Gli arbitri nacquero come “male necessario”

La nascita della figura dell’arbitro è uno dei capitoli più affascinanti della preistoria del pallone.

Agli albori del gioco – parliamo della prima metà dell’ottocento – non esistevano né arbitro né guardalinee. Il calcio sì giocava nelle “public school” inglesi, praticamente tra amici. Per ottenere il rispetto delle regole, bastavano i capitani delle due squadre in campo. Che prima dell’avvio si accordavano sulla durata, sul numero dei giocatori e le misure del campo.

Erano loro a garantire per la propria squadra il rispetto delle regole. Chi sgarrava, era punito e l’ignoranza della legge non scusava, visto che ai nuovi studenti veniva ordinato di studiare a fondo le regole affisse nella bacheca della scuola prima di essere ammessi in squadra. Lo “spirito del gioco” era fondamentale e chi lo violava veniva espulso dal suo stesso capitano («Lascia il campo!» gli intimava perentoriamente). Tutto insomma era semplice e all’insegna del fair play.

Poi il tempo passò e vincere cominciò a essere importante, per i premi in palio o la gloria. A quel punto diventarono indispensabili dei giudici di gara che godessero dell’unanime rispetto e fossero in grado di assumere decisioni insindacabili in caso di dispute, così da stroncare sul nascere ogni possibile dissidio tra i giocatori. E qui entra in scena il cricket, da cui fu mutuata la figura dell’«umpire», cioè il primo arbitro Questa parola, che ancora oggi designa nella lingua di Albione l’arbitro nel tennis e in altri sport, è però lontana dall’arbitro di oggi (in inglese «referee»).

La sua origine viene fatta risalire all’antico francese “nomper”, traducibile come “uomo solo“. Il calcio rovesciò subito il concetto, introducendo due «umpire». Stabilivano infatti le regole dei college di Eton e Winchester che ogni squadra doveva schierare un proprio ‘‘umpire” vicino alla porta. Il suo compito era di contare i gol (“score the goals“, letteralmente segnare, marcare il gol, su un foglio o una lavagna: da cui le espressioni relative alla realizzazione della rete da parte del giocatore) e prendere una decisione nei casi dubbi verificatisi nella metà del campo di sua competenza.

Ma questo solo… se glielo chiedevano. Se poi il caso era particolarmente complicalo e l’«umpire» non riusciva a decidere, il tutto veniva demandato a un “bully”, una specie di giudizio di Dio sotto forma di tiro a due a una yard di distanza dalla linea di porta. Ancora oggi il “bully” nell’hockey designa la rimessa in gioco del pallone. Uno dei due «umpire», infine doveva tenere l’orologio per determinare l’inizio della partita, il cambio di campo e la fine.

Nelle regole di Harrow, fondamentale visto che monopolizzò poi la Football Association (fondata nel 1863), vennero ulteriormente precisate le competenze dell”’umpire”: le sue decisioni non potevano essere contestate, a lui era demandato l’annullamento dei gol realizzati irregolarmente e in certe partite (“House Matches”, partite “di casa”, cioè nell’ambito del College) aveva il potere di espellere i giocatori sorpresi a violare intenzionalmente le regole.

Fu a Cheltenham che per la prima volta si parlò di «referee». Il sistema doveva essersi rivelato fragile, se si sentì il bisogno di codificare che le eventuali dispute in campo dovevano essere risolte da tre persone: i due «umpire» e il «referee». Quando si giocava una partita importante, ognuno dei due capitani sceglieva un «umpire»: poi, d’accordo, entrambi designavano un «referee» neutro. Quest’ultimo stazionava fuori dal campo e interveniva nei casi controversi, cioè le questioni su cui i due “umpire ” non potevano o non volevano decidere dall’interno del terreno di gioco. Il concetto, quindi, si evolveva, ma lentamente: il «referee» interveniva solo se interpellato, non poteva farlo d’ufficio.

Ma cosa significa «referee»? La parola affonda le sue radici nel verbo “to refer” (fare riferimento). Il «referee» era dunque “la persona cui fare riferimento“, l’uomo che gli «umpire» di parte dovevano consultare in caso di dubbio. Un’ulteriore crescita di tale figura si ebbe in occasione della EA. Cup del 1871, che fu la prima competizione non semplicemente regionale.

