Quarantaquattro anni, baffi imperiali, un amore sviscerato per il calcio e il fucile, il presidente del Vicenza, soprannominato il «kaiser veneto», ha imposto tempo fa la «linea dura» e, adesso, i risultati si vedono. Eccome…
Il «Mein Kampf» di Giussy Farina
QUARANTAQUATTRO ANNI, baffi imperiali, aspetto giovanile, comportamento elegante, laurea in agraria: è «Giussy» Farina, l’uomo che – da oltre vent’anni – ha legato il suo nome allo sport vicentino ed, in particolare al Lanerossi Vicenza. Di lui dicono che è superstizioso alquanto poiché, tutte le domeniche, quando siede in panchina, cela nel taschino, dietro il bavero della giacca, il suo portafortuna: un ramoscello di timo, una pianta aromatica da cui si ricava un olio odoroso. Lo incontro nel suo ufficio presso lo stadio, intento ad esaminare un «pacco» di pratiche; cerco di carpirgli un po’ del suo tempo, prezioso direi, considerando la fretta del presidente che è sempre molta.Gli impegni di lavoro nella sua azienda agricola di Palù in provincia di Verona, la caccia, la pesca, il tennis, il calcio e la famiglia occupano appieno le sue giornate.
«Ero intenzionato a lasciare la presidenza del Vicenza – esordisce – ma ora come faccio? Fabbri e la squadra mi hanno ridato l’entusiasmo e il piacere di andare allo stadio. Ritirarmi adesso sarebbe irriverente nei loro confronti».
Il presidente è felice, non potrebbe essere diversamente: il momento è magico, il più bello ed esaltante di tutta la storia calcistica vicentina. La squadra biancorossa, sotto la guida di G.B. Fabbri, ha trovato equilibrio, entusiasmo e soprattutto, un gioco dinamico e spettacolare che ha in Paolo Rossi l’espressione più affascinante. Il 1977 è stato indubbiamente un anno fortunato: dopo la promozione in serie A, ecco – ora – il secondo posto alle spalle dell’accoppiata Milan-Juventus. Per di più con un Rossi che ogni domenica riesce a dare nuove dimensioni ai suoi gol.
L’anniversario del decimo anno di presidenza e il ventesimo nell’ambito della società non potevano avere cornice migliore. Eppure, alla rinuncia, «Giussy» Farina aveva meditato seriamente: proprio la sera della promozione, dopo la drammatica e trionfale partita di Como. Quando la città era in «preda» ai festeggiamenti, affascinata dalle imprese del suo meraviglioso giocattolo. Tacciato di «kaiserismo», di testardaggine, di accentrismo, Farina è, invece, uomo arguto ed intelligente, saggio e sincero con le debolezze che sono di tutti. A Vicenza, però, non è stato capito integralmente: né la società, né il Comune, né i tifosi, né la città, né certa stampa lo hanno compreso. Uscire dal provincialismo e costruire un grande club a livello regionale: questo il suo programma. Pochi, però, hanno effettivamente capito il sogno del presidente che, stanco e deluso, aveva snobbato la festa della promozione, lo scorso campionato, proprio per non ricevere tante pacche sulla schiena da coloro che, prima, lo avevano contestato. Anche crudamente. Lui, comunque, alla leadership regionale è arrivato ugualmente distribuendo le proprie forze fra Vicenza, Padova e Verona (con l’Audace).
– Presidente, finalmente non è più nella polvere…
«Quando la situazione della squadra subisce variazioni sensibili di classifica, anche gli umori generali si attestano su posizioni che coinvolgono tecnico, giocatori e dirigenti. Il cliché è uguale ovunque, è standardizzato su basi equivoche e superficialistiche. Un anno e mezzo fa ero nella polvere, fatto oggetto di contestazioni gratuite, accusato di essere stato l’artefice della retrocessione. Ora sono circondato da grande simpatia, anche insincera, e sono portato al settimo cielo».
– Come è arrivato al Vicenza, lei che è veronese?
«Le mie origini sono veronesi ma sono nato a Gambellara in provincia di Vicenza. Da giovane studiavo a Verona: ecco perché ho seguito le vicende calcistiche di questa città. Poi alcuni amici mi hanno trascinato a Vicenza dove la serie A avrebbe potuto offrire attenzioni diverse. Piano piano mi sono affezionato all’ambiente: vent’anni fa sono entrato nella società come consigliere eppoi nel gennaio del ’68, ho sostituito il presidente Giacometti in un momento particolarmente difficile, con la squadra nelle ultime posizioni di classifica, debilitata psicologicamente e tecnicamente».
– Cosa significa per lei essere presidente del Vicenza?
«E’ una grossa soddisfazione, una parentesi particolarmente felice, che appaga di tanti sacrifici e di tante speranze e avalla dieci anni di attese».
