GROBBELAAR Bruce: The Clown Prince

L’indice sul grilletto del fucile. Le pallottole che fischiano a un centimetro dalle orecchie. La terra che si trasforma in fango tinto di rosso. Solo sabbia impastata col sangue, giorno dopo giorno. Mese dopo mese. A volte la guerra può essere un’alternativa. Anche se non è la tua di guerra. Anche se sei ancora solo un ragazzino che viene da un altro Paese. A volte la guerra può essere un’alternativa. Soprattutto se sei in cerca dei soldi per tirare avanti. Nottate intere passate in trincea, rannicchiato con la faccia contro la sabbia. Giornate intere trascorse a stanare i nemici che si nascondono nei boschi. Pomeriggi interi passati a capire che, alla fine, la differenza fra il sopravvivere e il morire è solo una questione di centimetri. Di centimetri e di frazioni di secondo.

Bruce Grobbelaar non ha avuto tempo per essere un ragazzo. O forse è stato lui a scegliere di non esserlo. L’ha deciso quando ha smesso di giocare a cricket e ha rifiutato di andare a imparare a tirare a baseball negli Stati Uniti. L’ha stabilito quando ha salutato il suo Sudafrica per indossare la divisa dell’esercito della Rhodesia. A soli 17 anni. Un mercenario al servizio del dio denaro. Un ragazzo che spara ad altri ragazzi in cambio dello sterco del demonio. Un inferno dove l’unica cosa che conta è non farsi ammazzare. Si sfama mangiando insetti. Si disseta con l’acqua piovana. In una guerra che ti rimane dentro. Una guerra che ti mangia il cervello e che ti insegna a non fidarti più di nessuno. Neanche di chi conosci da sempre.

Grobbelaar è uno di quelli che non ha tante alternative. Quando non pensa a come riuscire a portare a casa la pelle, ha in mente il pallone. Sogna di difendere la porta di una squadra importante. E sogna di essere pagato per farlo. Ci aveva provato fin da piccolo. Prima di sfilarsi i guantoni per imbracciare il fucile, si era candidato per difendere la porta dello Jomo Cosmos di Johannesburg. Allora l’avevano ringraziato e gli avevano consigliato di cercare gloria altrove. Un’esclusione che Bruce si era spiegato con motivi razziali. Lui, l’unico bianco in una squadra di giocatori di colore. Una specie di apartheid rovesciata. Un rifiuto che per uno come lui non può essere certo una bocciatura definitiva. Nossignore.

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Per lui il calcio non è uno sport. Per lui il calcio è una medicina. La medicina che gli permette di non impazzire in quella barbarie collettiva. La calamita che attrae i suoi pensieri fra uno sparo e l’altro. È grazie al pallone che Bruce trova il coraggio di disertare, di fuggire dal quel mondo senza senso dove persone uccidono altre persone per soldi, per utopia, per un qualche motivo etnico. Un giorno sparisce e prende il volo. Fino in Canada, dove il calcio è solo un cimitero per elefanti, un qualcosa che assomiglia molto più a un hobby che a uno sport.

Non per Grobbelaar. Lui ha ancora tutto da dimostrare. Lui ha fame. Una fame che non si sazia con gli insetti e con l’acqua piovana. Bruce vola da un palo all’altro, si tuffa in maniera sgraziata ma efficace, diventa la saracinesca dei Vancouver Whitecaps. In poco tempo è chiaro a tutti che quel talento è sprecato per la North American Soccer League. Così i telefoni cominciano a squillare. I club di Sua Maestà sono scettici. Chi ha fatto il favore al mondo intero di inventare il football non ha certo bisogno di un ex mercenario al soldo della Rhodesia.

I primi a credere in lui sono i dirigenti del Crewe Alexandra. Sbarcano dall’altra parte del mondo, staccano un assegno, fanno salire con loro su un aereo quello strano soggetto che per professione ha scelto di fare il portiere. Non se ne pentiranno. Dopo dodici mesi altri dirigenti sbarcano a Crewe, staccano un altro assegno, fanno salire con loro su un altro aereo quello strano soggetto che per mestiere ha deciso di fare il portiere. Correva l’anno del Signore 1981 e questa volta, però, sulle tasche delle giacche di quei colletti bianchi è ricamato lo stemma del Liverpool.