Occorreva rifarsi a un unico regolamento e siccome gli ex studenti di Harrow, essendo in maggioranza tra i dirigenti, dettavano legge nella giovane Football Association, la regola di Harrow del «referee» divenne generale. Toccava al Comitato della competizione scegliere i due «umpire» e il «referee», nessuno dei quali poteva essere membro di uno dei club partecipanti al match: ecco un ‘altra pietruzza fondamentale portata all’edificio dell’arbitro moderno: la partita doveva essere super-visionata da giudici neutrali.

Mancava però ancora una chiara definizione della posizione del «referee» e dei suoi poteri. Un fatto traumatico intervenne a porre la questione. In via sperimentale, nella stagione 1881-82 si accordò al direttore di gara che “lavorava” fuori dal campo il potere di decretare d’ufficio la realizzazione di un gol se a suo parere i difensori lo avevano evitato con una intenzionale violazione delle regole. Come non detto: un vero e proprio diluvio di proteste si abbattè sull’organizzazione e dopo quell’unica stagione la regola venne abbandonata con la motivazione che essa attribuiva una eccessiva influenza al «referee» sul risultato e a lui una responsabilità troppo pesante

Parole grosse, come si vede. Il segnale ulteriore che, ormai, i tempi del dilettantismo dei gentlemen in punta di bulloni (figura peraltro molto retorica, visto che il gioco nei college pare fosse decisamente violento) stava andando in soffitta. Il professionismo latente fece irruzione ai piani alti in occasione della Coppa del 1883: la vinse il Blackburn Olympic contro gli Old Etonians, portando il trofeo per la prima volta fuori da Londra. Vi sarebbe tornato non prima di veni ‘anni, perché le squadre del nord Inghilterra, forti di giocatori stipendiati, portavano argomenti tecnici e agonistici inconfutabili.

Il calcio stava diventando uno sport professionistico, nel 1888 venne giocato il primo campionato con questa etichetta, tra i dodici club “prò” che avevano dato vita alla Football League. Vincere era sempre più importante, sui campi si lottava per il titolo e presto, nelle categorie inferiori, per la promozione e la salvezza. Chi dirigeva la gara non poteva essere più solo un appendice, un “male necessario”, ma un personaggio dotato di sufficiente autorevolezza per garantire la regolarità del gioco.

La svolta si ebbe nel 1889, quando si fissarono regole nuove per la direzione del gioco. Il «referee» – sempre stando fuori dal campo – doveva stilare un rapporto della partita, controllare il tempo di gioco, espellere il giocatore che si macchiasse di condotta irregolare (informandone poi l’Association). E per la prima volta nella storia gli veniva riconosciuto il potere di sancire un calcio di punizione anche se nessuno degli «umpire» glielo avesse chiesto, nel caso stimasse pericolosa l’azione di un giocatore.

Un passo in avanti che venne completato due anni dopo, nel 1891, quando in Inghilterra si contavano già un migliaio di giocatori professionisti; gente che viveva di calcio e per la quale vincere o perdere diventava una questione maledettamente importante. L’International Board non poteva esimersi dallo stabilire regole certe e chiare, togliendo la direzione di gara da quell’aura di incertezza che ancora la avvolgeva.

Se solo qualche anno prima era stata considerata scandalosa una eccessiva responsabilità attribuita al «referee», il tempo aveva fatto comprendere che l’evoluzione del calcio andava proprio in quella direzione. Nel regolamento venne allora stabilita una sorta di rivoluzione copernicana: il «referee» entrava in campo, anzi, diventava l’unico direttore di gara all’interno del terreno di gioco, mentre gli «umpire» ne uscivano, trasformandosi in supervisori delle linee laterali, i futuri guardialinee. Mantennero le loro classiche bandierine di segnalazione al modo dei marinai, ma il loro compito venne limitato a indicare quando la sfera fosse uscita dal campo.

Il “refèree” doveva dotarsi di un fischietto, da azionare quando decideva dì intervenire sul gioco, e il suo potete in campo era pressoché assoluto. La nuova regola 12 gli demandava la decisione in tutti i casi dubbi. Redigeva il rapporto, teneva il tempo ufficiale di gara, puniva i colpevoli in caso di condotta antisportiva e decretava l’espulsione dopo un grave fallo di gioco. Poteva sancire un calcio di punizione e, se richiesto, ordinare come punizione un calcio di rigore.