– Perché, da qualche tempo, alla fine d’ogni campionato, dichiara di voler lasciare la presidenza?
«I problemi che mi preoccupano e mi assillano sono numerosi e coprono una gamma di interessi davvero eterogenei: sociali, finanziari e familiari. Gli impegni mi costringono ad assentarmi, condizionano la mia vita privata. I figli li vedo pochissimo e devo riconoscere di avere una moglie che è comprensiva e tollera le mie “evasioni” sportive. Anche per me – particolare non trascurabile – passano gli anni e sarei lieto che qualcuno rilevasse la mia posizione».
– La sua gestione è indubbiamente positiva nonostante la retrocessione. Ha qualcosa da rimproverarsi?
«Le difficoltà che comporta la gestione di un club a livello provinciale assumono proporzioni vastissime ed investono problemi di vera sopravvivenza economica. I quali vanno al di là di quelli sportivi. In ogni caso il mio impegno non ha conosciuto flessioni, ho sempre cercato di agire con lealtà e coerenza. Errori particolari? Mi sono forse arrabbiato troppo con i giornalisti; avrei dovuto usare maggiore diplomazia magari approfondendo le pubbliche relazioni. Nel complesso mi ritengo soddisfatto di quanto ho fatto. Devo riconoscere, comunque, che G.B. Fabbri è l’artefice primo dell’attuale nuovo corso del Vicenza: a lui va riconosciuto, soprattutto, un equilibrio esemplare».
– E’ stato accusato di aver trascurato il settore giovanile. Cosa ne pensa?
«Ho sempre sostenuto e difeso un mio programma per la creazione d’un valido settore giovanile. Devo dire, con rammarico, però, che questo programma non è stato capito: esso prevedeva l’appoggio e l’affiliazione di numerose società dilettantistiche che avrebbero dovuto garantirci in tempi brevi, anche se non immediati, atleti di sicuro avvenire. La crisi che abbiamo superato, proprio per merito dei giovani, convalida la bontà della mia tesi».
– Il calcio veneto è decaduto da tempo. Quali sono i motivi?
«Il Veneto è sempre stato terra di atleti di valore e lo è tuttora: non possiede, però, analogo potenziale finanziario che consenta di programmare scelte ed ambizioni. Di qui le difficoltà che piano piano hanno causato la perdita di clubs quali Trieste, Venezia, Udine e Padova alla cui decadenza ha contribuito in modo determinante la mancanza di dirigenti preparati e competenti. Il Vicenza, da parte sua, ha avuto un po’ più di fortuna ma ha anche corso seri rischi».
– Quali i programmi per il futuro?
«I programmi sono ambiziosi, non lo nego. Lo sono sempre stati del resto: avrei voluto creare strutture più consone alle esigenze moderne ed intensificare gli sforzi per migliorare il settore giovanile. Ma non mi faccio illusioni in questo senso, poiché mancano i presupposti per dare concretezza alle mie attese. Noi non siamo ricchi e, alla base di tutto, necessiterebbe una struttura societaria forte proprio sotto il profilo economico. La pubblicità, ad esempio, potrebbe recare importanti vantaggi a favore del risanamento dei bilanci».
– Il Lanerossi sta guadagnando molto…
«Quello che ricava la società, grazie al felice momento che attraversa la squadra, copre solo in parte le passività di gestione. Bisogna ricordare, infatti, che gli oneri che gravano sull’esercizio sono in costante aumento».
– E’ autoritario ed accentratore…
«Riconosco questi miei peccati di gioventù che, col passare del tempo, hanno assunto notevoli ridimensionamenti. Ho avuto una netta inversione di mentalità e di intendimenti: ora preferisco decentrare il più possibile compiti e responsabilità».
– In Consiglio dicono che si comporta da «kaiser». Perché questo appellativo?
«L’appellativo è improprio e lo posso accettare solo se riferito alla mia personalità un po’ forte. In Consiglio, dopo dieci anni di presidenza (praticamente con gli stessi uomini) la fiducia è reciproca. Non ci sono discussioni e contrasti, si decide democraticamente».
– E’ superstizioso?
«Sono realista, non credo alla casualità degli avvenimenti. Quindi, salvo qualche particolare, la superstizione non rientra nelle mie convinzioni».
– Se avesse fatto il calciatore in che ruolo avrebbe giocato?
«Ma io sono stato calciatore: ho giocato a Verona nei ragazzi del San Giorgio. Il mio ruolo era quello di terzino sinistro e lo interpretavo con molta determinazione. Anzi, il mio motto era: gambe o pallone. Ma erano più le gambe ad essere colpite. Ho smesso per… carenza di avversari. Non ero certo Paolo Rossi».
– Come vede il compromesso storico?
