Grandi ritorni: felici & perdenti

Tutti i grandi allenatori del nostro calcio, prima o poi, sono tornati sul luogo del trionfo. E non è sempre andata bene…

In passato quasi tutti i big della panchina, prima o poi, sono tornati sul luogo del trionfo. Gli esiti felici sono stati rari, forse perché il tempo cambia le cose e le persone e il feeling con l’ambiente, segreto dei grandi successi, non è una miscela che si possa evocare a comando, ricorrendo a ingredienti già noti.

In più, è fatale che il ricordo dei fasti passati susciti aspettative esagerate, nemiche tradizionali della serenità indispensabile alla riuscita di ogni lavoro. Ecco perché, più che di grandi ritorni, è appropriato parlare di ritorni dei grandi.

Willy Garbutt: Genoa

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Prima del dopoguerra era stato Willy Garbutt, antesignano dei grandi tecnici di club, a tornare sui passi che l’avevano reso famoso, sulla via del Genoa e dei tre scudetti rimasti in bacheca a ricordo del suo lavoro. Correva l’anno 1937, erano passati undici anni e il tocco magico si era un po’ appannato. Garbutt tenne alto il vessillo, conquistando tre buoni piazzamenti (fuori dall’orbita scudetto) prima di ritrovarsi in disgrazia: vedovo a causa di un bombardamento e internato come cittadino di un Paese nemico allo scoppiare della guerra. Insomma, non gli portò granché bene, quel ritorno, cui un altro ne fece seguire quando la tragedia si fu placata. Un decimo posto, poi l’onta del siluro, definitivo sipario calato sull’uomo che aveva costruito la leggenda del Genoa, il primo dei grandi allenatori moderni.

Nereo Rocco: Milan

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Che la cosa non portasse bene è probabile dunque che qualcuno lo pensasse, se è vero che nel dopoguerra il primo a riprovarci fu Nereo Rocco, solo alla fine degli anni Sessanta. La carriera del “Paron” portava una lontana cicatrice, legata agli esiti disastrosi di un primo ritorno, alla sua Triestina dopo tre anni a Treviso, costatogli un licenziamento in tronco con un pesante corollario di amarezze, livori, invidie. Così quando lasciò il Milan nel giugno del 1963, fresco della prima Coppa dei Campioni conquistata da un club italiano, forse non pensava di poter tornare, un giorno. Invece quel giorno arrivò.

A Milano aveva seminato amicizie profonde e un doppio cambio di proprietà aveva spazzato via gli antichi problemi di rapporti con lo staff dirigenziale. Il nuovo patron, il baby Franco Carraro, aveva radici padovane e ben conosceva l’aura di leggenda che circondava il Paron nella città del Santo. Rocco era rimasto uno «straniero» a Torino, troppo diritta e gelida nelle sue vie per cooptare la sua tendenza alle scorciatoie in vernacolo, una bevuta in compagnia e qualche sfuriata a brutto muso tanto per scaldare le vene e i cuori. Insomma, ne avevano voglia entrambi, il Milan e Rocco, e quel ritorno si risolse in un fuoco d’artificio, forse proprio in quanto non si trattava di ricreare qualcosa, ma di costruire ex novo: scudetto, Coppa delle Coppe, Coppa dei Campioni, Coppa Italia nella breve sequenza di appena due anni. Poi, ottimi piazzamenti, un’altra Coppa Italia, un’altra Coppa delle Coppe, prima che la fatal Verona oscurasse l’orizzonte. Rocco se ne va nella primavera del 1974, ma il suo nome resterà legato ai colori rossoneri. Anche se un anno e mezzo dopo tornerà di nuovo, nelle vesti di direttore tecnico, per comprendere di essere finito sul binario morto che conduce alla pensione. Una Coppa Italia e l’addio, con poco tempo ancora da vivere.

Alfredo Foni: Inter

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Giusto un anno dopo il ritorno di Rocco al Milan, il presidente dell’altra sponda, Ivanoe Fraizzoli, tentò di imboccare la stessa strada. Aveva appena raccolto il testimone da Angelo Moratti, inseguiva un sogno di immediata grandezza e gli parve geniale l’idea di far tornare chi l’Inter l’aveva resuscitata in anni lontani. Alfredo Foni era stato l’uomo del Catenaccio, due scudetti nerazzurri nel 1953 e 1954, unici fiori del dopoguerra prima della grande creatura di Helenio Herrera. Poteva essere l’uomo giusto, ma da troppo tempo le frequentazioni svizzere lo avevano sottratto al grande giro del calcio italiano.

