HENRY Thierry: una carezza in un pugno

La forza di uno schiaffo con l’eleganza di una carezza. Thierry Henry può essere definito con queste semplici parole, che dipingono sufficientemente bene che grandissimo giocatore sia stato.

Un attaccante completo, feroce in area di rigore e prezioso in fase di costruzione di gioco; mortifero, freddo e spietato davanti al portiere; capace di giocate ai limiti della fisica, belle da vedere ed impensabili per un comune mortale. Implacabile nell’uno-contro-uno, madre natura ha donato a Titì un cambio di passo fuori dal comune, che unito ad una tecnica stellare lo rendeva un attaccante immarcabile, devastante.

Nato e cresciuto in un distretto parigino, Henry è stato iniziato al calcio dal padre Antoine, originario della Guadalupa e grande appassionato di calcio. Duro, come spesso molti padri di grandi sportivi, Antoine inizia il piccolo Thierry al mondo del calcio. E’ chiaro a tutti che il ragazzo abbia un potenziale fuori dal comune, ed il suo primo estimatore è Arnold Catalano, osservatore del Monaco, che gli offre l’ingresso in squadra senza bisogno di alcun provino.

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Nel principato Henry cresce fisicamente e tecnicamente, tanto da attirare su di sé l’attenzione del manager del Monaco, Arsène Wenger. Il tecnico alsaziano ha il coraggio di aggregare alla rosa della prima squadra un Henry non ancora maggiorenne, facendolo debuttare nel 1995. Thierry, abituato a svariare su tutto il fronte d’attacco, viene adattato sull’esterno, dove la sua velocità ed il dribbling secco, fulmineo, possono fare la differenza. Per nulla spaventato dal confronto con i grandi, Henry mette a referto 8 presenze e 3 reti, guadagnandosi un posto in pianta stabile per gli anni avvenire.
Agli ordini dell’ex stella transalpina Jean Tigana, Henry forma con Trezeguet e Guivarc’h uno dei tridenti più letali dell’intero continente, riportando il Monaco sul tetto di Francia e incantando in Champions League, dove incrocia il suo più immediato futuro, la Juventus.

Nonostante Henry non segni a grappoli, come abituato a fare nelle giovanili, Luciano Moggi decide di investire sulla stella di origine caraibica. Nell’inverno del 1998, a sorpresa, Henry è il regalo che la dirigenza bianconera fa ad Ancelotti, subentrato a Marcello Lippi ed orfano di Alessandro Del Piero. Il tecnico emiliano, compiendo forse l’unico errore della sua carriera, sacrifica Henry sull’esterno di centrocampo in favore di Inzaghi ed uno fra Fonseca ed Esnaider. Nonostante tutto gioca 16 buone partite, condite da una doppietta mortifera all’Olimpico di Roma, che spiana la strada al Milan per la rimonta scudetto ai danni della Lazio.
Confermato per la stagione successiva, Henry viene di colpo venduto all’Arsenal in un torrido pomeriggio di Agosto. Una giornata indelebile, in cui fu mia nonna a riportarmi la ferale notizia, legandomi in modo indissolubile alle gesta di Titì.

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A Londra lo aspetta a braccia aperte il suo primo mentore, quell’Arsène Wenger che lo aveva fatto debuttare fra i professionisti e che, per primo, aveva provato a spostare Henry sulla fascia, solo per non togliere dal campo uno fra Ikpeba e Sonny Anderson.
Ad Highbury, però, occorre un nuovo centravanti per far dimenticare ai Gunners il connazionale Nicolas Anelka, appena ceduto al Real Madrid. L’inizio non è dei migliori, con il talentino che non trova la via della rete nelle prime otto di campionato, attirando su di sé i malumori di Highbury. Con 26 reti alla prima stagione londinese, Henry scaccia tutti i detrattori ed inizia ad incantare il mondo intero. Non si limita a segnare con sconcertante regolarità, ma si toglie lo sfizio di siglare reti da antologia e deliziare anche i palati più fini con giocate degne di una leggenda calcistica. Insieme a Dennis Bergkamp, Robert Pires e Patrick Vieira è il simbolo dell’Arsenal più vincente della storia, diventandone da lì a poco il simbolo, il capitano.

Dopo otto anni di idillio, però, è troppo forte la tentazione di andare a Barcellona, dove ha l’occasione di giocare con Ronaldinho ed Eto’o per dar la caccia alla Champions League, trofeo sfiorato troppe volte in carriera. In blaugrana accetta di tornare a giocare sulla fascia, lasciando il centro dell’attacco al camerunense. Un sacrificio che testimonia molto chiaramente quanto Henry sia stato un campione, capace di mettersi al servizio della squadra pur di raggiungere con essa i più grandi traguardi.

Nei tre anni con la camiseta azulgrana incanta il pubblico del Camp Nou e ha l’occasione di svezzare una giovane stella, quel Lionel Messi per cui qualche anno più tardi userà parole al miele: “Lionel Messi is the best player in the world but I respect the amount of work Cristiano Ronaldo has put into the game. Messi is just a freak. It is nice for kids to watch as they can see one guy who was given a gift and the other guy who does it through hard work“.
E così dopo aver vinto tutto in Spagna, in Europa e nel mondo, Thierry Henry diventa ambasciatore del calcio negli States, proprio come Pelè. Perchè d’altronde, come disse Camus, “non c’è un altro posto del mondo dove l’uomo è più felice che in uno stadio di calcio“.
Ma la favola, la storia sportiva di questo grande uomo, non poteva finire così. Prima di dire addio un saluto alla sua gente era doveroso. E così, anche se per soli quattro spezzoni di match, Henry decide di tornare profeta in patria, giocando ancora una volta dinnanzi ai tifosi dell’Arsenal, segnando per loro un’ultima rete, la numero 228.

Anche la sua storia con la maglia dei Bleus è una storia d’amore. Il suo talento si rivela durante i Mondiali Under 20 in Malaysia nel 1997. Nel giro di soli quattro mesi, il CT Aimé Jacquet decide di convocarlo in Nazionale maggiore facendolo debuttare nell’ottobre 1997 (2-1 contro il Sudafrica). Viene convocato per i Mondiali casalinghi del 1998 dove realizza ben  reti facendosi notare dai talent scout di tutta Europa. Laureatosi anche Campione d’Europa nel 2000, Henry è presente anche ai mondiali nippo-coreani del 2002 (con la Francia protagonista in negativo) e agli europei del 2004 (2 reti in 4 partite). Ancora protagonista nel 2006 (finale persa contro l’Italia), Henry partecipa al suo quarto mondiale nel 2010 dove a Bloemfontein contro il Sudafrica (proprio la squadra con cui  aveva esordito) disputa la sua ultima partita con la maglia dei Blues con la quale supera il record di marcature di Michel Platini diventando il secondo giocatore con più presenze. Il 15 luglio 2010 annuncia il suo addio alla Nazionale dopo 13 anni in cui ha disputato 123 partite e segnato 51 gol.

Thierry Henry potrebbe prendere palla in mezzo al campo e segnare un gol che nessun altro al mondo potrebbe segnare“, come diceva Wenger. Ma Henry è stato un grande uomo ancor prima che un campione, un esempio in campo e fuori. Simbolo della lotta contro il razzismo, Henry avrebbe meritato il Pallone d’oro, ma in fondo è in buona compagnia.

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