GIUSSY FARINA – dicembre 1977

Quarantaquattro anni, baffi imperiali, un amore sviscerato per il calcio e il fucile, il presidente del Vicenza, soprannominato il «kaiser veneto», ha imposto tempo fa la «linea dura» e, adesso, i risultati si vedono. Eccome…

Il «Mein Kampf» di Giussy Farina

QUARANTAQUATTRO ANNI, baffi imperiali, aspetto giovanile, compor­tamento elegante, laurea in agraria: è «Giussy» Farina, l’uomo che – da oltre vent’anni – ha legato il suo nome allo sport vicentino ed, in particolare al Lanerossi Vicenza. Di lui dicono che è superstizioso al­quanto poiché, tutte le domeniche, quando siede in panchina, cela nel taschino, dietro il bavero della giac­ca, il suo portafortuna: un ramo­scello di timo, una pianta aromatica da cui si ricava un olio odoroso. Lo incontro nel suo ufficio presso lo stadio, intento ad esaminare un «pacco» di pratiche; cerco di car­pirgli un po’ del suo tempo, prezio­so direi, considerando la fretta del presidente che è sempre molta.Gli impegni di lavoro nella sua azienda agricola di Palù in provincia di Verona, la caccia, la pesca, il tennis, il calcio e la famiglia occupano ap­pieno le sue giornate.
«Ero intenzionato a lasciare la pre­sidenza del Vicenza – esordisce – ma ora come faccio? Fabbri e la squadra mi hanno ridato l’entusia­smo e il piacere di andare allo sta­dio. Ritirarmi adesso sarebbe irri­verente nei loro confronti».

Il presi­dente è felice, non potrebbe essere diversamente: il momento è magico, il più bello ed esaltante di tutta la storia calcistica vicentina. La squa­dra biancorossa, sotto la guida di G.B. Fabbri, ha trovato equilibrio, entusiasmo e soprattutto, un gioco dinamico e spettacolare che ha in Paolo Rossi l’espressione più affasci­nante. Il 1977 è stato indubbiamen­te un anno fortunato: dopo la pro­mozione in serie A, ecco – ora – il secondo posto alle spalle dell’ac­coppiata Milan-Juventus. Per di più con un Rossi che ogni domenica rie­sce a dare nuove dimensioni ai suoi gol.

L’anniversario del decimo anno di presidenza e il ventesimo nell’ambi­to della società non potevano ave­re cornice migliore. Eppure, alla ri­nuncia, «Giussy» Farina aveva me­ditato seriamente: proprio la sera della promozione, dopo la dramma­tica e trionfale partita di Como. Quando la città era in «preda» ai festeggiamenti, affascinata dalle im­prese del suo meraviglioso giocat­tolo. Tacciato di «kaiserismo», di testardaggine, di accentrismo, Fa­rina è, invece, uomo arguto ed intel­ligente, saggio e sincero con le de­bolezze che sono di tutti. A Vicenza, però, non è stato capito integral­mente: né la società, né il Comune, né i tifosi, né la città, né certa stampa lo hanno compreso. Uscire dal provincialismo e costruire un grande club a livello regionale: que­sto il suo programma. Pochi, però, hanno effettivamente capito il so­gno del presidente che, stanco e deluso, aveva snobbato la festa del­la promozione, lo scorso campio­nato, proprio per non ricevere tan­te pacche sulla schiena da coloro che, prima, lo avevano contestato. Anche crudamente. Lui, comunque, alla leadership regionale è arrivato ugualmente distribuendo le proprie forze fra Vicenza, Padova e Verona (con l’Audace).

– Presidente, finalmente non è più nella polvere…
«Quando la situazione della squa­dra subisce variazioni sensibili di classifica, anche gli umori generali si attestano su posizioni che coin­volgono tecnico, giocatori e diri­genti. Il cliché è uguale ovunque, è standardizzato su basi equivoche e superficialistiche. Un anno e mez­zo fa ero nella polvere, fatto og­getto di contestazioni gratuite, ac­cusato di essere stato l’artefice del­la retrocessione. Ora sono circonda­to da grande simpatia, anche insincera, e sono portato al settimo cielo».

– Come è arrivato al Vicenza, lei che è veronese?
«Le mie origini sono veronesi ma sono nato a Gambellara in provin­cia di Vicenza. Da giovane studiavo a Verona: ecco perché ho seguito le vicende calcistiche di questa città. Poi alcuni amici mi hanno trascina­to a Vicenza dove la serie A avreb­be potuto offrire attenzioni diverse. Piano piano mi sono affezionato al­l’ambiente: vent’anni fa sono entra­to nella società come consigliere eppoi nel gennaio del ’68, ho sostituito il presidente Giacometti in un momento particolarmente difficile, con la squadra nelle ultime posizio­ni di classifica, debilitata psicologicamente e tecnicamente».

– Cosa significa per lei essere pre­sidente del Vicenza?
«E’ una grossa soddisfazione, una parentesi particolarmente felice, che appaga di tanti sacrifici e di tante speranze e avalla dieci anni di at­tese».