Riuscì solo a proporre un’Inter lunatica, ora brillante ora moscia, in linea con quel certo patrimonio genetico che la vede capace di qualunque impresa, in negativo come in positivo. Uscì male dal derby d’andata, smarrendo le piste dell’ottimo avvio. Uscì male dalla Coppa Italia e chiuse al quarto posto, cioè fuori dal giro-scudetto. Gli venne offerto, forse più per forma che per sostanza, di restare come “chioccia” del giovane Invernizzi, rifiutò e lì svanì con un pizzico di malinconia il suo sogno di ringiovanire di quattordici anni.

Helenio Herrera: Inter e Barcellona

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Il ritorno per antonomasia degli anni Settanta riguardò l’artefice della Grande Inter. Helenio Herrera aveva lasciato la creatura nerazzurra nel 1968, con un anno di ritardo sulla ridda di appuntamenti mancati che in pratica aveva chiuso la leggenda della squadra. Cinque anni dopo, nel 1973 usciva piuttosto ammaccato da cinque stagioni alla Roma, tanto gratificanti sul piano economico, quanto catastrofiche su quello tecnico. Esonerato alfine dopo tante delusioni, era tornato su piazza e non parve vero a Fraizzoli di riprovarci dopo il fiasco dell’operazione-Foni.

Naturale che il ritorno del Mago nella Milano nerazzurra destasse scalpore e ferventi attese, nonostante il trattamento sbrigativo riservato dalla sorte negli ultimi anni alle sue quotazioni tecniche. Il Mago arrivò e, forse per mettersi avanti col lavoro, vinse la battaglia sospesa tanti anni prima, riuscendo a liberarsi dell’estro mancino di Mario Corso, spedito dall’Inter al Genoa per un malinconico tramonto di carriera. Quel successo rimase però l’unico. I testimoni dell’epoca raccontano di patetici tentativi di rinnovare proclami e fasti di un tempo, finché una pietosa broncopolmonite gli venne in soccorso, stropicciandogli il fisico ma risparmiandogli la ferita morale di una cacciata dalla creatura più amata. L’8 febbraio 1974, dopo appena otto mesi, si chiudeva per motivi di salute un ritorno che più piccolo non sarebbe potuto risultare.

I felini tuttavia dispongono sempre di qualche vita di riserva e Herrera, che dei felini possedeva l’astuzia e la caparbietà, si sarebbe in parte rifatto sei anni dopo con due consecutivi ritorni a Barcellona, l’altro grande polo della sua carriera, entrambi in prossimità del traguardo e coronati da buoni risultati, insufficienti tuttavia a valergli la conferma. Una delusione che lo estromise in via definitiva dalla carriera.

Nils Liedholm: Roma e Milan

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Astuto e lungimirante: ecco due qualità primarie dell’altro mago per antonomasia, Nils Liedholm. Lo era da organizzatore di gioco in campo, tanto più lo è stato in panchina. Agile a sfilarsi in tempo dal successo onde schivarne i contraccolpi e mantenerne i crediti a futura memoria. Le prove generali Liddas le fece nel 1977: al Milan, dove aveva allenato subito dopo aver smesso di giocare, non aveva vinto nulla e dunque non si trattava di un grande ritorno, ma il Milan rappresentava casa sua e il battesimo della panchina lo aveva portato vicinissimo allo scudetto, trasformato in secondo posto nella primavera del 1965 dalla impetuosa rimonta dell’Inter di Helenio.

Insomma, nel 1977 Liedholm torna al Milan dopo undici anni e una carriera indirizzata all’apparenza verso un’aurea mediocrità. In sole due stagioni in rossonero, con mezzi tecnici a disposizione tutt’altro che eccelsi, riesce a costruire lo scudetto della stella, iscrivendosi al club dei grandi allenatori del calcio italiano. Da quel momento, la sua carriera si impenna. Nel 1979, all’indomani del trionfo, Liddas gioca le proprie carte in modo magistrale, chiedendo al presidente Felice Colombo un rinnovo triennale del contratto, niente più che uno scivolo comodo verso la pensione, per un vecchietto che a 57 anni sente di essere ormai vicino all’era dorata del tramonto. Colombo non si intenerisce, restando fermo all’offerta di un solo anno di contratto, prendere o lasciare, ed è la fortuna del Barone.

