella: per un infortunio giocò solo 13 partite, in quel 1978-79, ma tutte illuminanti e decisive per la conquista attesa 11 anni. La dedicò a Nereo Rocco, che era morto appena tre mesi prima.

Le sue battaglie più feroci Rivera le combattè contro gli arbitri (primo fra tutti, Lo Bello) e il Palazzo: sinceramente innamorato del suo Club, all’inizio degli anni 70 si convinse che esso fosse vittima di una congiura per favorirà altre squadre. Il campionato 1971-72 fu vinto dalla Juve con un punto sul Milan e sul Torino. Quel punto si svantaggio fu sottratto al Milan alla 21a giornata, 12 marzo 1972, quando i rossoneri furono sconfitti a Cagliari per 2-1 per un rigore inesistente decretato dall’arbitro Michelotti a tre minuti dalla fine. “Milan derubato”, fu costretto a titolare il Guerino quel giorno. Brera, che ne era direttore e che come si sa era antiriveriano, pubblicò una pagella di Michelotti impudicamente contraddittoria: «Ottima direzione, oculata, precisa. Nel finale, un maligno genio della pedata gli fa veder volontario un braccio di Anquilletti che tampona da tergo Riva: in realtà Riva ha tentato la rovesciatine a pallonetto e Anquilletti è stato colpito, non è che abbia voluto colpire: l’impressione è questa e perciò appare iniqua la decisione dell’arbitro, che distorce l’esito di una partita ormai conclusa, e giustamente sul pari. Voto 7».

Rivera quel giorno andò fuori dai gangheri. Sul pullman del Milan, seduto di fianco a Rocco che tentava di trattenerne lo sfogo, esplose. «È il terzo campionato che ci viene rubato. I tifosi sono dei poveri illusi, credono che il calcio sia ancora uno sport. Finché ci sarà Campanari il calcio andrà sempre così». E continuò lanciando sospetti e accuse su Lo Bello, Sbardella e altri fischietti. Fu squalificato per 10 giornate per queste dichiarazioni, poi ridotte di un po’ in sede di appello.

L’anno dopo, 1972-73, il Milan perse ancora lo scudetto, ancora a vantaggio della Juve e ancora per un punto: sottratto da Lo Bello al Milan in un famoso Lazio-Milan. Il principe dei fischietti annullò un gol di Chiarugi che la moviola dimostrò essere regolare. Quella volta sbottò Rocco, che si prese due mesi di squalifica, Rivera che lo aveva spalleggiato si ebbe quattro giornate. Rivera diceva cose che tutti dicevano: nella migliore delle ipotesi, gli arbitri erano in soggezione verso talune società e quindi le favorivano. A raccontarla così, oggi, sembra una polemichetta da niente, ma allora fu l’eruzione di un vulcano che devastò l’Italia.

La vicenda divenne tragicomica quando, in seguito all’episodio di Lazio-Milan del 1973, entrò in scena Padre Eligio a dire, in una intervista al “Milanese”: «Rivera è molto scocciato per il putridume che esiste nel mondo del calcio. Quando lui fa certe dichiarazioni sugli arbitri, la sua è veramente una causa santa è giusta. Perché tu sai che gli arbitri oggi o sono condizionati o sono venduti. C’è poco da fare: oggi un Agnelli può condizionare gli arbitri più di quello che può fare il presidente del Mantova o del Catanzaro. Ora Gianni, che è un ragazzo pulito, si ribella a queste cose, perché lui ha una gran sete di giustizia».

Alludeva al fatto che alla vigilia di JuventusMilan Boniperti aveva premiato Lo Bello con un orologio, poi l’arbitro aveva negato un rigore al Milan (fallo di Morini su Bigon) riconoscendo l’errore dopo aver visto la moviola. Agnelli, che è un signore, non replicò. Trentotto arbitri invece risposero a Fra Eligio: fuori le prove. E lo portarono in tribunale. Il conte Rognoni, padrone del Guerino, scrisse: «Padre Eligio farnetica accuse gravissime: non ha le prove». E aggiunse provocatoriamente: «Fortunatamente non ha saputo scegliersi i testimoni». Fortunatamente per gli arbitri, lasciava intendere.

Al processo, che si tenne a Milano, Padre Eligio produsse un volumone di prove: una sterminata raccolta di articoli di giornali in cui molti grandi del giornalismo avevano scritto più o meno le stesse accuse. Interrogati, ovviamente gli arbitri negarono di essere condizionati o venduti. Andò avanti così per diversi mesi, una vera goduria per la stampa e per il pubblico. Il Peligio si presentava alle udienze sorridente, nelle pause conversava amabilmente con tutti, era affascinante e conquistò gli stessi arbitri. Man mano che passavano i giorni nasceva una sincera simpatia tra i fischietti e quello strano frate. Finì a pacche sulle spalle fra gli uni e l’altro, la querela fu ritirata. E in tutti rimase il sospetto che non il Peligio, bensì gli arbitri se la fossero cavata a buon mercato. Amen.