– Perché, da qualche tempo, alla fine d’ogni campionato, dichiara di voler lasciare la presidenza?
«I problemi che mi preoccupano e mi assillano sono numerosi e co­prono una gamma di interessi dav­vero eterogenei: sociali, finanziari e familiari. Gli impegni mi costrin­gono ad assentarmi, condizionano la mia vita privata. I figli li vedo pochissimo e devo riconoscere di avere una moglie che è compren­siva e tollera le mie “evasioni” spor­tive. Anche per me – particolare non trascurabile – passano gli an­ni e sarei lieto che qualcuno rile­vasse la mia posizione».

– La sua gestione è indubbiamen­te positiva nonostante la retroces­sione. Ha qualcosa da rimprove­rarsi?
«Le difficoltà che comporta la ge­stione di un club a livello provin­ciale assumono proporzioni vastis­sime ed investono problemi di vera sopravvivenza economica. I quali vanno al di là di quelli sportivi. In ogni caso il mio impegno non ha conosciuto flessioni, ho sem­pre cercato di agire con lealtà e coerenza. Errori particolari? Mi so­no forse arrabbiato troppo con i giornalisti; avrei dovuto usare mag­giore diplomazia magari approfon­dendo le pubbliche relazioni. Nel complesso mi ritengo soddisfatto di quanto ho fatto. Devo riconoscere, comunque, che G.B. Fabbri è l’ar­tefice primo dell’attuale nuovo cor­so del Vicenza: a lui va riconosciu­to, soprattutto, un equilibrio esem­plare».

– E’ stato accusato di aver trascu­rato il settore giovanile. Cosa ne pensa?
«Ho sempre sostenuto e difeso un mio programma per la creazione d’un valido settore giovanile. Devo dire, con rammarico, però, che que­sto programma non è stato capito: esso prevedeva l’appoggio e l’affilia­zione di numerose società dilettan­tistiche che avrebbero dovuto ga­rantirci in tempi brevi, anche se non immediati, atleti di sicuro av­venire. La crisi che abbiamo supe­rato, proprio per merito dei gio­vani, convalida la bontà della mia tesi».

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– Il calcio veneto è decaduto da tempo. Quali sono i motivi?
«Il Veneto è sempre stato terra di atleti di valore e lo è tuttora: non possiede, però, analogo potenziale finanziario che consenta di program­mare scelte ed ambizioni. Di qui le difficoltà che piano piano hanno cau­sato la perdita di clubs quali Trie­ste, Venezia, Udine e Padova alla cui decadenza ha contribuito in modo determinante la mancanza di dirigenti preparati e competenti. Il Vicenza, da parte sua, ha avuto un po’ più di fortuna ma ha anche corso seri rischi».

– Quali i programmi per il futuro?
«I programmi sono ambiziosi, non lo nego. Lo sono sempre stati del resto: avrei voluto creare strutture più consone alle esigenze moderne ed intensificare gli sforzi per miglio­rare il settore giovanile. Ma non mi faccio illusioni in questo senso, poi­ché mancano i presupposti per da­re concretezza alle mie attese. Noi non siamo ricchi e, alla base di tutto, necessiterebbe una struttura societaria forte proprio sotto il pro­filo economico. La pubblicità, ad esempio, potrebbe recare importanti vantaggi a favore del risanamento dei bilanci».

– Il Lanerossi sta guadagnando mol­to…
«Quello che ricava la società, gra­zie al felice momento che attraver­sa la squadra, copre solo in parte le passività di gestione. Bisogna ri­cordare, infatti, che gli oneri che gravano sull’esercizio sono in co­stante aumento».

– E’ autoritario ed accentratore…
«Riconosco questi miei peccati di gioventù che, col passare del tempo, hanno assunto notevoli ridimensio­namenti. Ho avuto una netta inver­sione di mentalità e di intendimen­ti: ora preferisco decentrare il più possibile compiti e responsabilità».

– In Consiglio dicono che si com­porta da «kaiser». Perché questo appellativo?
«L’appellativo è improprio e lo pos­so accettare solo se riferito alla mia personalità un po’ forte. In Consi­glio, dopo dieci anni di presidenza (praticamente con gli stessi uomini) la fiducia è reciproca. Non ci sono discussioni e contrasti, si decide democraticamente».

– E’ superstizioso?
«Sono realista, non credo alla ca­sualità degli avvenimenti. Quindi, salvo qualche particolare, la super­stizione non rientra nelle mie con­vinzioni».

– Se avesse fatto il calciatore in che ruolo avrebbe giocato?
«Ma io sono stato calciatore: ho giocato a Verona nei ragazzi del San Giorgio. Il mio ruolo era quel­lo di terzino sinistro e lo interpre­tavo con molta determinazione. An­zi, il mio motto era: gambe o pal­lone. Ma erano più le gambe ad es­sere colpite. Ho smesso per… caren­za di avversari. Non ero certo Pao­lo Rossi».