Il quale lascia, inventandosi un nuovo ritorno, questa volta alla Roma, già frequentata con buon profitto prima di emigrare all’ombra di San Siro. In giallorosso costruisce il capolavoro, sfiorando e poi agguantando lo scudetto e arrivando a soli undici metri dalla Coppa dei Campioni. Mentre, pochi mesi dopo la sua partenza, lo scandalo delle scommesse aveva precipitato il Milan in B, un’onta inimmaginabile per il blasone del grande svedese.

Che all’indomani dell’insuccesso contro il Liverpool, nel 1984, è pronto al suo primo grande ritorno, nel Milan targato Giuseppe Farina. Il gioco questa volta riesce a metà: la società del corsaro vicentino assomiglia più a un colabrodo che a una corazzata, e quando al timone arriva Silvio Berlusconi, il Barone è ormai passato di cottura.

Niente di male, all’indomani dell’esonero c’è senz’altro un posto che serba buoni ricordi: la Roma, dove Liedholm riapproda al suono delle fanfare. Questa volta non va oltre un terzo posto e l’anno dopo – stagione 1988-89 – ci sarà spazio nei un ulteriore, improbabile ritorno, al capezzale della squadra malata, poche settimane dopo averne subito lo schiaffo dell’esonero per motivi di classifica. La Roma, una Roma scombinata e malinconica, si salva e il Maestro se ne va, dopo aver spremuto al massimo i crediti maturati in carriera.

Gigi Radice: Torino

gigi radice allenatore

Non poteva restare insensibile al fascino dei l’operazione revival il vecchio gladiatore Gigi Radice. Che nel 1984, gonfio di ecchimosi rimediate alla guida di Milan, Bari e Inter, va alla ricerca del tempo perduto sulla via di Torino, sede del capolavoro della sua carriera, il primo e finora unico scudetto granata del dopo Superga, anno 1976. La pelle del Toro si attaglia bene alla sua grinta e frutta un secondo posto a un soffio dal Verona di Bagnoli nonostante ambizioni limitate.

Dopo lo scudetto mancato, l’aurea mediocrità di tre campionati tranquilli confermerà la sintonia del tecnico con la squadra, prima del canonico esonero, nella primavera del 1989. Radice diventerà poi uno specialista di ritorni, andando a rispolverare le panchine di Bologna, Fiorentina e Cagliari, già frequentate con profitto, ricavandone però una sequenza di brucianti schiaffoni. E chiuderà la carriera a Monza, là dove l’aveva cominciata trent’anni prima, nella stessa categoria (la C), inciampando sul solito esonero, capolinea classico degli allenatori di ventura.

Giovanni Trapattoni: Juventus

trapattoni juventus 1994

Gli anni Novanta sono una specie di galleria sul suggestivo tema del ritorno dei grandi. Vi figurano i massimi esponenti della panchina nazionale, introdotti dal più decorato, Giovanni Trapattoni. Aveva abbandonato la Signora nel 1986, dopo averla sedotta con l’ennesimo scudetto al culmine di un decennio di fortunato matrimonio, per mettere la testa nel forno interista. Nel 1991, stanco della «centrifuga nerazzurra», come ebbe a definirla (nonostante Massimo Moratti non fosse ancora stato inventato), ricevette una telefonata da Gianni Agnelli: sul colle fatale di Torino l’amore non era mai tramontato, il fiasco dell’operazione Maifredi richiamava le lusinghe di una restaurazione illuminata.

«Torniamo all’antico, sarà un progresso!», aveva un giorno proclamato il leggendario Giuseppe Verdi, ma l’auspicio non valse nell’occasione. Il Trap si ritrovò un desco apparecchiato a fuoriclasse, da Roby Baggio a Vialli, ma non andò oltre un paio di secondi posti in campionato, che, seppur conditi da una Coppa Uefa, come è noto alla Juve rappresentano più una beffa che una medaglia. Dopo tre stagioni, il Trap lasciò la Juve senza avere stanato i tempi d’oro dalla stanza blindata dei ricordi. Meglio gli sarebbe andata in Germania, quando, di ritorno al Bayern dove aveva lasciato il discorso a metà, avrebbe colto nel 1998 un titolo e una Coppa nazionale.