L’inizio è un calvario. Nessuno si fida di lui. Nessuno è pronto a scommettere una sterlina su di lui. In molti si convincono di aver preso un abbaglio. Joe Fagan, il suo primo allenatore al Liverpool, non riesce proprio a sopportarlo. «È pazzo. Ogni volta, negli spogliatoi, prende due palloni e si diverte a sgonfiarli, poi ride a crepapelle, come un pagliaccio. Non si concentra, non infonde fiducia ai compagni». La natura non gli dà certo una mano. La stempiatura e gli occhi iniettati lo fanno assomigliare a un clown che non fa ridere nessuno. A un clown che fa quasi paura.

I suoi tifosi, quelli che dovrebbero urlare il suo nome, non fanno altro che bersagliarlo. Prima di ogni partita gli lanciano monetine. Mai una sterlina tutta intera. Solo pezzi da uno o due penny. Solo pezzi da uno o due penny che hanno come unico obiettivo la sua umiliazione. Lui non si scompone, anzi, gli basta una frase per zittire tutti. «Che bello, ne faccio collezione. Raccolgo sei sterline ogni anno». E dalle mani dei suoi tifosi non partono più spiccioli ma applausi.

Grobbelaar vola da un palo all’altro, si tuffa in maniera sgraziata ma efficace, diventa la saracinesca del Liverpool. Per tredici, lunghissimi, anni. Tredici lunghissimi anni costellati da sei scudetti, tre Coppe d’Inghilterra e tre di Lega. Ma a lui non basta. Ha ancora fame. Bruce aspetta l’occasione della vita. Un’occasione che arriverà il 30 maggio del 1984. La Roma si gioca la finale di Coppa dei Campioni proprio in quell’Olimpico che è il teatro delle prodezze domenicali di Agostino Di Bartolomei, di Roberto Pruzzo, di Bruno Conti. Gente che con un tocco di palla è capace di cambiare il corso di un campionato, figuriamoci di una finale.

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Di una finale che si gioca davanti al proprio pubblico. Neal ci mette solo undici minuti per portare avanti i Reds. A Pruzzo ne servono una trentina in più per avvitarsi e segnare di testa la rete del pareggio. Un risultato di parità totale che solo la giustizia parziale dei calci di rigore riuscirà a modificare. Fagan si avvicina al suo numero uno: «Bruce, non ti preoccupare di come andrà, nessuno ti incolperà. Anche se loro dovessero segnare tutti e cinque i calci di rigore».

Per Grobbelaar sono parole vuote, senza senso. Lui non si accontenta di non avere colpe, lui vuole i meriti. Nicol calcia alle stelle il primo rigore del Liverpool, Di Bartolomei porta la Roma in vantaggio, Neal trasforma il penalty del momentaneo pareggio. È allora che Bruno Conti sistema la palla sul dischetto. «Ho iniziato a fare un ballo da discoteca degli anni Sessanta, dove metti le tue mani sulle ginocchia e cominci a farle incrociare. Non chiedetemi perché. Ho sempre fatto cose simili e visto che dovevo mantenere i miei piedi sulla linea di porta non avevo molte alternative». Funzionerà comunque. Marazico manda alto e riporta la situazione in parità. Una parità interrotta dalle realizzazioni di Graeme Souness, di Ubaldo Righetti e di Ian Rush. Tocca a Ciccio Graziani.

L’attaccante appoggia la palla a undici metri dalla porta, si volta, prende la rincorsa. Tutto mentre nella testa di Grobbelaar si materializza un’altra stramba idea. «Mi sono girato verso i fotografi dietro la porta e ho cominciato a mordere la rete. Mi ricordo di aver pensato: ‘Questo è come gli spaghetti. Ho capito, userò la gamba a spaghetti molli contro di lui!’ Così ho reso le mie gambe molli, come se fossero fatte di spaghetti». E avrà ragione. Ancora. Graziani si fa il segno della croce e spedisce il pallone sulla parte superiore della traversa.

Il Liverpool è campione d’Europa. Il Liverpool è campione d’Europa grazie alla trovata del suo portiere pagliaccio. Un anno dopo Bruce fa di nuovo la conoscenza della morte. Bruxelles. Stadio Heysel. La Juventus e il Liverpool si contendono la Coppa dei Campioni in una partita che diventa un inferno e una farsa. Sugli spalti muoiono in trentanove. Trentanove tifosi che vengono calpestati e schiacciati da altri tifosi. Giocate comunque, ordina l’Uefa. Una partita insensata decisa da un rigore inesistente. Un rigore inesistente trasformato da Platini. Stavolta Bruce non se la sente di ballare la disco anni Sessanta o di sfoderare la sua spaghetti legs. La Juve alza il trofeo in un ambiente dove le lacrime superano gli applausi. Sangue che bagna il metallo prezioso di una coppa.