– Come vede il compromesso stori­co?
«Non mi sento di esprimere giudi­zi. Secondo me, in Italia, si dovreb­be parlare meno e lavorare di più, a tutti i livelli. Soprattutto a quello politico».

– Qual è stato il momento più feli­ce da presidente?
«Senza dubbio in occasione della gara di Bergamo di pochi mesi fa con l’Atalanta: è stato un momen­to particolarmente significativo che ha impresso una svolta al campio­nato del Vicenza e che ha dato ini­zio alla poderosa entusiasmante “escalation”. L’acquisto di Guidetti ed il ritorno di Cerilli ci hanno per­messo di ritornare a quel modulo fatto di collettivo e di spettacolo, che già l’anno prima ci aveva dato grosse soddisfazioni».

– E il peggiore?
«Quando siamo retrocessi in serie B: ero oggetto di contestazione ed ero stato abbandonato a me stes­so. Mi sembrava che fossero stati cancellati d’un colpo anni di sacri­fici e di impegni. Tutti a favore del Lanerossi».

– Esistono dialogo e chiarezza con i giocatori?
«Per natura sono un timido e non sono di facile comunicativa: il che condiziona il mio comportamento e mi fa apparire in una veste distor­ta. Non cambierei mai collaborato­ri né giocatori proprio per non rica­dere in queste difficoltà che solo l’affiatamento raggiunto nel tempo riesce ad eliminare».

– Ha mai imposto la formazione?
«Non ho mai preteso o imposto scelte particolari. L’allenatore è sempre stato libero di comporre la squadra in conformità alle esigen­ze tecniche o alle convinzioni per­sonali».

– Però lo scorso anno, c’è stato un episodio…
«Sì, è vero, è accaduto verso la fine dello scorso campionato: si do­veva disputare la gara interna del girone finale di Coppa Italia, con la Juventus, pochi giorni prima dell’ ultima partita di campionato a Co­mo. La società voleva che si giocas­se nella formazione-tipo in antitesi con il tecnico Fabbri, che non rite­neva opportuno correre inutili ri­schi».

– Sul mercato calcistico ha sempre piazzato colpi eccezionali. Per ca­so ha un suo Portobello personale?
«Non ho meriti specifici, mi sono comportato come tanti altri presi­denti: con oculatezza ed un pizzico di astuzia. Come si conviene ad una squadra provinciale dai grossi problemi finanziari. Ci sono stati alcuni trasferimenti che hanno fat­to sensazione; però ho anche avuto delle amarezze. Abbiamo avuto, co­munque, tanti esempi di giocatori che altrove non rendevano più e che da noi hanno vissuto una seconda giovinezza. Perché – io cre­do – hanno potuto lavorare in un ambiente sereno. I nomi? Sormani, Cinesinho e, soprattutto, Vinicio che con noi ha vinto pure una classifica dei cannonieri».

– Conosceva il valore di Rossi al momento del trasferimento?
«Avevo avuto l’opportunità di vede­re giocare Rossi in un paio di occa­sioni ma non mi ero reso conto del­le sue possibilità. Il nostro ex Da­miani, che aveva giocato con lui nella Juventus me ne aveva parlato in termini entusiastici. Così, dopo averlo osservato in una gara dell’under 23 del Como (qui a Vicenza) so­no riuscito a farlo entrare in una combinazione che coinvolgeva Marangon e Verza. Paolo è così giun­to a Vicenza dove sta raggiungendo un altissimo valore anche a livello internazionale».

– Cosa pensa di Carrera?
«E’ un libero molto valido tecnica­mente, difende con eleganza ed è pronto e deciso nel disimpegno e nell’impostazione. Fortissimo con la palla al piede, deve acquisire mag­giore sicurezza in area e, soprattut­to, più convinzione nel gioco di te­sta. Tanto più che è alto di statura. Scirea gli è inferiore, senz’altro, Car­rera merita, quindi, la nazionale. Bearzot dovrebbe provarlo».

– Vuole lo scudetto?
«Conquistarlo sarebbe un’impresa eccezionale per noi poveri provincia­li: nel caso dovrei fare un monumen­to gigantesco a tutti: tecnico, gioca­tori e tifosi. Le premesse per la grande scalata al titolo ci sono ed anche i meriti sportivi della città giustificherebbero l’evento. Ma dob­biamo essere realisti e consapevoli dei nostri limiti in termini econo­mici. Che ci impongono – purtroppo – dolorose rinunce».

– I tifosi sono pronti ad aprire una sottoscrizione affinché Rossi ri­manga a Vicenza…
«I tifosi dovrebbero ragionare di più ed esaltarsi di meno. L’esagera­zione non porta mai a conclusioni positive, non consente di essere coerenti. Non mi faccio eccessive illusioni circa la permanenza del nostro goleador, anche se questa idea della sottoscrizione volontaria potrebbe risultare valida. Ad ogni modo, pur non potendo promet­tere niente, mi si lasci il tempo per pensarci e per giustificare questa opportunità. Intanto coltiviamo que­sta speranza dello scudetto…».