Arrigo Sacchi: Milan

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Il fresco precedente non intimorì Arrigo Sacchi, il giorno che la misura delle rispettive delusioni sembrò colma sia a lui che al suo vecchio Milan. Se ne era andato nel 1991, onde evitare che la fresca leggenda del suo Diavolo moderno e vincente scolorisse del tutto, ed era riparato all’ombra della Nazionale.

Qui il secondo posto (una situazione ricorrente, in questa galleria) ai Mondiali 94 e la figuraccia a Euro 96 avevano ingigantito le perplessità sulla effettiva qualità di uomo vincente. Coincidenza volle che nello stesso momento al Milan il maestro uruguaiano Tabarez si ritrovasse a “grattare” in modo imbarazzante ad ogni cambio di marcia. Così l’attrazione fu di nuovo fatale. Accadde tutto in una notte, dopo una sconfitta del Milan a Piacenza. La mattina dopo la Nazionale si cercava un nuovo tecnico (Cesare Maldini), mentre Arrigo ripercorreva con passo lieve i sentieri di Milanello

Nonostante la cieca fiducia riposta in lui da tutto l’ambiente, il tentativo di resuscitare i bei tempi andati si trasformò in una specie di sciagura, chiusa a fine stagione con un inevitabile atto di eutanasia tecnica. Talmente duro che da quel colpo. Arrigo non si riprese più.

Fabio Capello: Milan

fabio capello milan allenatore

Al Milan non sono scaramantici, sicché all’indomani del tracollo di Sacchi pensarono di curare la malattia con la stessa medicina: il ritorno di un grande. Fabio Capello aveva lasciato la famiglia rossonera dopo quattro scudetti in cinque anni, indignato per una “clausola a vincere” impostagli dopo l’unica stagione chiusa senza trionfi. A Madrid aveva portato al primo colpo le merengues sul trono della Liga, suscitando il caldo rimpianto di Berlusconi. La chiamata del quale ne risvegliò al punto giusto l’orgoglio, inducendolo a una rottura considerata dal patron madridista Sanz un vero e proprio tradimento.

Mai come in questo caso l’equazione ritorno-successo sembrò scontata, muovendo l’unanimità del pronostici. Eppure, anche allora il risultato fu rovinoso. La qualità deteriorata della rosa finì col guastare persino il rapporto con l’ambiente, coltivato fino a due anni prima con eccellenti risultati. Liti con i giocatori, lo sfascio della squadra e la contestazione feroce del tifosi scandirono il calvario del tecnico inducendolo ad andarsene a fine stagione, peraltro con un anno ancora di stipendio garantito dal Milan.

Ottavio Bianchi: Napoli

bianchi maradona napoli

Ma gli anni Novanta portano altri revival in tono minore, entrambi finiti con esito soddisfacente ma sottilmente malinconico. Ottavio Bianchi, indimenticato allenatore del primo scudetto del Napoli, venne chiamato al capezzale della squadra, in odore di retrocessione, dopo nove giornate nel campionato 1992-93 in sostituzione di Claudio Ranieri. Il suo addio era stato burrascoso, complice un carattere intransigente e rancoroso; il ritorno spostò la squadra dal quattordicesimo al dodicesimo posto finale, garantendole una salvezza tutt’altro che scontata. I tempi di Maradona erano svaniti e il tecnico ambiva a un lavoro di scrivania al riparo dagli stress del campo, quale ottenne l’anno dopo con l’incarico di general manager, lasciando in panchina Marcello Lippi.