Attenzione, però. Nella maggioranza dei casi il suo intervento avveniva solo se richiesto. Poteva punire i giocatori di propria iniziativa unicamente in situazioni particolari, tipica quella del rischio per l’incolumità fisica, altrimenti fischiava solo se la “vittima” ne chiedeva l’intervento. In che modo? Con una frase importata pur ‘essa dal cricket: il giocatore gridava: «Cos’è quello?» («How’s that’?»). Solo dopo questo “appello” il “referee” poteva intervenire.

Anche se nella pratica la sua autorità continuava ad aumentare, ancora parecchi anni dopo la “RefereesChart” (Carta degli arbitri) della stagione 1906-07 stabiliva alla regola 9 come istruzione ai giocatori: «Giocate da gentiluomini! Non perdete il controllo. Quando chiedete una decisione, non chiamate genericamente “Fallo”, che potrebbe essere una qualsiasi delle dodici violazioni. In caso di fallo di mano, chiamate “Mani” e cosi via. L’arbitro allora saprà cosa volete».

Col passare del tempo, questo genere di richieste divenne sempre meno decisivo, trasformandosi in semplice protesta, che l’arbitro poteva considerare oppure no, a sua discrezione. Anche i rapporti tra arbitro e guardalinee comportavano problemi, soprattutto perché questi ultimi non sempre erano neutrali come nelle finali delle competizioni più importanti.

La menzionata “Carta ” sanciva alla regola 14 che toccava al guardalinee stabilire quando il pallone non fosse più in gioco e che suo compito era coadiuvare l’arbitro a condurre la partita nel rispetto delle regole. E aggiungeva: «In caso di intervento ingiustificato o cattiva condotta del guardalinee, l’arbitro ha il diritto di espellerlo dal campo e nominare un sostituto». E la Federazione cui apparteneva il guardalinee infedele doveva essere informata per iscritto dell’accaduto.

Altri passi erano stati fatti anche fuori dagli articoli del regolamento. Perché era chiaro che alla maggiore responsabilità dovevano corrispondere anche adeguate capacità e pure un minimo di gratificazione economica, se non altro per alleviare l’arbitro delle spese sostenute. Nel marzo 1893, per migliorare la qualità degli arbitri, Frederick Wall, che sarebbe diventato Segretario della Football Association, fondò a Londra, assieme a W.Pickford, l’Associazione Arbitri.

Lo scopo era allenare i direttori di gara in centri appositi, prepararli per i loro compiti e migliorare anche il loro status, così da trasformarli, nella considerazione generale, da “male necessario” a “servitori del gioco“. A compenso del loro lavoro, questi “giudici viaggianti” ricevevano all’epoca il biglietto del treno (di seconda classe); le spese erano rimborsate solo se dovevano dirigere almeno a trenta miglia lontano da casa oppure dovevano pernottate fuori. La paga per la direzione di gara era piuttosto modesta, ma fissava un principio fondamentale; il ruolo dell’arbitro era delicato e decisivo e dunque chi lo ricopriva doveva dare, ma anche pretendere certe garanzie.

Nei primi anni del secolo scorso l’evoluzione andava completandosi, anche se la caccia alla novità non si è mai chiusa. E in proposito vale la pena ricordare come l’idea del “doppio arbitro“, cavalcata fino all’avvento del VAR da dirigenti di club anche in Italia (uno dei paladini fu ai suoi tempi Giampiero Boniperti), nacque già nel calcio inglese. Per la precisione, nel 1935 venne giocata una partita sperimentale a Chester, arbitrata da due direttori di gara: A. W. Barton e E. Wood, due dei fischietti più autorevoli del calcio britannico. Si piazzarono ognuno in una metà campo, così da garantire la vicinanza all’azione in ogni momento. L’esito fu considerato “eccellente”, ma la considerazione del raddoppio dei costi (sic) ebbe il sopravvento e il progetto venne respinto. E ancora non si immaginava che gli ex «umpire» un giorno sarebbero stati pagati decine di migliaia di euro l’anno….