«Non mi sento di esprimere giudizi. Secondo me, in Italia, si dovrebbe parlare meno e lavorare di più, a tutti i livelli. Soprattutto a quello politico».
– Qual è stato il momento più felice da presidente?
«Senza dubbio in occasione della gara di Bergamo di pochi mesi fa con l’Atalanta: è stato un momento particolarmente significativo che ha impresso una svolta al campionato del Vicenza e che ha dato inizio alla poderosa entusiasmante “escalation”. L’acquisto di Guidetti ed il ritorno di Cerilli ci hanno permesso di ritornare a quel modulo fatto di collettivo e di spettacolo, che già l’anno prima ci aveva dato grosse soddisfazioni».
– E il peggiore?
«Quando siamo retrocessi in serie B: ero oggetto di contestazione ed ero stato abbandonato a me stesso. Mi sembrava che fossero stati cancellati d’un colpo anni di sacrifici e di impegni. Tutti a favore del Lanerossi».
– Esistono dialogo e chiarezza con i giocatori?
«Per natura sono un timido e non sono di facile comunicativa: il che condiziona il mio comportamento e mi fa apparire in una veste distorta. Non cambierei mai collaboratori né giocatori proprio per non ricadere in queste difficoltà che solo l’affiatamento raggiunto nel tempo riesce ad eliminare».
– Ha mai imposto la formazione?
«Non ho mai preteso o imposto scelte particolari. L’allenatore è sempre stato libero di comporre la squadra in conformità alle esigenze tecniche o alle convinzioni personali».
– Però lo scorso anno, c’è stato un episodio…
«Sì, è vero, è accaduto verso la fine dello scorso campionato: si doveva disputare la gara interna del girone finale di Coppa Italia, con la Juventus, pochi giorni prima dell’ ultima partita di campionato a Como. La società voleva che si giocasse nella formazione-tipo in antitesi con il tecnico Fabbri, che non riteneva opportuno correre inutili rischi».
– Sul mercato calcistico ha sempre piazzato colpi eccezionali. Per caso ha un suo Portobello personale?
«Non ho meriti specifici, mi sono comportato come tanti altri presidenti: con oculatezza ed un pizzico di astuzia. Come si conviene ad una squadra provinciale dai grossi problemi finanziari. Ci sono stati alcuni trasferimenti che hanno fatto sensazione; però ho anche avuto delle amarezze. Abbiamo avuto, comunque, tanti esempi di giocatori che altrove non rendevano più e che da noi hanno vissuto una seconda giovinezza. Perché – io credo – hanno potuto lavorare in un ambiente sereno. I nomi? Sormani, Cinesinho e, soprattutto, Vinicio che con noi ha vinto pure una classifica dei cannonieri».
– Conosceva il valore di Rossi al momento del trasferimento?
«Avevo avuto l’opportunità di vedere giocare Rossi in un paio di occasioni ma non mi ero reso conto delle sue possibilità. Il nostro ex Damiani, che aveva giocato con lui nella Juventus me ne aveva parlato in termini entusiastici. Così, dopo averlo osservato in una gara dell’under 23 del Como (qui a Vicenza) sono riuscito a farlo entrare in una combinazione che coinvolgeva Marangon e Verza. Paolo è così giunto a Vicenza dove sta raggiungendo un altissimo valore anche a livello internazionale».
– Cosa pensa di Carrera?
«E’ un libero molto valido tecnicamente, difende con eleganza ed è pronto e deciso nel disimpegno e nell’impostazione. Fortissimo con la palla al piede, deve acquisire maggiore sicurezza in area e, soprattutto, più convinzione nel gioco di testa. Tanto più che è alto di statura. Scirea gli è inferiore, senz’altro, Carrera merita, quindi, la nazionale. Bearzot dovrebbe provarlo».
– Vuole lo scudetto?
«Conquistarlo sarebbe un’impresa eccezionale per noi poveri provinciali: nel caso dovrei fare un monumento gigantesco a tutti: tecnico, giocatori e tifosi. Le premesse per la grande scalata al titolo ci sono ed anche i meriti sportivi della città giustificherebbero l’evento. Ma dobbiamo essere realisti e consapevoli dei nostri limiti in termini economici. Che ci impongono – purtroppo – dolorose rinunce».
– I tifosi sono pronti ad aprire una sottoscrizione affinché Rossi rimanga a Vicenza…
«I tifosi dovrebbero ragionare di più ed esaltarsi di meno. L’esagerazione non porta mai a conclusioni positive, non consente di essere coerenti. Non mi faccio eccessive illusioni circa la permanenza del nostro goleador, anche se questa idea della sottoscrizione volontaria potrebbe risultare valida. Ad ogni modo, pur non potendo promettere niente, mi si lasci il tempo per pensarci e per giustificare questa opportunità. Intanto coltiviamo questa speranza dello scudetto…».