Vujadin Boskov: Sampdoria

vujadin boskov sampdoria allenatore

Più intrigante ma ancora più malinconico, il recupero di Vujadin Boskov alla causa della Sampdoria, resa grande dal tecnico jugoslavo quanto mai era stata grazie a una covata di giovani talenti che la sua mano leggera aveva guidato facendosene guidare. Cinque anni dopo l’addio, consumato all’indomani della bruciante sconfitta di Wembley nella finale di Champions League, una bizzarra scelta di Enrico Mantovani aveva portato sulla panchina blucerchiata l’ex campione del mondo Luis Cesar Menotti, detto “El Flaco” per l’ossuta magrezza. Dopo poche giornate, l’ex Ct argentino camminava per il campionato italiano con incedere elegante, immerso in elevati pensieri, mentre la squadra franava verso la retrocessione con piccoli ma ostinati smottamenti. Così il presidente decise di tornare all’antico. Ma “zio Vuja” non ritrovò gli antichi adorati nipotini. La Sampdoria veleggiava all’ottavo posto, lui ebbe il merito di mantenercela, senza però sgombrare il campo dalla malinconica impressione di cercare di riacchiappare nel vento i fantasmi di Vialli e Mancini, ricordi di un tempo riottoso a rivivere.

Come le rondini: Pesaola, Galeone, Scoglio

pesaola galeone scoglio

Un capitolo particolare del grande romanzo dei ritorni di panchina lo hanno scritto alcuni allenatori abituati per anni a tornare prima o poi sempre nello stesso posto. Un tempo c’era Bruno Pesaola detto “il Petisso” per la bassa statura. Come allenatore era “nato” nel Napoli e alla guida della squadra azzurra aveva colto due risalite in A e una Coppa Italia. Dopo di anni con Fiorentina (scudetto) e Bologna (Coppa Italia), tornò una prima volta a Napoli nel 1976, vincendo la Coppa di Lega Italo-Inglese, e poi venne richiamato al capezzale della squadra nel 1982, per portarla in salvo e chiudere la carriera.

Più fedeli ancora si sono dimostrati nel tempo Giovanni Galeone e Franco Scoglio.

Il primo è un randagio della panchina, friulano d’origine, che nel 1986 ha l’incontro della vita con il Pescara. In riva all’Adriatico le sue idee zoniste e spettacolari prendono il volo dopo un interminabile vagare senza grande costrutto nelle serie minori. Il Pescara fila diritto in Serie A tra l’entusiasmo popolare e il sogno continua la stagione successiva, per infrangersi poi sulla retrocessione del 1989. Dopo una breve avventura a Como, Galeone riascolta le sirene abruzzesi e torna alla sua squadra nel 1990-91, in tempo per salvarla, preparando una nuova promozione per l’anno successivo. C’è chi vorrebbe intitolargli una strada, ma l’anno dopo la dura legge della A si traduce in un crudele siluro. Dopo i successi di Udine e Perugia e la catastrofe di Napoli, Galeone torna ancora a Pescara nell’estate del 1999. Il disastroso avvio (dovuto all’oggettiva povertà dell’organico) gli impedisce di allestire un nuovo progetto-promozione e a fine stagione la società gli dà il benservito preferendogli Delio Rossi. Bastano però nove giornate per capire che la stagione è priva di luce. E allora, chi meglio del grande profeta per riagganciare il treno della salvezza? Il 5 novembre 2000, Galeone è di nuovo a casa, sulla panchina del Pescara, ma il terzo ritorno (un primato) gli risulta fatale: la squadra precipita e dopo nove giornate e sei miseri punti Galeone è costretto di nuovo a lasciare la panchina biancazzurra. Chiuderà la carriera nel 2006 ritornando sulla panchina dove tutto era iniziato: Udine.

Per Scoglio, il Genoa è una specie di colpo di fulmine. Disarcionato dal destino sulla via di Boccadasse nel 1988, vi coglie una immediata promozione in Serie A, condita di innamoramento per il luogo e la sua gente. Ricambiato, Scoglio diviene un idolo per due brevi ma intense stagioni. Tanto forte è il legame da tornarvi poi nel 1994, a cogliere a campionato in corso una importante salvezza, sciupata dall’esonero dell’anno successivo, e infine nella stagione 2001/02, quando ormai le sue piste professionali battevano la terra d’Africa. Scoglio riesce nell’impresa di risvegliare una squadra ormai in catalessi dopo cinque (!) gestioni tecniche fallimentari nel giro di pochi mesi. In fondo, tornare a Genova ad accudire il vecchio Grifone per lui è sempre stato una specie di dolce periodica incombenza, addirittura al di là dell’impegno professionale.