Vergogna che arrugginisce per sempre la lega della coppa con le orecchie. Sangue che fa passare a molti la voglia di continuare. «Sento il bisogno di fare il punto e di interrogarmi seriamente sul seguito della mia carriera di calciatore professionista dopo quanto è accaduto a Bruxelles – spiega il numero uno in un’intervista qualche giorno dopo – io gioco a calcio perché mi diverto ma quel che ho visto mercoledì non aveva nulla a che vedere con lo sport e non sono certo di volere ancora far parte di un fenomeno che ormai è diventato una malattia della società. Inoltre, una volta rientrato a Liverpool, ho trovato dei ragazzi davanti alla mia casa che scandivano il punteggio della partita e tiravano sassi contro le mie finestre».

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Alla fine decide di andare avanti, di continuare a fare l’unica cosa per la quale si sentiva tagliato. Un’avventura che dura altri sette anni. Nel 1992, il Liverpool mette a segno quello che sembra essere un grande colpo di mercato. Per una carrettata di sterline riesce ad accaparrarsi David James, il gigante dalla presa d’acciaio che doveva rendere radioso il futuro dei Reds. Bruce non si sente finito. Neanche se la sua carta d’identità è appesantita da trentasei primavere. Saluta tutti, se ne va al Southampton.

Ma proprio quando pensava di potersi rilassare un po’, ecco che viene travolto dallo scandalo scommesse. Il Sun lo accusa di aver truccato il risultato di una partita fra Newcastle e Liverpool (finita tre a zero per i bianconeri) per assecondare delle bande di scommettitori clandestini dell’Estremo Oriente. Tutto in cambio dell’equivalente di cento milioni di lire. Il tabloid garantisce l’esistenza di un filmato che inchioda il portiere. Un filmato girato da Christopher Vincent. Non un testimone qualsiasi, uno che insieme a Grobbelaar era cresciuto. Uno che con Grobbelaar aveva combattuto fianco a fianco nell’esercito rhodesiano e poi, dopo anni, aveva prima creato e poi visto fallire un’agenzia turistica. Dei guadagni nemmeno l’ombra, ma i debiti si sentivano eccome. Per questo, secondo Vincent, il portiere aveva deciso di intascare qualche extra spalancando la porta dei Reds. La stessa porta che aveva difeso con gli spaghetti molli.

Bruce continua a giocare, ma le cose intorno a lui cambiano in fretta. La giustizia britannica fa partire un processo che sembra già scritto. Se quel saltimbanco era pronto a uccidere per il denaro, figuriamoci se non sarebbe stato pronto a vendere qualche partita, pensa la gente. Bob Wilson, giornalista sportivo ed ex portiere dell’Arsenal e della Scozia, lo difende pubblicamente. Rivede le partite incriminate, cerca di far capire che i gol incassati dal Liverpool erano tutti imparabili, che un giocatore non può determinare da solo il risultato esatto di una partita. Soprattutto se si tratta di un tre a zero.

Peccato che la giustizia sia più difficile da convincere. Il primo processo si risolve in un nulla di fatto. La giuria non è in grado di raggiungere un verdetto. Serve un processo bis. Alla fine Grobbelaar viene assolto. Non ha commesso il fatto. La sua battaglia è vinta, ma l’estremo difensore ha poco da stare allegro. I giudici stabiliscono che Bruce ha diritto a un risarcimento simbolico di una sterlina da parte del Sun. Gli avvocati si congratulano con lui e poi mostrano una parcella da 500mila sterline. Una sentenza durissima, capitale in qualche misura. L’ex numero uno dei Reds viene dichiarato fallito. Una frase elegante per far capire che per Grobbelaar, ora, si è aperta una nuova vita. Una vita di miseria e povertà. Una vita da reietto.

Torna a casa, in quella Rhodesia per la quale aveva combattuto e ucciso. Il suicidio comincia a essere qualcosa in più di una semplice ipotesi. Diventa un pensiero con cui condividere la giornata, un modo rapido per liberarsi di un fardello troppo pesante da portare. «Sarebbe sembrata l’azione di una persona colpevole che non vuole assumersi le responsabilità. Io invece sono innocente e non vigliacco. Lo scandalo scommesse è stato creato ad arte. Pago certi atteggiamenti arroganti, da clown. Ma i portieri esistono per far ridere la gente». E in questo Bruce è come Lui, eterno abbandonato in una squadra che non camminerà mai da sola.

Tratto da “Manicomio Football Club” di Andrea Romano

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