HOFFMANN Martin: Al di là del muro

In tutti i successi internazionali del calcio della Germania Est c’è il contributo di questo attaccante, che in carriera ha vestito solo due maglie: quella del Magdeburgo e quella della nazionale targata DDR

  • di Alec Cordolcini

NEL SUO libro sulla storia del calcio tedesco, dal titolo “Tor!” (“gol”), il giornalista Ulrich Hesse-Lichtenberger espone il paradosso del calcio nella Repubblica Democratica Tedesca. Un settore giovanile tra i più produttivi (tre successi agli Europei Juniores, datati 1965,1970 e 1986), una nazionale capace di battere, in un singolo incontro, l’Olanda di Cruijff, la Germania di Beckenbauer e la Francia di Platini, e squadre di club che nel corso della propria carriera europea hanno avuto ragione di club di blasone quali Barcellona, Inter, Milan, Leeds, Benfica, Porto e Juventus.

Eppure da questo nugolo di premesse è scaturita solo una partecipazione ai Mondiali (e nessuna agli Europei), un oro olimpico (più un argento e due bronzi), e tre finali di Coppa delle Coppe, due delle quali perse. Un paradosso che Hesse-Lichtenberger riconduce a tre fattori: una Federazione, la DTSB, che privilegiava quelle discipline (nuoto, atletica) che potevano garantire ori olimpici e primati mondiali (la cosiddetta politica dei “soldi per l’oro”); una visione dello sport non lontana da quella nazista, ben riassunta nella dichiarazione del presidente della DTSB Manfred Ewald, secondo il quale «lo sport non è un divertimento privato, ma un momento di educazione sociale e patriottica, e i nostri atleti gareggiano per dimostrare la superiorità del nostro sistema politico»; infine una filosofia calcistica che allo sviluppo del talento individuale ha sempre anteposto il concetto di lavoro di squadra. Il risultato? Un futuro da grande appena sfiorato e pochi successi, tutti però caratterizzati da un unico denominatore comune: Martin Hoffmann.

Nato nella cittadina di Gommem il 22 marzo 1955, poco meno di due mesi prima della firma tra Ddr, Urss e altri sei paesi dell’Europa orientale di “un trattato di amicizia, cooperazione e mutua assistenza” noto in seguito come Patto di Varsavia, nella sua carriera calcistica Hoffmann ha vestito solamente due maglie, quella del Magdeburgo, tra le cui fila è entrato all’età di 13 anni rimanendovi fino al 1987 collezionando in prima squadra 255 partite e 78 gol, e quella della nazionale, dove vanta 66 presenze e 16 reti.

Hoffmann tra Pizzaballa e Anquilletti nella finale di Coppa Coppe 1974

Ma, come detto, il suo nome resta legato a tutti i momenti più importanti nella storia del calcio della Germania Est, tre per la precisione. Il primo si verificò l’8 maggio 1974, quando il Magdeburgo conquistò la Coppa delle Coppe battendo al De Kuip di Rotterdam il Milan 2-0. «Iniziammo la nostra avventura a Rotterdam e la concludemmo nella medesima città» ricorda anni dopo Hoffmann. Già, perché nel primo turno i tedeschi affrontarono gli olandesi del Nac Breda, ma l’andata si giocò nella città ‘ portuale perché lo stadio del Nac non disponeva ancora di un impianto di illuminazione notturna. Finì 0-0.

Al ritorno il 19enne Hoffmann, veloce attaccante sinistro schierato in coppia con Jurgen Sparwasser, il bomber della squadra, realizza la rete del definitivo 2-0. Si ripeterà nel turno successivo contro il Banik Ostrava, permettendo al Magdeburgo di rimontare lo 0-2 subito in Moravia e di accedere ai tempi supplementari, dove Sparwasser risolverà la pratica. Successivamente cadono Beroe Stara Zagora e Sporting Lisbona, infine il Milan di un Trapattoni subentrato e alle prime esperienze in panchina, ma pur sempre un Milan detentore del trofeo (vinto l’edizione precedente ai danni del Leeds) che in campo schierava Rivera, Schnellinger, Anquilletti, Bigon e Benetti.

«Eravamo assolutamente sfavoriti e credo che tutti si aspettavano da noi una partita ultra-difensiva. Invece sorprendemmo i rossoneri aggredendoli sin dal primo minuto».

Un’autorete di Lanzi e un gol di Seguin regalano alla Ddr il primo e unico trofeo europeo per club. Per Hoffmann l’anno magico continua con l’esordio al Mondiale tedesco del ’74; ha 19 anni, è il secondo giocatore più giovane dell’intera manifestazione, e dopo il debutto contro l’Australia va in rete contro il Cile. Il presidente della Ddr Honecker promette ai giocatori una Trabant come premio in caso di piazzamento finale tra le prime tre squadre; Hoffmann, privo di patente, inoltra richiesta per avere invece un motorino.

Hoffmann e Zè Maria a Monaco 74 (Brasile-DDR 1-0)

Poi arriva il gran giorno, l’incontro con la Germania Ovest. Economia di mercato contro economia di stato, ricchi contro poveri, professionisti contro dilettanti; una balla colossale quest’ultima, perché anche i nazionali Ddr erano professionisti a tutti gli effetti, e l’occupazione dichiarata (Hoffmann ad esempio era operaio) era in realtà solo un’operazione di facciata voluta dal regime.

Il campo dice Germania Est, che batte i futuri campioni del mondo grazie ad una rete di Sparwasser. Apoteosi in patria e passaggio al secondo turno, dove la Ddr è attesa da un girone impossibile comprendente Olanda, Brasile e Argentina. Lì termina l’avventura, non il ricordo di un’impresa dal significato che va oltre il semplice aspetto sportivo.

Il terzo successo, questa volta maggiormente tangibile, arriva due anni dopo alle olimpiadi di Montreal. La Ddr, guidata da un Hoffmann in gran forma, supera in finale 3-1 la Polonia di Deyna, Lato e Szarmach, con il nostro che firma la rete del raddoppio. Sarà uno degli ultimi bagliori in campo internazionale.

Hoffmann nella finale del torneo olimpico 1976

Terminati i giorni della gloria, Hoffmann torna ad dedicarsi esclusivamente al suo Magdeburgo, e quando all’età di 32 anni abbandona il calcio, il suo palmarès parla di tre campionati (’72, ’74 e ’75) e cinque Coppe di Germania Est (’69, ’73, ’78, ’79 e ’83) vinte. Crollato il muro di Berlino, la fusione tra Bundesliga e Oberliga vede il Magdeburgo risucchiato nelle divisioni inferiori, dalle quali non è più riuscito ad emergere.

Nel corso degli anni Hoffmann ha fatto di tutto per il suo club, talent scout, assistente tecnico e allenatore. Oggi sembra essere definitivamente uscito dal grande giro, coerente con quel carattere di anti-personaggio che lo ha sempre accompagnato, nei successi come nei fallimenti. Rimane un’icona vera, il simbolo di un calcio che la storia ha spazzato via.

  • Alec Cordolcini (ha collaborato Gian Luca Spessot)